BERRUTI, Amedeo
Medico ducale sabaudo intorno al 1461 il padre, Michele, e poi castellano di Moncalieri a più riprese fra il 1474 e l'86; forse della ricca famiglia moncalierese dei Duc la madre - come il Tenivelli congetturò non senza argomenti, ma il cui nome non siconosce -, il B. nacque verso il 1470 a Torino o a Moncalieri. Torinese era probabilmente il padre.
La famiglia del B. si impiantò a Moncalieri assai bene, divenne patrizia della città e possedette nei suoi dintorni una terra, il Colombero. In quei luoghi il B. crebbe e li ricordo poi sempre con particolare attaccamento: fu quello un tratto della sua personalità non meramente sentimentale, e che si deve cominciare a notare subito. Nel 1490 egli si addottorò presso lo Studio torinese in utroque iure; poi, non si conosce con sicurezza quando, divenne sacerdote. E poi viaggiò per qualche tempo in vari paesi europei, ritornando per altro abbastanza presto a Moncalieri dove fu fatto membro di quei Consiglio comunale dei cento capi di casa, ma dove non rimase stabilmente, dividendosi fra quella città e Torino, perché a Torino il vescovo cardinale Domenico Della Rovere, in giovinezza prevosto della collegiata di S. Maria della Scala e Testona a Moncalieri, l'aveva nominato vicario generale della diocesi. Nella stessa funzione egli rimase con il successore di Domenico, Giovanni Ludovico Della Rovere, dal 1501; e nell'aprile 1501 concluse e presentò in quei sinodo diocesano una raccolta di costituzioni, ottantaquattro articoli di ecclesiastica disciplina che dovevano valere nella diocesi e che erano stati voluti dal nuovo vescovo. Nel 1506 egli era vicario dei vescovo di Vercelli, Bonifacio Ferrero.
Dal conseguimento del dottorato ai viaggi, al vicariato generale, alla raccolta degli articoli di disciplina ecclesiastica, dai Della Rovere al Ferrero, il B. si trovò infine ad aver fatto esperienze sufficientemente ricche, specie di cultura e di mondo, per ambire una vita di ulteriori soddisfazioni. Era di forte aiuto a quellaspirazione l'agiatezza della sua famiglia, né d'altro canto l'andare a Roma, come egli si proponeva, l'avrebbe necessariamente sradicato dalla sua città e dallo Stato nel quale tale città era, perché in quello Stato, dal vertice dei complesso potere sabaudo come dai termini della quotidiana esistenza, l'intrinsichezza della vita religiosa con la vita politica era delle più forti, e fra il cattolico potere sabaudo e il papato correvano rapporti di non minore intensità. Il B. si trasferì dunque a Roma, alla corte di Giulio II e poi di Leone X.
Risale agli anni del primo papa il suo Dialogus, che non è tanto significativo, come è apparso ad altri, di eccellenza di stile in quell'altissimo clima rinascimentale e di originalità di temi (la vera amicizia, le miserie del mondo curiale romano), quanto piuttosto della precisa esigenza morale dei suo autore che vedeva le miserie dei curiali nel loro medesimo e discusso ambiente. Animò il dialogo l'amicizia per il cugino dei B. Giovanni Duc, moncalierese; e insieme con essa caratterizzò buone pagine del B. il ricordo dei luoghi della prima giovinezza di lui, seppure il B. non lasciasse il dispendioso, e come tale lamentato, soggiorno romano e continuandolo proseguisse poi, al tempo di Leone X, anche il dialogo, aggiungendo allora ad esso attente considerazioni sui doveri dei magistrati: egli, fatto da quel pontefice il 28 giugno 154 governatore di Roma succedendo a Bernardo Rossi vescovo di Treviso, e fatto altresì vice camerario nella Camera apostolica. Ma appunto le sue maggiori fortune negli anni del papa mediceo, dei governatorato, e la parte che via via egli prese ai lavori del V concilio lateranense, andarono maturando in lui un certo allontanamento dalle posizioni dei primi tempi romani ed ancor più di quelli piemontesi.
Non è forse dato sapere come si desidererebbe quale fu il personale contributo del B. alle sessioni del concilio; ma se anche egli non fu, come invece è possibile sia stato, fra i dottori delle prime sessioni del 1512-13, è molto probabile che abbia accompagnato alla sesta sessione del 27 aprile e all'ottava del 19 dic. 1513 Giovanni Francesco Della Rovere, succeduto nel vescovado torinese allo zio Giovanni Ludovico.
Occorre ricordare la presenza, nella terza sessione del 3 e nella quarta del 10 dic. 1512, e poi nella sesta, di Ercole d'Azeglio vescovo di Aosta e oratore di Carlo II duca di Savoia. In quella sesta sessione fu istituita con altre e cominciò a lavorare una II commissione, il cui oggetto era la riforma della Curia e dei suoi ufficiali: ne fece parte anche l'Azeglio. Presente questi pure nella settima sessione del 17 giugno 1513; presente a sua volta nell'ottava e nella nona del 5 maggio 154 Claude de Seyssel, il grande savoiardo e consigliere ducale sabaudo, allora vescovo di Marsiglia e oratore del re di Francia Luigi XII, uomo fra i più sinceri nel volere una riforma della Chiesa cattolica; presente nell'ottava e nella decima sessione del 4 maggio 1515 il Della Rovere; siamo dinanzi agli uomini e al motivi che meglio possono spiegare come poté il B. partecipare al concilio.
Il B. si batté essenzialmente per la riforma della curia, per le libertà ecclesiastiche negli Stati cattolici, nell'ambito di un orientamento generale comune a lui e all'Azeglio, al Seyssel, al Della Rovere, che nell'ottava sessione aveva letto una bolla stabilente alcune prime misure intese a ridurre i discussi proverti dei curiali, e comune a quanti altri fra i padri conciliari avvertivano la necessità di un rinnovamento della Chiesa. Per altro, poi, va osservato che nell'orientamento comune il B., governatore di Roma e vice camerario dopo aver negoziato per conto di Leone X le nozze di Giuliano de' Medici con Filiberta di Savoia, andò portando alle libertà della Chiesa e particolarmente del potere ecclesiastico un interesse, che di loro accentuava il carattere che potrebbe dirsi romano, e nella relazione con il potere laico ricercava nettamente la supremazia dell'ecelesiastico. E quel suo interesse si vide bene soprattutto dopo che dal 13 giugno 1515, morto l'Azeglio, Leone X lo costituì vescovo di Aosta.
Anche allora, infatti, il B. rimase a Roma. Qui lo impegnava il governatorato, le cui funzioni, che potrebbero dirsi in largo senso di polizia, il pontefice aveva riorganizzato nel 1514: e così gli accadde fra l'altro di dover intervenire con risolutezza dal 25 luglio 1515, più volte, in un contrasto fra gli uomini del cardinal Sanseverino e i propri. Al lavoro di governatore si univa quello conciliare. E di conseguenza non di persona, ma ricorrendo agli uffici di un procuratore che fu noble Etienne Mestralis, il 25 apr. 1516 il B. prese possesso del vescovado aostano; e poi fu il vicario capitolare Bartolomeo Pensa che seguitò a curare per conto suo le cose della diocesi, come aveva già fatto in precedenza per l'Azeglio. Il B. lasciò Roma solo quando il concilio nel marzo 1517 ebbe fine; vi pubblicò ancora, nel maggio, il suo Dialogus, e lo dedicò al Seyssel che stava allora perfezionando il suo passaggio dal vescovado di Marsiglia all'arcivescovado - tale dal 1515 - di Torino; e finalmente, il 27 settembre successivo, giurò ad Aosta dinanzi a tutto il clero di osservare gli statuti e le coutumes della Chiesa valdostana.
Ma nella diocesi di Aosta, fra il 1515 e il '17, gli interessi ecclesiastici e laici avevano continuato a svolgersi con la particolare libertà che veniva a tutti, canonici della cattedrale e ufficiali ducali e nobili, e via dicendo, dalle assenze dei vescovi, dal possesso di tanti diritti personali e locali economici politici e giuridici perpetuantisi nella Valle dai più antichi tempi, feudali più che ecclesiastici; e se il clima giurisdizionalistico valeva in tutto lo Stato sabaudo e il B. lo conosceva bene, e sapeva come in esso in sostanza ci fosse gran posto per la Chiesa, egli non conosceva ancora la difficoltà dei rapporti più minuti, a un diverso livello, ai quali giungeva un tal clima nella valle d'Aosta.
Al Mestralis suo procuratore i canonici avevano dichiarato di accettare il nuovo vescovo senza opposizioni, ma avevano insieme chiesto che il B. si impegnasse con giuramento venendo poi nella Valle - e come il B. allora fece - a rispettare le prerogative di quella Chiesa; e subito dopo il B. trovò che il priore della collegiata di S. Orso ad Aosta, Charles de Challant, commissario ducale durante la vacanza seguita alla morte dell'Azeglio, richiedeva da lui una somma perché in quel tempo aveva amministrato i beni del vescovado: dal 1451 valeva infatti nello Stato sabaudo una condizione, concordata fra il papa Niccolò V e il duca di Savoia Ludovico, successivamente ribadita e perfezionata da Sisto IV e poi via via sino allo stesso Leone X, per cui i vescovadi e i benefici maggiori dovevano essere dati a persone accette al duca e nel ducato nate o almeno effettivamente abitanti, e al duca si faceva capo anche durante la vacanza di tali sedi.
Riuscì al B. di raggiungere con il priore Challant, su quella somma, un accordo; lo stesso risultato non gli riuscì invece con il capitolo della cattedrale che durante la medesima vacanza, "pour les afferes de l'esglise", aveva sostenuto delle spese. A quel capitolo, da Chambéry il 23 luglio 1516, il duca medesimo aveva dovuto ricordare che il nuovo vescovo era consigliere ducale, aveva così dovuto sostenerlo per ricordate il suo proposito di pagare; ma se con il priore di S. Orso e commissario ducale il B. aveva potuto accordarsi, allora, in qualche modo mutatesi le parti, egli consigliere ducale non riuscì a salvare il palazzo vescovile e i beni mobili e immobili del vescovado dalle spoliazioni cui essi furono sottoposti lungo il 1516, lui assente, dagli "sconosciuti" che ricordò poi il 5 dicembre di quell'anno Leone X intervenuto egli pure nella questione. E forse tra quegli sconosciuti non mancarono, come si chiede un biografo del B., gli ufficiali ducali nella Valle. Insomma, la complessa condizione per cui il vescovo era insieme uomo di Chiesa e del governo sabaudo, aggravata da un lato dal particolarismo valdostano e dall'altro dalle esperienze assai larghe del B. romano e conciliare, era ancor complicata dal fatto che poi talvolta, nella quotidiana pratica, gli ufficiali ducali proseguivano oltre i prudenti comportamenti del principe, erano spesso più monarchici di lui - come può dirsi per il tempo di Carlo II con preciso fondamento, molto dovendo il duca al sostegno aristocratico ed ecclesiastico -, e così il B. consigliere ducale e vescovo si trovava preso fra i maggiori centri di potere locale ecclesiastico nella sua diocesi e gli ufficiali dei duca, e faticava ad uscire ogni volta dai conflitti che in tal modo nascevano.
Il B. ottenne, si, qualche successo presso Carlo II. Nel 1515 i giudici laici di Aosta erano ricorsi al duca, perché frequentemente gli abitanti della città adivano per le proprie controversie il foro ecclesiastico invece del laico e si compiva in tal modo un attentato alla giurisdizione locale, che sola essi avrebbero voluto conoscesse le cause in materia non di fede e che invece veniva danneggiata dalla concorrenza dei giudici ecclesiastici: fenomeno, anche quello, abituale allora nelle relazioni fra i due poteri e non solo nello Stato sabaudo. Carlo II intervenne a favore della propria giurisdizione: nessun laico poteva citare un altro laico dinanzi al giudice ecclesiastico per qualunque causa, personale o reale che fosse, estranea a questioni di fede. Ma il B., da Roma, ricorse a sua volta al duca, e ne ottenne il 24 genn. 1517 la revoca del provvedimento. Nel 1519 Carlo II avrebbe poi saputo opporsi alla giurisdizione episcopale del B. in nome della propria; ma di nuovo, nel 1520 ad Aosta, avrebbe mostrato favore al B. nella stessa materia; mentre nel 1523 avrebbe ribadito i suoi diritti sui frutti dei benefici vacanti.
I successi nei confronti del duca non mutavano per altro la sostanza delle difficoltà locali valdostane, i contrasti con il governo sabaudo complicavano quelle difficoltà; e quando ancora era a Roma al concilio il B., discutendo il 13 e poi il 16 marzo 1517, nella dodicesima sessione, una costituzione contro gli invasori delle residenze dei cardinali particolarmente durante le vacanze della Santa Sede, aveva chiesto che i benefici della costituzionesi estendessero anche ai prelati residenti nelle proprie chiese e che avevano anch'essi molto da soffrire, aveva sostenuto il provvedimento "dummodo extendatur ad praelatos existentes in ecclesiis eorum, qui patiuntur multas insidias" (Mansi, col. 986). Nondimeno, venuto infine per lui il momento di raggiungere Aosta, egli aveva ottenuto pochi mesi prima un successo nei confronti della giurisdizione sabauda, e generalmente, per l'esperienza dei tempi se non per quella valdostana, poteva ancora ritenere non fosse troppo difficile l'esercizio della propria funzione vescovile nella Valle.
Insediatosi nella diocesi, il B. continuò la lotta contro il clero locale e gli ufficiali ducali; e quella lotta ancora si complicò per l'opposizione che gli facevano i nobili, che erano la spina dorsale della vita sociale e politica laica della Valle. Ecclesiastico e laico, il particolarismo valdostano era più diretto e pronto e interessato del potere ducale a contrastare la volontà di governo di un vescovo illustre, sì, ma che non era valdostano, non mostrava di consentire con quel particolarismo, e gli si opponeva in nome di una libertà e di un'autorità del proprio potere che nella Valle nessuno era incline a favorire.
Così, a più riprese, resistenze ed attacchi al vescovado del B. si rinnovarono, e via via stancarono i propositi di governo di lui. Che inoltre, rimanendo consigliere ducale ed occupandosi pure di affari del governo sabaudo, ebbe più volte necessità di lasciare la Valle e di seguire il duca. Poi ancora egli seguitò a raccogliere un'altra sollecitazione, quella moncalierese; si recò più volte nella città dov'era sempre consigliere, e fra l'altro nel 1523 si adoprò ad alleviare i disagi sofferti da quella comunità per il passaggio dei Francesi verso Milano e Napoli. Infine, nel marzo 1519 egli era a Firenze presso il cardinale Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII. Saltuaria dunque, per tutte queste ragioni, la tua residenza ad Aosta, un tale fatto non poteva non aggravare progressivamente il già grave stato della sua condizione di vescovo.
Non si vuole parlare con questo, per il B., di progressiva trascuratezza del suo compito nella Valle; tralasciando esempi minori occorre ben ricordare i sinodi che egli tenne ad Aosta il 6 maggio 1522, il 19 maggio 1523, il 12 marzo 1524, e forse ancora agli inizi del 1525, si deve ricordare la sua attenzione a che il clero minore risiedesse sul luogo del proprio magistero e la vita della diocesi realizzasse i principi di una cattolica fattiva retigiosità. Ma tutto quel che abbiamo già ricordato si opponeva ai buoni propositi: e finalmente si aggiungano le dottrine riformate, contro le quali, come dappertutto nello Stato sabaudo, in quegli anni le resistenze ecclesiastiche e ducali concordi, e nella Valle in particolare il B., non ottennero successi di rilievo. Tutto cospirava, insomma, alla défaillance del vescovado del Berruti.
Il B. fu certamente "probatissimis moribus, singulari doctrina, multis virtutibus", come ebbe a dire di lui nel 1514 Leone X; ebbe carattere franco e saldo, come fra l'altro mostrò nel suo Dialogus riprendendo in Roma stessa i costumi dei curiali romani, e pungendo i pur amati moncalieresi, uomini di talento ma troppo inclini a censurare i fatti altrui; fu inflessibile nei suoi principi ancorché forse "d'un zèle un peu amer", come ha scritto il Duc. Ma, vescovo, si mantenne largamente nella tradizione ecclesiastica dei tempo per quel che furono la non residenza nel vescovado e la partecipazione all'esercizio del potere del duca, e perciò non si potrebbe dire che egli abbia veramente cercato di capire i suoi fedeli come invece aveva capito, a Roma, i generali temi dell'auspicata riforma, e a Moncalieri aveva capito e capì sempre le prevalenti ragioni di quella comunità.
Morì nel gennaio o nella prima metà dei febbraio 1525 nel castello di Pavone, nella diocesi di Ivrea, dove egli non dovette trovarsi necessariamente in esilio dalla sua diocesi come è stato supposto da alcuni, bensì ospite dei vescovo eporediese Sebastiano Ferrero.
Opere: Constitutiones synodales Reverendiss. D. Io. Ludovici Ruvere, episcopi Taurinen. Reverendissimo in Christo Patri D. D. Io. Lud. Ruvere episcopo Taurinensi domino suo observan. Amedeus de Berutis inter iuris utriusque doctores minimus S. P. D., in Sommario delle constitutioni synodali di Turino, con alcuni decreti apostolici, et in fine le antiche constitutioni diocesane di nuovo confirmate, Torino, appresso gli heredi del Bevilacqua, 1575, cc. 59v-73r; Dialogus, quem composuit Rev. P. D. D. Amadeus Berrutus episcopus Augustanus gubernator Romae, dum esset in minoribus tempore Iulii II, in quo praecipue tractat: an amico saepe ad scribendum provocato ut scribat, non respondenti sit amplius scribendum. Et hinc incidenter multa pulchra de amicitia vera - de amore honesto - de amicis veris - de epithetis curiae Romanae et aliorum principum. De curialibus non minus vere quam facete scribit, et plura novoque stylo addit his, quae Pius II de miseriis curialium scripsit. Postea vero, gubernator factus a Leone Pp. X, multa plura accommodate addidit, quibus docet quales esse debeant qui magistratibus publicis praeponuntur. Et in eo quatuor colloquutores seu colluctatores introducuntur, videlicet Amadeus, Austeritas, Amicitia, Amor, Romae, per Gabrielem Bononiensem, 1517, XV Kal. Jun.
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