AMBROSI, Melozzo degli, detto Melozzo da Forlì
Nacque nel 1438 in Forlì, dove la sua famiglia ("de Ambrosiis" o "de Ambroxiis") risiedeva da almeno quattro generazioni. È ignota la professione del padre, Giuliano di Melozzo; sappiamo tuttavia che la famiglia non era estranea all'ambiente artistico locale, poiché la madre, Iacopa di Francesco, era cognata di Matteo di Ricevuto, architetto del Palazzo del Podestà di Forlì, e il fratello Francesco era orefice. Il matrimonio della sorella Margherita gli acquisì lontani legami di parentela con due ignoti pittori, Paolo e Bartolomeo di Sante.
Nessun documento ci dà notizie certe della sua attività fino al 1477, quando era a Roma al servizio di Sisto IV. Prima di questa data è ricordato in atti notarili che accertano la sua presenza in Forlì nel 1460 (21 aprile) e nel 1461 (2 dicembre), per acconsentire alla vendita, da parte della madre rimasta vedova, di alcuni beni; e nel 1464 (14 dicembre) per cedere i propri diritti sull'eredità paterna; non se ne può dedurre se soggiornava nella sua città o se vi si trovava occasionalmente.
Tutto quanto riguarda la sua formazione, i suoi viaggi e i suoi contatti con altri artisti, in totale circa vent'anni di attività, resta quindi nel campo delle ipotesi. La sua attività dovette essere molto notevole, tale da giustificare l'importanza degli incarichi affidatigli in Roma, in un momento in cui vi convenivano al servizio del pontefice i maggiori pittori, e la fama di cui godeva già nel 1478, quando Giovanni Santi lo ricordava nella sua Cronaca rimata, vantando rapporti di amicizia con lui e attribuendogli una lode non generica, ma indicativa di quello che doveva essere già uno degli aspetti particolari della sua arte, e che più impressionò i contemporanei: "... Melozo a me sì caro / che in prospettiva ha tanto steso il passo''.
La storiografia ottocentesca - dal Lanzi fino allo stesso Cavalcaselle - suppose che la formazione artistica di Melozzo dovesse porsi in relazione col conterraneo Ansuino, e quindi con la scuola padovana e col Mantegna. È chiaro che l'accostamento veniva suggerito dalla comunanza di patria con Ansuino e dalla comunanza di fama di prospettico col Mantegna. Ma già il Lanzi avverte che "alcuni lo fanno scolaro di Pietro della Francesca'', e il Cavalcaselle nota "associati i caratteri del Mantegna con quelli derivati dalla scuola di Piero della Francesca''.
La critica contemporanea, senza negare una possibile ma non determinante conoscenza delle opere del Mantegna, ha messo il punto su alcuni fatti artistici che aiutano a chiarire il problema: l'opera di Piero nella vicina Rimini (già nel 1451), il suo passaggio per città dell'Emilia e delle Marche, la sua lunga familiarità con la corte dei Montefeltro, accertano che Melozzo ebbe in giovinezza facilità di vederne le opere e forse di legarsi di personale conoscenza con lui; d'altra parte, l'innegabile influenza che Bramante rivela di aver subito da Melozzo nei suoi affreschi di Bergamo (del 1477) ci dà la certezza di un precedente incontro tra i due artisti, che non poté avvenire se non ad Urbino, dove la presenza di Melozzo può trovare una conferma anche nel già ricordato legame di amicizia con Giovanni Santi; infine, il fatto che il processo di italianizzazione di Giusto di Gand e del Berruguete, che lavoravano alla decorazione pittorica della biblioteca e dello studiolo ducali, si svolge in modi melozziani, dimostra che almeno una parte dell'attività di Melozzo precedente la venuta a Roma ebbe campo nell'ambiente urbinate, fucina di cultura umanistica, fervido di contatti artistici e di scambi durante il ducato di Federico. In alcune figure dei Filosofi, nelle quattro Allegorie delle Arti Liberali destinate alla biblioteca (ora divise fra la National Gallery di Londra e gli Staatliche Museen di Berlino), e soprattutto nel Ritratto del Duca con il piccolo Guidubaldo, anche se l'esecuzione non può attribuirsi allo stesso Melozzo, pure la sua personalità appare così vivamente dominante da indicare una stretta collaborazione tra lui e il giovane Berruguete, nel senso che quest'ultimo abbia tradotto cartoni o almeno seguito concetti direttivi e suggerimenti di Melozzo. Poiché la data 1476 segnata nello studiolo sembra indicare il compimento della decorazione, dobbiamo dedurne che la permanenza di Melozzo in Urbino, non sappiamo quando iniziata, si protraesse sino a circa quell'anno. Vi resta di lui una unica opera sicuramente autografa, l'austero Cristo benedicente, ora in quella Galleria Nazionale (di provenienza non sicura, ma certo da una chiesa della città o dei dintorni immediati), che con grande semplicità di mezzi compositivi giunge a una solenne grandezza spaziale.
I precedenti di questo periodo urbinate sono da ricercare in un gruppo dì opere che, per la meno definita impronta stilistica, dovrebbero riferirsi a un periodo più giovanile; ma la lacunosità dei confronti e il cattivo stato di conservazione, che in quasi tutte ne rende difficile la lettura, hanno portato a giudizi e quindi a conclusiom discordi.
Provengono da Forlì, e potrebbero documentare un attività di Melozzo nella sua città natale, il Pestapepe, già insegna di spezieria (Forlì, Pinacoteca), e le due ante d'organo con l'Annunciazione nel recto e due figure di Santi, mutile, nel verso (Firenze, Uffizi); ma le due opere non trovano concorde la critica nell'attribuzione. La prima per i suoi caratteri ferraresi è attribuita dal Longhi (Officina Ferrarese, Firenze 1956,p. 30) al Cossa nel momento di Schifanoia; per la seconda le riserve sono suggerite dal cattivo stato di conservazione, soprattutto delle due figure esterne, sfigurate da ridipinture.
Altrettanto incerto è il giudizio sul gruppo - non omogeneo - di dipinti esistenti in Roma, per i quali si è supposto un soggiorno romano di Melozzo verso il 1470. Fra questi è quasi concordemente ritenuto autografo il S. Marco Evangelista (basilica di S. Marco), forse originariamente uno stendardo, purtroppo molto abraso. Più problematica è l'attribuzione del S. Marco papa (ivi), che ha subìto le stesse vicende attributive dell'altra tela, benché tanto più scarsamente caratterizzato, del S. Sebastiano con due donatori (Museo di Palazzo Venezia), oggi quasi unanimemente attribuito ad Antoniazzo; del Santo pontefice (già Roma, coll. Fabbri, ora Cambridge, S.U.A., Museo Fogg); e dell'Annunciazione del Pantheon. Infine, forzando l'interpretazione di un documento, è stata supposta ancora anteriore a queste opere, del 1460, la copia della Madonna bizantina di S. Maria del Popolo (Montefalco, Museo), identificata con quella fatta dipingere da Alessandro Sforza signore di Pesaro, ch'è ricordata in un epigramma in cui se ne magnifica l'autore, Melozzo, come emulo di S. Luca. L'alta qualità fa sì che la critica sia quasi tutta concorde nella attribuzione di questo dipinto, che però, per il suo carattere di copia, non offre elementi per una precisazione di data.
La presenza di Melozzo a Roma è certa nel 1477. Alcune note di pagamento, una del 15 gennaio "Magistro Melotio pictori pro pictura quam pingit in bibliotheca'' e altre due, del 7 maggio e del 10 ottobre, al suo garzone Giovanni (identificato, senza sufficiente fondamento, con Giovanni Santi o con Giovanni del Sega), si riferiscono all'affresco con Il Platina inginocchiato dinnanzi a Sisto IV, dipinto per la Biblioteca del Pontefice (il locale attualmente detto della Floreria), donde fu distaccato nel secolo scorso e trasferito alla Pinacoteca Vaticana.
Fra le poche opere superstiti di Melozzo questa è la sola che ha una data sicura, ed è l'unico affresco monumentale, autografo, che ci è pervenuto nella sua integrità. È quindi uno dei capisaldi per la conoscenza dell'artista. Se il riferimento a Piero della Francesca è palese nella saldezza delle architetture corporee e nella chiara luminosità diffusa, profondamente diversa è la visione pittorica di Melozzo; la sua realtà non è eterna, ma contingente; le immagini ch'egli ci presenta non sono incorruttibili, fuori del tempo, ma puntualmente definite nel loro aspetto fisico, esaltate nella loro individualità; e l'ornatissima architettura, in prospettiva sfuggente -giustificata dall'originaria ubicazione dell'affresco -è così ricercatamente illusiva che se ne è voluto vedere un riscontro in ambienti reali.
Con quest'opera, celebrativa di un avvenimento dei primi anni del papato di Sisto IV, Melozzo è alle dipendenze dei Della Rovere. Nell'atto di promulgazione degli Statuti dell'Accademia di San Luca (17 dic. 1478) troviamo il suo nome con la qualifica di pittore papale ("Melotius Pi.Pa."). E il cronista forlivese Leone Cobelli, che gli fu intrinseco amico, ricorda che "fè molte dipintorie al papa Sisto magni et belli, e fè la libraria di papa Sisto''. Fra queste "dipintorie" erano appunto gli affreschi, di cui non resta più traccia, eseguiti nella biblioteca "segreta"del papa in collaborazione con Antoniazzo, per i quali restano note di pagamento dal 30 giugno 1480 al 10 apr. 1481.
Pure legata al nome dei Della Rovere èl'opera di Melozzo più celebrata, della quale purtroppo restano solo pochi frammenti: l'affresco déll'abside dei SS. Apostoli. Non se ne può precisare la data, che dalla iscrizione relativa ai restauri della chiesa, dovuti al cardinal nepote Giuliano (il futuro Giulio II), sembra debba porsi sotto il pontificato di Sisto IV. Il libero espandersi delle immagini sulla chiarità del cielo e il nuovo ardimento della concezione fanno tuttavia ritenere che alcuni anni intercorrano fra l'affresco del Platina e questa opera, preludio di ampiezze cinquecentesche.
Al sommo della conca absidale, entro uno stuolo compatto di angioletti, ascendeva il Cristo, e intorno grandi angeli musicanti si libravano in moto; in basso gli apostoli dovevano distanziarsi a intervalli regolari.
Quando l'abside fatiscente fu demolita all'inizio del '700, l'affresco era rovinatissimo, e se ne salvarono solo i noti frammenti: la figura del Cristo (scalone del Quirinale), due gruppi di angioletti, otto figure di angeli, quattro teste di apostoli (Pinacoteca Vaticana).
L'ultima opera di questo soggiorno romano dev'essere stata la decorazione - scomparsa - di una cappellina di S. Maria in Trastevere, ricordata nella guida del Mancini, ch'è da identificare con quella che il forlivese cardinale Stefano Nardini eresse e fece decorare nel 1484. Il 12 agosto di quell'anno moriva Sisto IV; nello stesso mese, secondo la testimonianza del Cobelli, Melozzo era a Forlì.
La datazione delle opere che debbono presumersi posteriori a quell'anno è di nuovo avvolta nell'incertezza. La decorazione della sagrestia del Tesoro di Loreto ebbe pure come committente un Della Rovere, il cardinale Girolamo Basso, preposto alla basilica dallo zio pontefice; ma non vi appare l'arme di Sisto IV, ed è verisimile la supposizione che sia stata eseguita dopo la morte di lui. Qui gli interessi prospettici sono dominanti, e il legame compositivo è dato dalla architettura dipinta: intorno alla cupola ottagona una cornice di potente aggetto sostiene ornatissimi pilastri fra cui si aprono finestre rettangolari; sulle cornici siedono isolate figure di Profeti; angeli immoti sono sospesi dinanzi alle finestre. Com'è noto, l'esecuzione fu per intero affidata ad aiuti (fra i quali si suppone fossero il Palmezzano e Giovanni Santi), sì che ne risulta una mancanza di unità fra la grandiosa concezione e la realizzazione pittorica. La decorazione, che doveva estendersi a tutte le pareti della sacrestia, fu interrotta dopo l'esecuzione della sola lunetta con l'Entrata di Gesù in Gerusalemme, anch'essa condotta da collaboratori.
Un atto di vendita del suo procuratore in Forlì indica che Melozzo nel 1489 (9 maggio) è nuovamente a Roma. Il suo nome si trovava precedentemente ricordato nel testamento della madre, datato in Forlì, il 23 genn. 1487, e in un codicillo dell'11 dicembre, ma non risulta ch'egli si trovasse presente. A questo periodo romano si attribuisce il mosaico della volta della cappella di S. Elena in S. Croce in Gerusalemme, ma anche per la datazione di quest'opera non vi è certezza né per indizi esterni né per particolarità di stile, alterato dalla tecnica stessa e da successivi rimaneggiamenti. Non è una concezione unitaria che presiede alla decorazione di questa volta, scompartita in quattro ovali con le immagini degli Evangelisti uniti al tondo centrale dov'è la mezza figura del Cristo benedicente. L'inaspettato arcaismo nella divisione dello spazio e la preziosa ricchezza degli ornati con frnde e uccelli possono esser stati suggeriti dagli avanzi del preesistente mosaico di Valentiniano III. Più chiara è l'impronta melozziana nelle figure di Santi entro nicchie degli arconi laterali.
Due note di pagamento, del 14 febbraio e del 3 maggio 1493, ci informano della dimora di Melozzo in Ancona, dove dipingeva in una sala del Palazzo Comunale. Non si hanno altre notizie di questo lavoro, compiuto o interrotto poco dopo: il 18 maggio infatti Melozzo lasciava le sue robe in Ancona e partiva per Forlì, dov'è ricordato in due rogiti dell'anno successivo (del 28 febbraio e del 18 dicembre) per concessione a metà frutto di suoi poderi; in Forlì lo vide Luca Pacioli, che nella Summa de Arithmetica (Venezia, 1494) lo ricorda: "E in Furlì Melozzo con suo caro allievo Marco Palmegiani, quali sempre con libella et circino lor opere proporzionando a perfezion mirabile conducono''. Questo elogio di proporzione perfetta si addice alla cupola della cappella Feo nella chiesa di S. Biagio -distrutta in un bombardamento nella seconda guerra mondiale -che anche per ragioni storiche deve datarsi in quegli anni. In essa la concezione architettonica della cupola di Loreto appariva depurata da ogni elemento superfluo, ed era raggiunta un'altissima e coerente unità tra le figure dei profeti, espanse sul cerchio di base, e il digradare a zig-zag del cassettonato dipinto. L'impronta di Melozzo, dominante nella cupola nonostante l'intervento di aiuti, appariva tanto affievolita negli affreschi delle pareti da far ritenere che la morte gli avesse impedito di dirigere quella parte della decorazione.
Melozzo morì a Forlì l'8 nov. 1494, secondo la testimonianza del Cobelli, e fu sepolto nella chiesa della SS. Trinità.
Non abbiamo documenti iconografici che lo rappresentino: si è supposto suo ritratto uno dei personaggi della lunetta di Loreto, ma senza sicuro fondamento; altrettanto dubbia è l'identificazione di un disegno di Berlino, supposto autoritratto dal Lanyi, ritenuto invece di Ercole de' Roberti dal Longhi (op. cit., p. 134); troppo scarsamente caratterizzata è la mezza figura d'uomo con la scritta "Me/lot/ius/pito/r'' in una mattonella dell'inizio del '500 nel Victoria and Albert Museum di Londra, proveniente dalla cappella Lombardini in Forlì. Né le tre immagini presentano fra loro somiglianze particolari.
Oltre quelle citate, le opere più frequentemente attribuite a Melozzo, non senza contrasti, sono: il ritrattino di Fanciullo in profilo, supposto Guidubaldo da Montefeltro, nella Galleria Colonna di Roma; il Cristo benedicente della Galleria Sabauda di Torino; l'affresco col Cristo risorto sulla tomba del vescovo Juan Diego de Coca alla Minerva a Roma. Infine si è preteso di leggere il suo nome e la data 1475 negli affreschi del presbiterio di S. Giovanni Evangelista a Tivoli, oggi generalmente ritenuti opera di Antoniazzo, nel periodo di maggior accostamento a Melozzo. Si ha notizia di altre due decorazioni murali condotte con intenti prospettici, entrambe scomparse: la cupola della chiesa dei Cappuccini in Forlì, demolita nel 1651, e una cappella a Roma, in S. Maria Nuova.
A una tradizione -di cui la prima notizia è della fine del '700 -che accenna incertamente a un'attività di Melozzo come architetto, e che è stata recentemente accolta, contraddice il silenzio dei contemporanei che nondimeno parlando di lui insistono particolarmente sulle sue capacità di prospettico.
Bibl.: L. Venturi, Contributi a Melozzo, a Colantonio, a Paolo Veronese, in L'Arte, n.s. I (1930), pp. 289-299; V. Federici, Una sottoscrizione di M. da F., in Arch. d. Soc. romana di storia patria, LIII-LV (1930-32), pp. 405-408; R. Buscaroli, La pittura romagnola del '400, Faenza 1931, pp. 89-167; V. Pacifici, Un nuovo ciclo di affreschi di M. da F., in Atti e Mem. d. Soc. Tiburtina di storia patria, XI-XII (1931-32), pp. 161-181; G. Nicodemi, M. da F., Bergamo 1935; W. Arslan, L'eredità di M. da F., in Melozzo da Forlì, 1 ott. 1937, pp. 19-22; R. Pallucchini, M. da F., in Emporium, LXXXVII (1938), pp. 115-130; P. Toesca, M. da F. nel V centenario della nascita, in Nuova Antologia, 1 giugno 1938, pp.. 314-322; F. Filippini, M. e gli Sforza, in Melozzo da Forlì, 2 gennaio 1938, pp. 58-66; 3 apr. 1938, pp. 114-125; A. Pasini, Documenti che riguardano M. e la sua famiglia, ibid., 1 ott. 1937, pp.. 45-47; 2 genn. 1938, pp. 97-101; 3 apr. 1938, pp. 161 s.; 5 ott. 1938, pp. 269 s.; 6 genn. 1939, pp. 321 s.; 7 apr. 1939, pp. 385 s.; R. Buscaroli, La Madonna di S. Luca di M., ibid., 3 apr. 1938, p. 149; G. Fiocco, Un disegno giovanile di M., ibid., 5 ott. 1938, pp. 246 s.; F. Filippini, Un ritratto di M. da F., ibid., 5 ott. 1938, pp. 229-231; J. Lanyi, Un autoritratto di M. da F., in Critica d'Arte, III (1938), pp. 97-103; C. Gnudi, Mostra di M. e del Quattrocento romagnolo, Forlì 1938; R. Buscaroli, M. da F. nei documenti, nelle testimonianze dei contemporanei e nella bibliografia, Roma 1938; A. Corbara, Notizie ed appunti, in Melozzo da Forlì, 7 apr. 1939, p. 379; A. Bertini Calosso, Gli affreschi di M. nella chiesa di S. Maria Nova al Foro Romano, ibid., 7 apr. 1939, pp.. 358-365; L. Coletti, Lotto e M., in Le Arti, I (1939), pp. 248-257; E. Zocca, Un probabile M., in L'Arte, XLIII (1940), pp. 87 s.; W. E. Suida, Mantegna and M., in Art in America, XXXIV (1946), pp.. 57-72; R. Buscaroli, M. e il melozzismo, Bologna 1955; U. Thieme-F. Becker, Allgem. Uxikon der bildenden Künstler, XXIV, pp. 370-372 (con ulteriore bibliogr.); Encicl. Ital., XXII, p. 820; U. Galetti-E. Camesasca, Encicl. della Pittura italiana, pp. 1639-1646.