CRIVELLUCCI, Amedeo
Nacque ad Acquaviva Picena (Ascoli Piceno) il 20 apr. 1850 da Cesare. Al paese natio rimase legato, trascorrendovi spesso le vacanze estive e dedicandogli anche lo studio: Una comune delle Marche nel 1798 e 99 e il brigante Sciabolone (Pisa 1893); del resto, più in generale, come dimostrano altri suoi studi e soprattutto numerose recensioni e schede, conservò sempre costante attenzione per la storia delle Marche.
Dopo un'iniziale destinazione agli studi ecclesiastici, compì a Bologna gli studi liceali, seguendo poi quelli universitari a Pisa dove, nella rinnovata Scuola normale superiore (dove fu alunno dal 1870 al 1874), grazie soprattutto alla "pionieristica" attività del Villari (Violante), gli orizzonti storiografici si erano alquanto allargati, in particolare per l'attenzione alla storiografia tedesca. A Pisa rimase fino al 1874, anche se la sua tesi di laurea fu pubblicata a Firenze e soltanto nel 1877: Del governo popolare di Firenze (1494-1512) e il suo riordinamento secondo il Guicciardini, come memoria dei neonati Annali della Scuola normale. Quando una quarantina d'anni più tardi il C. apparirà riluttante a pubblicare certe aspre critiche del Gentile nei confronti dei Villari, ciò probabilmente si dovrà alla consapevolezza dell'importanza del magistero di questo e non all'eccessiva prudenza che il giovane Gentile ebbe a lamentare. Nello stesso periodo di studi pisani il C. si occupò anche di storia della questione della lingua, con ricerche Poi rielaborate e pubblicate nell'Annuario di uno dei licei in cui insegnò: l'Azuni di Sassari.
Nel 1875 compì, come sottoteninte, il servizio militare e l'anno successivo - secondo un itinerario allora consueto - si perfezionò in Germania, a Lipsia e a Berlino. Nel 1877 iniziò la carriera di insegnante nelle scuole secondarie: a Siena, a Sassari (per tre anni), a Palermo, e a Roma (per quattro anni). Nel 1882 pubblicò a Roma un lavoro su Iprimisaggidellastoriografiafiorentina, ma, intanto, veniva orientando i suoi studi su quello che doveva rimanere per tutta la vita il tema centrale della sua ricerca storica: i rapporti tra Stato e Chiesa nel tardo Impero e nell'alto Medioevo. I primi due volumi della sua ponderosa Storia delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa uscivano così a Bologna nel 1885 (il II) e nel 1886 (il I), giungendo fino al pontificato di Gregorio I. Il terzo volume uscirà, dopo una lunga serie di studi preparatori, soltanto nel 1907 e, giungendo fino al pontificato di Adriano I, comprenderà il periodo della nascita dello Stato pontificio. L'interesse per il tema nasceva nel C. dal suo neoghibellinismo di chiara matrice risorgimentale, ed egli stesso affermò di aver scritto questi volumi "con l'occhio sempre fisso all'età presente", aggiungendo: "è anche storia contemporanea e non pretendo di averla scritta spassionatamente".
Il Volpe, il più celebre tra i suoi allievi pisani, in un ricordo del maestro appena scomparso, commosso e affettuoso, ma anche lucido e distaccato, riconoscerà in quest'opera "una passione gagliardissima" e felicemente lo avvicinerà al Giannone. Noterà, anche, che i volumi, dei quali il C. avrebbe desiderato un'ampia diffusione, rimasero opera letta soltanto da eruditi ed individuerà "manchevolezze intrinseche" consistenti soprattutto nel mantenere "invisibile il giuoco delle forze non individuali" e nel cercare distinzioni che non potevano esser chieste ad uomini dell'VIII secolo. Stupisce invece il giudizio del Croce secondo il quale il C., a differenza del Malfatti, si sarebbe messo a studiare le relazioni tra Stato e Chiesa "per vaghezza erudita e letteraria". Singolare incomprensione che può essere spiegata soltanto con la tendenza del Croce a contrapporre, nell'ambito della "storiografia dei purì storici", una prima valida generazione (Villari, De Leva, Comparetti, Malfatti ... ) ad una seconda generazione assolutamente priva di meriti: dalla storia delle signorie scritta senz'anima dal Cipolla alla pura raccolta di schede dei Graf ai "conati per uscire dalla pura filologia" del Paris, del quale peraltro i difetti sarebbero stati da imputare non a mancanza di ingegno ma alla scuola seguita.
Nel 1885 il C. vinse, per concorso, la cattedra di storia moderna presso l'università di Pisa, dove rimase fino alla fine del i gog (e non fino al 1907 come è detto in molti profili biograficì), con la parentesi di un anno di comando (il 1904-1905) presso la Biblioteca Casanatense di Roma, specializzata in storia religiosa, probabilmente proprio per ultimare il III volume della Storia delle relazioni fra loStatoela Chiesa. Storia moderna era allora una dicitura che comprendeva insieme la storia medievale e quella moderna in un insegnamento biennale che si affiancava, nell'ordinamento delle facoltà di lettere, alla storia antica; ed in effetti i suoi corsi erano quasi esclusivamente dedicati alla storia medievale, oltre a comprendere una parte introduttiva di carattere metodologico.
Su una bancarella romana di libri usati A. Frugoni ebbe, venticinque anni orsono, la fortuna (o, piuttosto, l'intuito) di ritrovare otto ingialliti foglietti con la "scaletta" di alcune di queste lezioni introduttive. Essi appartenevano, probabilmente, già al periodo romano dei suo insegnamento, ma ripetevano convinzioni metodologiche mai smentite che fecero del C. "uno degli esponenti più rigorosi della tradizione storiografica positivistica" (Violante): esser fatto il metodo di "regole precise, di osservazioni suggerite dall'esperienza" e completamente distante dalla filosofia della storia, disciplina priva di scientificità (ed era da lamentarsi la richiesta fatta dall'università di Napoli di istituire, prima in Italia, una cattedra ordinaria di tal nome). In effettì, "la sua metodologia non aveva problemi teorici: era mestiere ed esperienza di mestiere" (Frugoni).
Sin dal 1897 aveva tradotto e pubblicato, presso l'editore Enrico Spoerri di Pisa (che in una più tarda lettera al Gentile ebbe a definire "uno svizzero incanaglito", con la franchezza e durezza di linguaggio che lo contraddistingueva) il Manuale del metodo storico di E. Bernheim "con aggiunte e correzioni fatte dall'autore al suo testo per la versione italiana", consistenti non soltanto nell'aggiunta di indicazioni di fonti, riviste, pubblicazioni, ma anche e soprattutto nella riduzione significativa della parte tradotta ai soli capitoli relativi all'euristica e alla critica.Il lungo insegnamento pisano del C. lasciò un ricordo durevole nei suoi allievi, e quei venticinque anni passarono operosi, appena segnati, esteriormente, dai numerosi trasferimenti di abitazione (Livorno, Rigoli, Pisa; e a Pisa prima in Lungamo, poi in Borgo Largo, poi in via S. Francesco) e, nel 1895, dal tardivo matrimonio con una sua studentessa, Lidia von Brunst. Faceva, normalmente, lezione alle 8 il lunedì e il mercoledì e teneva una "conferenza" in Sapienza il martedì alle 14; trasferitosi a Roma ad anno accademicoiniziato dovette adattarsi a far lezione alle 10, tornando peròsubito, l'anno successivo, al suo amato orario mattutino. Della facoltà di lettere pisana fu anche preside nel 1892-93 e nel 1900-01, secondo una consuetudine che vedeva una continua rotazioneannuale dei presidi. Ma se anche le poche lettere fin qui pubblicate ad altro non ci rimandano che agli studi, alla vita accademica e - soprattutto - alla rivista che creò ed amò come un figlio prediletto, la sua personalità di maestro e di uomo esce ben illuminata dai ricordi di alcuni suoi studenti, i quali concordemente insistono sulla sua bontà, sulla sua onestà, sul suo atteggiamento paterno.
Il Baldasseroni lo dice "consigliere e quasi confidente" della maggioranza dei suoi alunni. E il Gentile ricordò sempre con gratitudine le sue lezioni e i mesi passati in archivio per preparare per il C. un lavoro sulle leggi suntuarie a Pisa (recentemente pubblicato insieme ad altri inediti). Più articolato il ricordo del Volpe, che vale la pena di riportare largamente. "Amedeo Crivellucci studioso era Amedeo Crivellucci maestro. Le due attività combaciavano perfettamente. Gli stessi pregi, le stesse manchevolezze... conquistava lentamente, quasi stentatamente... con la sua semplice, paterna bontà". Ma quando affrontava, a lezione, i suoi cari temi longobardi allora emergevano "il calore, la contenuta eloquenza di certe lezioni, pur di un uomo che eloquente non era" nella difesa appassionata di quel popolo e dei suoi re, con una critica acutissima, costantemente in pericolo di divenire ipercritica. E famoso è il ritratto fisico: "Figura grande, quadrata, composta; volto forte e malinconico, chiuso entro la gran barba fulva e la ricca capigliatura grigia, occhio vivo e profondo, severo e benevolo insieme: il longobardo lochiamavano gli allievi, per riguardo all'aspetto fisico ed all'argomento quasi abituale dei suoi corsi" (1924, p. 36).
Quali potessero essere le "manchevolezze" del C. maestro e storico già abbiamo accennato; pure giustamente è stato riconosciuto nel rapporto Volpe. C. non un semplice apprendistato tecnico, ma "un rapporto di discepolanza genuino, fondato sulla comunanza di interessi e di temi di lavoro" che il Volpe avrebbe ripreso poi "su piani e prospettive diverse" (Cervelli). Quasi un rimpianto per ciò che il C. avrebbe potuto essere e non fu è stato anche osservato a proposito dei giudizio volpiano sul primo lavoro suo, quello sul Guicciardini: "in queste pagine - scriveva il Volpe nel 1916 - si vede come al giovane storico non mancasse l'attitudine a veder concretamente il giuoco delle forze sociali sotto le vicende della coltura: una attitudine che egli tuttavia non coltivò e non perfezionò e che poi parve quasi deficiente in lui". Del resto un'adeguata valutazione del significato dell'arrivo del C. a Pisa va data piuttosto tenendo tonto che egli saliva sulla cattedra che era stata a lungo di F. Ranalli, un letterato ciassicheggiante e antimanzoniano, di cui si è detto che era "un pedante alla vecchia maniera" e che, comunque, era certo culturalmente di valore e respiro nettamente inferiori a quelli del Crivellucci.
Conviene soprattutto insistere sugli Studi storici (Pisa, poi Torino, poi Pavia; 1892-1914) "una rivista singolare ed importante nella storia della cultura italiana" (Cervelli), alla quale il C. dedicò la maggior parte del suo tempo come organizzatore, oltre a pubblicarvi una serie numerosa di studi, articoli, recensioni e schede.
Il primo numero della rivista uscì nel 1892con il sottotitolo Periodico trimestrale di A. C. e Ettore Pais professori ordinari nell'Università di Pisa, ma dopo il quarto anno il C., che già ne era l'animatore principale, rimase l'unico responsabile. Anche se in seguito il sottotitolo mutò in quello più consueto di Periodico diretto da A. C., pure ancora oggi si è soliti citarlo come Studi storici del Crivellucci, continuando così a riconoscere il ruolo essenziale che egli ebbe anche sul piano organizzativo e fin tipografico: la rivista, infatti, si stampò per diversi anni nella sua domestica tipografia. Non a caso, del resto, gli Studistorici morirono con il loro ideatore.
Nei primi numeri l'apporto diretto del C. fu imponente anche dal punto di vista dei contributi (il primo numero si apriva con due articoli del Pais e due suoi). Sua anche l'impostazione delle recensioni e delle notizie di libri recenti, notevole per l'apertura singolare alla storiografia straniera, non esclusa quella americana, ed in particolare a quella tedesca secondo un indirizzo generale degli studi di allora (con una precisa corrispondenza, però, con gli interessi dello stesso Pais o, per fare il nome di una personalità ben diversamente orientata ma molto influente nell'ambiente universitario pisano, del Toniolo). Non mancavano, nelle recensioni e nelle schede, in particolare in quelle stese perscrialmente dal C., toni polemici e violente stroncature, del tipo "Bella soddisfazione svisare, esagerandoli, i pensieri degli altri, per darsi il gusto di combatterli trionfalmente", ovvero "Poveri martiri se avessero bisogno d'essere difesi e non avessero altro avvocato che il signor V. ... Non vi è critica, né storia, né grammatica, né senso coniune", o, ancora, "La Rivista storica di Torino dovrebbe essere più accorta, più vigile nella scelta dei suoi scritti". Era, in effetti, molto irritato dal dilettantismo e dai tentativi di tracciare grandi sintesi senza studi particolari preparatori; interessante. in questo senso, il suo immediato giudizio negativo su La lotta politica in Italia dell'Oriani che pure ebbe, ed abbastanza a lungo, un forte peso nella formazione delle nuove generazioni italiane di quei decenni.
Concepita come l'organo di un seminario, la rivista vide crescere con gli anni il numero dei collaboratori, dal classicista A. Mancini al codicologo G. Vitelli, e soprattutto di quanti venivano compiendo solide ricerche di archivio sulla storia pisana medievale, pubblicando, su di essa, i primi saggi, certamente di diverso valore e respiro, ma altrettanto certamente costituenti, nell'insieme, un corpus tutt'oggi fondamentale di studi sulla storia di Pisa medievale: possiamo ricordare il Fanucci, l'Abruzzese, F. Pintor (che, divenuto poi gran bibliotecario, esordì con uno studio non superato intorno al dominio pisano sull'isola d'Elba nel XIV secolo), il Brugaro morto precocemente dopo promettenti studi sull'artigianato pisano, il Rossi che, prima di farsi carmelitano e raggiungere la porpora cardinalizia, Scrisse un acuto lavoro sul Consiglio dei savi, il Pecchiai, il Silva che proprio a Pisa conobbe la sua migliore stagione di storico pur già distante (siamo ormai verso la fine del primo decennio del nuovo secolo) dall'influenza diretta del Crivellucci. E poi, naturalmente, proprio sulle pagine degli Studistorici si svelò l'ingegno storico singolarmente precoce di G. Volpe, il quale, tra il 1897 e il 1906, dette alla rivista del suo maestro studi di eccezionale importanza e recensioni di grande impegno. Ma la funzione degli Studi storici non si esaurì certamente in questi pur importanti contributi, giacché grande fu anche, nelle sue pagine, l'attenzione per il dibattito metodologico che intorno alla storiografia si svolgeva, negli ultimi anni del vecchio secolo e nei primi del nuovo, tanto in Italia che in Europa.
Abbiamo detto di una mai smentita diffidenza del C. per le questioni teoriche; essa appare anche nella recensione da lui stesso fatta nel 1896 di due volumi del Labriola: il materialismo storico gli appariva di dubbio valore "a cagione della grande difficoltà di conoscere esattamente il sostrato economico delle società passate e del pericolo che si corre di sostituire le proprie idee alla realtà storica". Pure, era già un segno di interesse che egli non solo permise ma incoraggiò sulla rivista, sollecitando gli interventi del Volpe e dei Gentile, secondo il principio enunciato in uno dei primi numeri: "nella repubblica letteraria piena libertà sempre e nessun altro riguardo che quello dell'interesse degli studi". Così, ad esempio, il Gentile, oltre a recensire, memore delle esperienze personali di archivio, studi sulla vita privata dei Pisani nel Medioevo. analizzava attentamente un volume del Seignobos sul metodo storico, apprezzandone l'utilità pratica ma rilevandone la scarsa conoscenza della letteratura contemporanea.
Ma non bisogna considerare il C. come uno studioso solo appassionato ed interessato da sottigliezze filologiche, come un topo di biblioteca. Aveva una solidissima cultura classica; in latino poteva scrivere correntemente e in latino tradusse alcune odi barbare carducciane. Segnalò immediatamente con grande favore Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo del Graf con questa significativa giustificazione: "le larve della fantasia popolare non hanno meno importanza storica dei fatti e dei personaggi veri e reali della storia". Quando il Volpe aprì, sulle pagine della Critica del Croce, nel 1907, un dibattito sull'insegnamento universitario della storia, il C. non tardò a partecipare con un intervento nel quale proponeva una minuziosa riforma delle facoltà di lettere, pubblicato prima nel 1908 sulla rivista Nuovidoveri, diretta dal Lombardo Radice, ove il dibattitto si era trasferito, e poi nel 1909 anche in Studi storici; in esso, quasi a cercare un aggancio con la scuola economico-giuridica, ricordava i continui ammonimenti da lui sempre rivolti ai suoi studenti perché affiancassero una preparazione giuridica ed economica a quella data dalle facoltà letterarie. Restava invece completamente avverso al materialismo storico; così, quando nel 1899 si trovò tra le mani Pel materialismo storico di C. Barbagallo non esitava a scriverne al Gentile in termini feroci: "Chi è questo mascalzone?" e - in una cartolina di poco successiva "Barbagallo o Pappagallo che dir si voglia".
A partire dal 1902, affiancato dal Monticolo e poi dal Pintor, il C. avviò un'altra impresa editoriale di eccezionale impegno, testimonianza dell'importanza che egli dava ai problemi dell'organizzazione culturale: l'Annuario bibliografico della storia d'Italia dal sec. IV dell'E. V. ai giorni nostri. Ne uscirono, a Pisa, in tutto otto volumi, di oltre cinquecento e anche seicento pagine. Pure questa iniziativa non sopravvisse al suo ideatore e non si può non notare come in seguito tale lacuna non sia più stata efficacemente colmata.
Negli ultimi suoi anni pisani pare di cogliere un certo qual inasprimento delle sue posizioni politiche e culturali, accanto ad una certa stanchezza storiografica.
Nel 1907, chiamato a tenere il discorso inaugurale per l'anno accademico, scelse di. parlare su La tirannidesacerdotale (editopoi nell'Annuario universitario di quell'anno), esprimendosi con una violenza polemica straordinaria. Esordiva riprendendo il voto guicciardiniano di vedere l'Italia liberata "dalla tirannide di questi scellerati preti", e concludeva vedendo nel cristianesimo, per la sua volontà di conquistare le anime, un'irresistibile tendenza al dominio e all'abbrutimento degli uomini. Di fronte a questo violento attacco l'arcivescovo di Pisa, il cardinal Maffi, fece pervenire, come indiretta risposta, a tutti i professori un opuscolo in cui erano ricordate le origini religiose dell'università pisana e i relativi incoraggiamenti pontifici.
Di fatto, all'inizio del XX secolo, il C. appare un isolato dal punto di vista politico. Il suo viscerale anticattolicesimo lo teneva lontano dalla linea di Pio X (la cui enciclica Pascendi trovò un certo apprezzamento filosofico del Croce e del Gentile) quanto dal modernismo, con alcuni ambienti dei quale il Volpe era invece in quegli anni in contatto. Durissima anche la sua posizione nei confronti del comunismo e del socialismo, in cui vedeva una "soluzione utopistica e probabilmente destinata al fallimento", da avvicinare in qualche modo al presunto comunismo cristiano dei primi secoli.
Apparteneva alla vecchia corrente risorgimentale dei "liberali molto accentuati e di tendenze anticlericali", per dirla col Volpe, con un senso fortissimo della decadenza e dell'allontanamento dagli ideali risorgimentali, ugualmente lontano da Giolitti come dai liberalconservatori, mentre la sua "fobia pel parlamento e per il parlamentarismo" (Volpe) si andò accentuando con gli anni.
Se già nel primo volume degli Studi storici possiamo trovare critiche al governo sul tema (del resto ancor oggi non affrontato) della conservazione dei piccoli archivi, negli anni di cui ci stiamo ora occupando egli era ormai passato alla critica violenta, neppur sostenuta, a quanto pare, dalla nuova politologia dei Pareto, dei Mosca, dei Pantaleoni; più umorale, insomma, che razionale. Nel discorso accademico del 1907 troviamo un significativo elogio a F. Crispi come eccezione "nella senilità decadente di questi nostri bassi tempi". Nel ricordato contributo alla discussione sulla riforma dell'insegnamento della storia si può leggere: "Purtroppo Montecitorio non ci dà che leguminacee, ranuncolacee e cucurbitacee. Fortunatamente la Nazione val meglio assai del suo governo... un governo il quale dal '60 in poi non ha mai capito qual'è la missione dell'Italia nel mondo e non l'ha capita perché ne ha ignorato e ne ignora la storia".
Intanto aveva continuato con molta intensità la sua attività di studioso: una serie di contributi particolari dedicati all'approfondimento di specifiche questioni di storia dell'età costantiniana e di storia longobarda, con una ripetuta attenzione ai problemi interpretativi di alcuni passi di Paolo Diacono. Una lunga polemica lo contrappose al Duchesne, del quale era uscito il volume sulle origini dello Stato pontificio, ed in questa mosse ancora una volta a difesa dei "suoi" Longobardi; polemica, che, partita su un piano erudito, divenne molto violenta dopo una risposta del Duchesne. Così il C., nel 1906, pubblicò nella sua rivista un articolo, Perla lealtà nella discussione scientifica (a monsignor L. Duchesne).
Almeno altri due lavori, di tutt'altro ambito, vanno poi ricordati, che parvero al Volpe otia dello studioso perché non parte di un più generale piano di ricerca. Pure, il libro, di circa trecento pagine, Una comune delle Marche nel 1798 e 99 e il brigante Sciabolone (Pisa 1893), nato forse dall'amore del luogo natio, è ancor oggi di interessante e piacevole lettura, per l'attenzione alla piccola storia di una comunità come specchio della grande storia, per l'utilizzazione di testimonianze orali (la propria nonna materna, il nipote di Sciabolone), per l'esemplare lavoro nei piccoli archivi locali, per lo stile, qui più che altrove, sereno e disteso, anche se, naturalmente, data la posizione politico-culturale dell'autore, molto gli sfuggiva dell'autentico significato della reazione sanfedista. Ancora di piena utilità è poi il lavoro I codici dellalibreria raccoltada s. Giacomo della Marcanel convento di S. Mariadelle GraziepressoMonteprandone, Livorno1899.
L'impressione di una certa stanchezza negli ultimi anni pisani trapela anche dal non trovare nell'annata XVI degli Studistorici (1907) né articoli né recensioni dei C., pur se si potrebbe pensare ad un impegno riservato al III volume della Storiadelle relazioni; ma anche gli accenti antiaccademici del discorso inaugurale del 1907 danno analoga impressione. Nell'annata 1909 della rivista troviamo soltanto il suo intervento, già altrove pubblicato, sulla riforma dell'insegnamento della storia. La rivista stessa, del resto, mostra, in generale, in questi anni una flessione, con l'assenza quasi totale di discussioni metodologiche e la diminuzione del numero e della qualità, delle recensioni sempre più ristrette a studi locali (prevalentemente di storia moderna) e sempre meno dedicate alla storiografia straniera. Il C. dovette, anche se a malincuore, rendersi conto di ciò e il volume XIX apparve nell'anno 1910, stampato a Pavia, come volume primo della nuova serie.
Nuova non soltanto perché al C. si affiancavano, come collaboratori della direzione, il Romano, il Salvemini e il Volpe, ma anche perché,. come il fondatore segnalava in una breve Avvertenza, egli, "dopo molte altrui insistenze", rinunciava al criterio originale di pubblicare solo "scritti miei e dei miei scolari" e si piegava all'esigenza di allargare la cerchia di collaboratori. Questo mutamento, coincidente con il trasferimento del C. all'università di Roma, garantì nuove importanti collaborazioni (accanto al Silva, si ricordano qui notevoli saggi del Palmarocchi, dell'Anzilotti, del Salvatorelli) ma tolse alla rivista il suo carattere originale senza garantire un'ormai irraggiungibile, sulle posizioni del C., unità di indirizzo. Il gruppo degli antichi scolari si era alquanto disperso e l'orientamento degli stessi "condirettori" era in progressiva via di diversificazione, mentre la polemica crociana ed idealistica faceva sentire le sue conseguenze, pur se i rapporti tra il C. e il Gentile rimanevano saldi, garantendo anche una pur saltuaria collaborazione del filosofo siciliano. Non stupisce, dunque, che la rivista cessasse immediatamente (fascicolo due dell'annata 194) dopo la morte dei fondatore.Intanto il C. si era trasferito all'università di Roma, succedendo al Monticolo morto alla fine di ottobre del 1909. Il decreto ministeriale del 29 dic. 1909 era inviato dal C. stesso al rettore di Pisa con poche parole ed un rapidissimo accenno ai venticinque anni passati a Pisa. Egli, del resto, come ebbe a scrivere al Gentile, era contrario ai. festeggiamenti accademici, tanto che si rifiutò anche di aderire a quelli organizzati per il Pais. Nella capitale andò ad abitare in Borgo Nuovo.
È stato detto che "forse il meglio di sé l'aveva già dato a Pisa" e che "a Roma soprattutto insegnò" (Frugoni), con un giudizio sostanzialmente esatto, pur se non vanno dimenticate le edizioni portate a compimento dell'Historia di Landolfo Sagace e della HistoriaRomana diPaolo Diacono, del quale, invece, non terminò la HistoriaLangobardorum, nonostante i molti studi e lavori preparatori.
Nella nuova sede trovava come preside il pedagogista L. Credaro, destinato a diventare poco dopo ministro per la Pubblica Istruzione; ritrovava il Pais, che vi insegnava, comandato da Napoli, epigrafia romana e c'era un medievista, il Federici, professore straordinario di paleografia. Trovava, soprattutto, un corpo docente più numeroso e più vario quanto a discipline professate; tutto sommato anche un corpo docente culturalmente più avanzato di quello, ormai invecchiato, di Pisa. Il suo insegnamento sembra aver lasciato tracce meno forti di quelle pisane, e non soltanto per il minor numero di anni: metodologie e personalità ben diverse attiravano gli studenti più delle sue lezioni, che dovevano ormai apparire di stampo antiquato. Tuttavia prese parte attiva alla vita accademica. Fu preside della facoltà di lettere dal 1911 al 1913 (succedendogli il filosofo B. Varisco) e in quello stesso anno entrò a far parte del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Un'ultima battaglia accademica combatté per permettere il passaggio del Gentile da Palermo a Roma, profilandosi, per il pensionamento del Regnisco, la vacanza di una cattedra filosofica.
Risulta dal relativo carteggio che egli era particolarmente legato al De Lollis, per quanto lo stesso Varisco fosse favorevole alla chiamata del Gentile, mentre contrario era il Credaro (che sosteneva il positivista Tarozzi). Con un telegramma del 2 maggio 1914 lo stesso C. informava il Gentile dell'esito della votazione: "undici favorevoli sette contrari". Un esito, dunque, negativo, poiché allora si richiedeva la maggioranza dei due terzi. Perciò in una successiva lettera propose al Gentile di far chiedere il concorso; ma nel frattempo il filosofo siciliano preferì succedere al suo maestro Jaia, morto nel marzo 1914, sulla cattedra pisana. La vicenda è, comunque, interessante perché conferma con quanta forza il C. sentisse i rapporti di discepolato.
Il suo fisico declinava abbastanza precocemente. Pure, continuava ad occuparsi assiduamente della "sua" rivista; l'ultima sua cartolina al Gentile, della metà di settembre del 1914, parla della rivista, degli scambi possibili, degli editori. La guerra era intanto scoppiata in Europa, mentre l'Itafla cominciava a vivere i mesi dell'inquieta neutralità. Il C., nell'ottobre, si presentò al distretto militare di Roma chiedendo di essere richiamato.
Il malore mortale lo colse a Roma l'11 nov. 1914, in un'aula universitaria, mentre si discuteva una tesi di laurea.
Fonti e Bibl.: Pisa, Arch. d. univ., Incartam. professori, n. 931; necrol. a cura di F. Baldasseroni, in Archivio storico italiano, LXXVIII (1915), 2, pp. 420-36; Annuario della R. Università degli studi di Pisa, aa. 1885-1908. ad nomen; Annuario della R. Univ. degli studi di Roma, aa. 1909-1916, ad nomen; Lettere di A. C. a G. Gentile, in Carteggio Gentile-D'Ancona, a cura di C. Bonomo, Firenze 1973, pp. 275-300; G. Gentile, La Scuola normale superiore di Pisa, in Scuola e filosofia, Milano 1908, pp. 276-283; G. Volpe, Storici e maestri, Firenze 1924, pp. 31-64; B. Croce, Storia della storiografia ital. ..., Bari 1930, pp. 65 s.; W. Maturi, C. A., in Enc. Ital., XI, Milano-Roma 1931, p. 989; P. F. Palumbo, C. A., in Enc. catt., IV, Roma 1950, coll. 946 s.; A. Frugoni, Appunti di A. C. (1850-1914) per una lezione, in Annali d. Scuola normale super. di Pisa, classe di lettere, storia e filosofia, s. 2, XXVII (1958), pp. 115 ss.; G. Volpe, Toscana medioevale, Firenze 1964, pp. X-XIV; C. Bonomo, Profilo biobibliogr. di A. C., in Carteggio Gentile-D'Ancona, cit, pp. 301-312; C. Violante, Un secolo di studi storici alla Scuola normale sup. di Pisa, I, Dall'attività pionieristica di P. Villari alla polemica neoidealistica contro il positivismo, in Novità e tradizione nel secondo Ottocento ital. Contributi del centro di ricerca "Letteratura e cultura dell'Italia unita", Milano 1974, pp. 415-50; I. Cervelli, G. Volpe, Napoli 1977, pp. 328-56; C. Violante. G. Volpe: il periodo pisano, in Studi e ricerche in onore di G. Volpe. Roma-L'Aquila 1978, pp. 153-57; E. Antifoni, C., Salvemini, Volpe e una rivista che non si fece...., in Annali della Fondazione L. Einaudi, XIII (1979), pp. 273-300.