America Latina
«América, no invoco tu nombre en vano»
(Pablo Neruda, Canto general)
Il nuovo corso latinoamericano
di
3 gennaio
Il governo argentino dà mandato alla Banca centrale di saldare il debito di 9,5 miliardi di dollari che aveva con il Fondo monetario internazionale. Nei giorni successivi anche il Brasile annuncia la restituzione dell'ultima rata del prestito contratto con l'FMI. I pagamenti anticipati da parte dei due paesi vengono interpretati come un forte segnale di quella volontà di indipendenza economica e politica, che attraversa molti dei paesi latinoamericani.
Il quadro generale
Gli anni Novanta del 20° secolo si sono caratterizzati in America Latina per la continuità di fenomeni politici ed economici in corso dal decennio precedente. Sistemi democratici presidenziali, anche se di diverso consolidamento, si erano reimpiantati ovunque, prendendo il posto delle dittature che avevano contraddistinto la storia della regione dagli anni Cinquanta-Sessanta fino a ben addentro gli anni Ottanta o, come nel caso cileno, fino al 1989. Dopo la sconfitta dei movimenti guerriglieri peruviani di Sendero Luminoso e del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, guerriglie importanti, per numero di uomini e controllo del territorio, restano nella sola Colombia.
Nonostante ciò, e pur se in misura minore che in passato, il continente ha continuato a caratterizzarsi per la presenza endemica di violenza politica, soprattutto contro i movimenti sindacali e contadini. Rispetto ai crimini commessi dalle dittature militari, nei primi anni Novanta i governi democratici hanno varato leggi di amnistia, con la pretesa di mettere la parola fine a una fase storica che aveva comportato l'assassinio e la sparizione di circa mezzo milione di persone, l'incarcerazione, la tortura o l'esilio di milioni di altre. Le amnistie non hanno risolto il problema dell'impunità e alcuni fattori hanno riaperto la questione: il prestigio internazionale delle associazioni per i diritti umani, la scoperta degli archivi del Piano Condor in Paraguay (l'internazionale terrorista formata dalle dittature militari latinoamericane e organizzata negli Stati Uniti, che sovrintendeva alla sparizione di persone) e l'arresto dell'ex dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1998.
Dal punto di vista economico, si sono accentuate l'incidenza del debito estero, la precarizzazione del mercato del lavoro e la privatizzazione delle imprese pubbliche e delle risorse naturali. Tali politiche, già introdotte nei decenni precedenti, si sono rafforzate negli anni Novanta nell'ambito del cosiddetto 'Consenso di Washington', che implicava la necessità dell'approvazione da parte del governo degli Stati Uniti d'America. L'appoggio, condizionato all'applicazione rigida dei dettami del Fondo monetario internazionale, si esplicitava nella forma di una politica economica neoliberale. Tale modello, sostanzialmente accettato dai sistemi partitici, a partire dal 1994, anno della sollevazione zapatista in Messico, ma con più vigore nel primo lustro del 21° secolo, è stato oggetto di critiche sempre più forti da parte dei movimenti sociali, indigeni e contadini. Questi si sono rafforzati fino a esprimere vere e proprie alternative politiche che in diversi paesi sono giunte al governo.
Dati macroeconomici
Di fronte alla spirale della crescita del debito estero, il Fondo monetario internazionale ha suggerito misure di austerità sempre più drastiche. I governi, a volte con marcate caratteristiche autoritarie (per es., quello del presidente peruviano Alberto Fujimori), hanno applicato in genere fedelmente tali suggerimenti. Questi hanno ridotto il deficit degli Stati abbassando drasticamente la spesa pubblica, soprattutto quella indirizzata allo stato sociale, ai sistemi sanitari, scolastici e previdenziali pubblici. Le privatizzazioni, sovente realizzate a condizioni di favore per i compratori, in genere compagnie multinazionali spagnole, statunitensi e di altri paesi occidentali, hanno rappresentato un volano per la corruzione politica anche ai massimi livelli.
Le strategie dell'FMI hanno condotto a più di un successo dal punto di vista macroeconomico, sconfiggendo un'iperinflazione spesso endemica e alimentando sostenute ma effimere crescite cicliche del prodotto interno lordo. La Banca Mondiale (World development indicators, 2002) ha valutato quel periodo come un ventennio perduto calcolando che, per l'intera America Latina, il decennio Ottanta ha comportato una decrescita del PIL regionale dello 0,7%, e gli anni Novanta una misera crescita dell'1,5%. Nel primo lustro del secolo 21°, soprattutto dopo che molti paesi si sono distanziati dall'applicazione rigida dei dettati dell'FMI, si sono registrati notevoli risultati in termini di crescita macroeconomica. Nel 2004 la crescita della regione fu nel complesso del 5,9% e nel 2005 del 4,5%. In testa alle statistiche, per il 2005, stavano il Venezuela e l'Argentina sfiorando il 10% di crescita. Il debito estero è stato il principale fattore di instabilità politica ed economica in America Latina nell'ultimo quarto di secolo. Secondo dati della CEPAL (Comisión económica para América Latina y el Caribe delle Nazioni Unite) questo, nel 1970, all'inizio del ciclo dittatoriale, era di 16,1 miliardi di dollari statunitensi. A partire dalla crisi petrolifera del 1973 è cresciuto esponenzialmente. Nel 1990, quando dappertutto democrazie liberali si erano sostituite alle dittature, era già di 439 miliardi di dollari. Nel 1995 era salito a 573,6 miliardi, nel 2000 a 750 miliardi e nel 2002 a 830. Dal 1982 in poi, i paesi guida della regione, Argentina, Brasile e Messico, hanno corso continuamente sul filo della bancarotta. Dal 1995, di fronte alle conseguenze sociali del fenomeno, la Conferenza episcopale latinoamericana ha chiesto la cancellazione o la moratoria sul debito stesso, denunciando come, solo negli anni Ottanta, la regione avesse pagato 418 miliardi di dollari di interessi, su di un debito iniziale di appena 80 miliardi. All'anno 2004 il continente ha già restituito in valore assoluto oltre 727 miliardi di dollari statunitensi, dei quali 221 miliardi il Brasile, 147 miliardi l'Argentina, che però ha circa un quinto degli abitanti del primo, e 137 miliardi il Messico. Nel 1996 papa Giovanni Paolo II ha definito tale situazione 'capitalismo selvaggio', e il settimanale statunitense Newsweek ha parlato di 'capitalismo assassino'. Tuttavia, nessuna soluzione è stata trovata e il debito, unito alle politiche fallimentari per ridurlo, si è tradotto in un peggioramento netto della qualità della vita delle classi meno abbienti e in una divaricazione sempre più marcata nelle condizioni di vita tra le diverse classi sociali.
I principali indicatori hanno continuato a mostrare un continente con luci e ombre, con un immenso capitale umano ma molte disuguaglianze. Dal punto di vista del prodotto interno lordo pro capite, la regione ha registrato nel 2003 un PIL di 3253 dollari statunitensi, in calo rispetto ai 3918 dell'anno 2000, prima della svalutazione argentina; il dato presenta una moderata crescita rispetto ai 2635 dollari del 1990, ma un calo netto se misurato come potere d'acquisto. Al primo posto per PIL si colloca oggi il Messico con 6060 dollari. Al di sopra dei 4000 dollari si situano solo il Cile, Costa Rica e Panamá. L'Argentina, che fino al 2000 era alla testa della regione con un PIL che sfiorava gli 8000 dollari, nel 2003 si è ridimensionata a 3422 dollari. Cinque paesi non raggiungono più, o non hanno mai raggiunto, i 1000 dollari pro capite: sono Haiti (316 dollari), il Nicaragua (785), la Bolivia (871), il Paraguay (950) e l'Honduras (990).
Popolamento, salute, educazione, processi elettorali
L'America Latina nel 2005 aveva una popolazione totale di 551 milioni di abitanti. Un terzo di questi era brasiliano (186 milioni) e 107 milioni erano i messicani. Al terzo posto vi era la Colombia con 46 milioni, quindi l'Argentina con 39, il Perù con 28 e il Venezuela con 27 milioni. Seguivano Cile (con 16 milioni), Ecuador e Guatemala (13), Cuba (11), Haiti, Repubblica Dominicana e Bolivia (9). Per quanto riguarda il principale indicatore sulla salute, quello sulla mortalità infantile, solo quattro paesi della regione hanno mantenuto un indice inferiore al 20‰: l'Uruguay con il 17‰, il Cile e Costa Rica con il 12‰ e l'isola di Cuba con il 9‰. All'estremo opposto stavano Haiti con il 125‰, la Bolivia e la Guyana intorno all'80‰, il Perù, il Nicaragua, il Guatemala e la Repubblica Dominicana intorno al 50‰. La denutrizione, nel 2006, ha colpito tutti i paesi meno l'isola di Cuba. In America Latina il 16% dei minori di 5 anni, pari a 9 milioni di bambini, ha accesso insufficiente ad alimenti. I casi critici sono quelli del Guatemala, con il 46% di minori di 5 anni denutriti registrati nel periodo 1995-2002, ma anche in Ecuador, Bolivia, Perù e Honduras un bambino ogni quattro è denutrito.
Sono dati severi, prodotto di sistemi sanitari in condizioni precarie o evanescenti, aggravati dalla stretta sui conti pubblici. Fa eccezione il caso particolare cubano, che è l'unico paese al mondo a superare i 500 medici ogni 100.000 abitanti, seguito da Italia e Ucraina. Proprio 20.000 medici cubani, a partire dall'anno 2003, sono impegnati nella costruzione di un capillare servizio sanitario di base in tutto il territorio venezuelano. Il Messico, tutto il Centro America, con l'eccezione di Panamá, e quasi tutti i paesi andini, fino al Paraguay, non arrivano a 100 medici ogni 100.000 abitanti. Solo Argentina (268) e Uruguay (309) hanno valori comparabili con i paesi più sviluppati. La spesa pubblica in salute rispetto al PIL vede in testa El Salvador, che dal 1996 ha speso intorno all'8% per fondare un sistema sanitario nazionale, il Costa Rica, con il 6,7% nel 2003, e Cuba, con il 6,3%. Tra i paesi più importanti, il Messico si colloca stabilmente intorno al 2,5%, e il Brasile nel 2001 raggiungeva il 3,5%.
Dal punto di vista dell'alfabetizzazione il quadro è migliore. Solo Haiti non arriva al 50% di alfabetizzati. Il Guatemala e il Nicaragua stanno sotto al 70%. In tutto il Cono Sud, e nella regione caraibica continentale, si è costantemente sopra il 90%, con punte di piena alfabetizzazione in Uruguay e a Cuba. Il numero degli anni di scuola frequentata in media dalla popolazione attiva varia dai circa dieci di Argentina, Paraguay e Uruguay ai poco più di tre in Guatemala. La spesa per l'educazione rispetto al PIL appare estremamente diseguale. Secondo il CEPAL, la forbice va dall'1,1% del PIL speso dall'Ecuador nel 2001, all'8,7% speso da Cuba nell'anno 2000.
Riguardo la trasparenza dei processi elettorali, durante il periodo 1990-2002, solo Bolivia, Brasile, Costa Rica, Honduras, Panamá e Uruguay hanno raggiunto un indice IDE (indice di democrazia elettorale, che parametrizza il diritto di voto, la trasparenza e la libertà di voto, la varietà e sostenibilità degli incarichi elettivi) pari a 1,00, che stabilisce la piena correttezza dei processi elettorali. Appena sotto questa quota, con indici compresi tra 0,97 e 0,99 si sono trovati Argentina, Nicaragua e Venezuela. L'indice più basso è stato rilevato in Colombia con 0,57, ma vanno segnalati i casi del Messico, con un indice di 0,80, e del Cile, con appena 0,75. La partecipazione elettorale va da oltre il 95% degli aventi diritto in Uruguay, a paesi come la Colombia, El Salvador, Guatemala, dove il numero di votanti supera appena un terzo degli aventi diritto.
Cambiamento antropologico e nuova partecipazione politica
Le dittature militari degli anni Settanta decimarono i partiti politici, in particolare quelli della sinistra tradizionale che si rifacevano alla seconda e alla terza Internazionale. Questi, o scomparvero dalla scena, o fecero sostanzialmente proprio il modello economico neoliberale - l'APRA, Alianza popular revolucionaria americana, in Perù, il Partito Socialista in Cile - o divennero residuali. Vi si sono sostituite forme di partecipazione politica originale, in grado di rappresentare necessità e riscatto delle popolazioni.
In Brasile fin dal 1980 è sorto il PT, Partido dos Trabalhadores. Coniuga la sinistra marxista tradizionale, il sindacalismo di base della regione industriale dello Stato di San Paolo, la pedagogia dell'oppresso basata sul contributo del pedagogo pernambucano Paulo Freire, la teologia della liberazione - molto presente nella Chiesa cattolica brasiliana - che mette in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano, e la forza di alcuni movimenti popolari, in particolare il MST, Movimento Sem Terra.
In Messico, quando il 1° gennaio 1994 entrò in vigore il trattato di libero commercio tra Messico, Stati Uniti e Canada, nello Stato più meridionale e più povero del paese, il Chiapas, si sollevarono in armi alcune popolazioni maya. Si dichiararono militanti dell'EZLN, Ejército Zapatista de Liberación Nacional, riprendendo il nome di Emiliano Zapata, l'eroe della rivoluzione messicana degli anni Dieci del 20° secolo. Dopo una brevissima fase militare, alla quale l'esercito messicano contrappose una guerra di bassa intensità, l'esercito zapatista, soprattutto attraverso la figura visibile del subcomandante Marcos, si eresse a pacifica coscienza critica del pianeta, nel momento di massima auge del neoliberismo. Contemporaneamente, dall'Ecuador alla Bolivia, altri movimenti indigeni presero forza, sfidando il modello economico in forme originali. In Bolivia si impegnarono contro la privatizzazione dell'acqua e del gas e si consolidarono nella forma partito/movimento costituendo il MAS (Movimiento al socialismo), che si definisce "strumento politico per la sovranità dei popoli e del movimento contadino, indigeno, originario e popolare" della Bolivia. Alla fine del 2005 il MAS ha vinto le elezioni legislative e presidenziali, portando alla presidenza della Repubblica Evo Morales, primo presidente indigeno nella storia della Bolivia.
I movimenti indigeni del continente rivendicano i diritti collettivi delle comunità native del pianeta, in particolare delle donne, l'autonomia e la dignità di queste e il diritto a opporsi a una globalizzazione neoliberale che li vede esclusi. È una rivoluzione culturale che dai movimenti nativi si estende ad altri settori della società. A partire dall'anno 2001 il cosiddetto 'movimento di Seattle' (nato dalla contestazione al summit del WTO svoltosi nel 1999 in quella città) ha deciso di riunirsi in un Foro sociale mondiale, in contrapposizione a quello economico di Davos, in Svizzera. Fu naturale scegliere come sede l'America Latina e in particolare la città brasiliana di Porto Alegre, capitale dello Stato del Río Grande do Sul, già governata da anni dal PT, sulla base di un programma di 'democrazia partecipativa'. È lo stesso principio alla base della costituzione della Repubblica bolivariana del Venezuela del 1999. L'opposizione delle classi dirigenti tradizionali venezuelane, della parte più conservatrice della Chiesa cattolica, delle multinazionali petrolifere, dell'FMI e dei governi spagnolo e statunitense, sfociò in un sanguinoso colpo di Stato a Caracas l'11 aprile 2002. Dopo 48 ore convulse, le straordinarie mobilitazioni popolari e il rifiuto di buona parte dell'esercito di schierarsi con i golpisti riportarono al governo il presidente Chávez. Era la prima volta nel continente che un colpo di Stato puntigliosamente organizzato falliva. Da quel momento l'esperienza venezuelana è divenuta avanguardia di un movimento integrazionista latinoamericano e di molti movimenti e partiti critici del fondomonetarismo.
In Argentina la rivolta del 19 e 20 dicembre 2001 si era mossa sul crinale del rifiuto generale della classe politica. Fu condotta dalle assemblee di quartiere, espressione delle classi medie, e dal movimento piquetero, espressione delle classi popolari, radicalizzate dalla disoccupazione e dalla fame. Nelle elezioni all'inizio del 2003 il sistema politico si è riconsolidato con la vittoria del peronista di sinistra Nestor Kirchner, proveniente dal Sud della Patagonia e semisconosciuto, ma percepito come candidato moralizzatore e referente di movimenti popolari e organizzazioni per i diritti umani.
Il presidente argentino ha stabilito un rapporto di sinergia con quello brasiliano Lula da Silva - eletto nel 2002 alla testa del PT - e con Chávez, che si è esplicitato in una politica di integrazione latinoamericana soprattutto in campo energetico. Chávez, ma anche altri dirigenti latinoamericani, hanno messo fine all'isolamento di Cuba voluto dagli Stati Uniti e aggravatosi alla caduta del muro di Berlino. Il presidente uruguayano Tabaré Vázquez, come primo atto del suo governo di centro-sinistra, in carica dal marzo 2005, ha scelto proprio di ristabilire piene relazioni con Cuba.
All'inizio del 2006 sia Lula sia Kirchner hanno saldato la parte di debito estero dei loro paesi dovuta all'FMI e fatto chiudere le rispettive agenzie del Fondo a Brasilia e a Buenos Aires. È stato un evento simbolico che per molti studiosi segna il punto di svolta di un secondo processo di decolonizzazione del continente latinomericano.
Di paese in paese
Durante il mandato di Carlos Saúl Menem (1989-99) il mantenimento di una parità artificiale tra la moneta locale, il peso, e il dollaro statunitense, sconfisse l'iperinflazione. Il presidente realizzò un imponente programma di privatizzazioni e stabilì con gli Stati Uniti quelle che avrebbe definito 'relazioni carnali'. Nonostante i successi macroeconomici, il suo governo non vide riprendere l'attività industriale del paese, mentre aumentarono esponenzialmente le disuguaglianze. Alla fine del suo secondo mandato, in una situazione economica deteriorata, le elezioni del 1999 furono vinte dal candidato del Partito Radicale, Fernando de la Rúa, appoggiato dalla sinistra. La parità con il dollaro, mantenuta per oltre un decennio, impediva le esportazioni, causando il passivo della bilancia dei pagamenti fin dalla metà degli anni Novanta e un impoverimento senza precedenti nella storia del paese. Nonostante l'alto livello di sviluppo umano e la generosità dell'ambiente, si ebbero morti per fame e denutrizione infantile generalizzata, soprattutto nel Nord. L'economia, in recessione per quattro anni consecutivi, dal 1999 al 2001 e poi ancora nel 2002, ha recuperato solo dopo la fine della parità artificiale, difesa dall'FMI. Questa è arrivata dopo la crisi del 2001, la rivolta popolare che ha causato la caduta di de la Rúa, e il default (impossibilità di pagare, con conseguente crollo dell'economia). Il peronista Eduardo Duhalde, che fu presidente ad interim fino alle elezioni dell'anno seguente, avallò la candidatura di Kirchner. Questi, al primo turno, conquistò appena il 22% dei voti e fu eletto presidente per la rinuncia di Menem al ballottaggio. Dopo pochi mesi, aveva ottenuto l'appoggio dell'80% degli argentini, stabilendo la propria autorità sulle Forze Armate, riaprendo i processi ai militari che avevano goduto dell'indulto con le leggi di obediencia debida e punto final, inaugurando una stagione di processi anticorruzione, recuperando il ruolo dello Stato nell'economia, dialogando con i movimenti sociali.
Quando nel 1998 l'ex dittatore Hugo Bánzer fu eletto come presidente costituzionale, la Banca Mondiale calcolò che il 97% della popolazione rurale del paese vivesse in povertà. Dal 2000 al 2004 le organizzazioni dei coltivatori di coca e i movimenti indigeni aymara e quechua sostennero delle lunghe lotte contro la privatizzazione dell'acqua e per impedire che il gas boliviano venisse esportato dalle multinazionali a prezzi molto inferiori a quelli di mercato. Nelle elezioni del 2002, il candidato del Movimento al socialismo, Evo Morales, raggiunse il 21% dei voti contro il 22% del candidato conservatore Gonzalo Sánchez de Lozada, che venne nominato presidente dal Parlamento. Nel settembre del 2003, per impedire l'esportazione di gas agli Stati Uniti attraverso il Cile, i movimenti indigeni e sociali e i lavoratori bloccarono completamente gli accessi alla città di La Paz. _La sanguinosa repressione generalizzò la protesta a tutto il paese fino alle dimissioni e alla fuga di Sánchez de Lozada a Miami. Alla fine del 2005, le elezioni sancirono la forza dei movimenti indigeni e sociali boliviani. Al primo turno e con oltre il 53% dei voti Morales è divenuto il primo presidente di origini native. Nei primi cento giorni di governo, tenendo fede al programma elettorale, ha nazionalizzato gli idrocarburi del paese, trovando piena solidarietà da parte dei presidenti di Brasile, Argentina e Venezuela.
La dittatura militare ha lasciato un Brasile con 20 milioni di disoccupati o sottoccupati su 130 milioni di abitanti e più del 50% di povertà. Nelle prime elezioni dirette dopo il ristabilimento della democrazia, nel 1989, il conservatore Fernando Collor de Mello sconfisse, con brogli, il candidato del PT Luiz Inacio 'Lula' da Silva. Collor adottò il modello neoliberale di privatizzazioni ma non riuscì né a combattere l'inflazione, né a sconfiggere la recessione e la disoccupazione, finché il Parlamento, avendone dimostrato la corruzione personale, lo licenziò e lo sostituì con Itamar Franco. Nel 1995 il Brasile fu classificato dalla Banca Mondiale come il paese più ingiusto del pianeta: lo 0,83% dei proprietari possedeva il 43% delle terre coltivabili. Il Movimento contro la fame e per la vita arrivò a dare aiuti alimentari a 4 milioni di persone. Di fronte al fallimento e al discredito della classe politica, la società civile e i movimenti sociali e cristiani di base crebbero e ampliarono le loro funzioni. Alla fine del 1993, il ministro dell'Economia Fernando Henrique Cardoso riuscì a sconfiggere l'inflazione con il Piano real, e ciò gli permise l'anno seguente di giungere alla presidenza della Repubblica, durante la quale non si discostò dalle linee del fondomonetarismo e continuò con le privatizzazioni. Nell'ottobre 2002 Lula, al quarto tentativo, è diventato presidente con 52 milioni di voti. Durante i primi tre anni del suo mandato ha svolto opera di pragmatismo, facendosi garante presso i mercati della solvibilità brasiliana e del ruolo del paese come grande potenza e attore globale. Ha avviato un piano di riscatto sociale chiamato Fome zero ("Fame zero"), che ha coinvolto 60 milioni di cittadini, sia pure affrontando critiche da parte dei movimenti sociali, soprattutto per la lentezza dei processi di cambiamento.
Dopo il ristabilimento della democrazia nel 1989, il Cile ha visto quattro vittorie elettorali consecutive della coalizione di centro-sinistra, detta Concertación, imperniata sull'alleanza tra Partito socialista e Democrazia cristiana. Nelle prime due legislature i presidenti sono stati democristiani: Patricio Aylwin e Eduardo Frei Rúiz-Tagle, figlio di Eduardo Frei Montalva (presidente dal 1964 al 1970). Nelle seconde due legislature i presidenti sono stati socialisti, Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, in carica dal 2006 e terza presidente donna del continente americano, dopo la nicaraguense Violeta Chamorro e la panamense Mireya Moscoso. Dal punto di vista economico il modello cileno è rimasto ancorato al sistema neoliberale impiantato in dittatura dai cosiddetti 'Chicago Boys' e all'integrazione dell'economia con gli Stati Uniti d'America più che con la regione latinoamericana. Nonostante alcuni successi macroeconomici, i governi non hanno diminuito la povertà nel paese né ripristinato servizi pubblici essenziali smantellati dalla dittatura di Augusto Pinochet. Questi ha continuato per tutti gli anni Novanta a controllare la vita politica cilena, fino al suo clamoroso arresto avvenuto a Londra nell'ottobre 1998. Dopo la sua liberazione e il ritorno in patria, l'emergere di una serie di scandali finanziari ne ha finalmente scalfito l'immagine, fino a riaprire anche in Cile la questione dell'impunità per le violazioni dei diritti umani durante la dittatura (1973-89).
In Colombia la guerra civile dura dal 1948. Esistono due organizzazioni guerrigliere (FARC, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, ed ELN, Ejercito de Liberación Nacional) di ispirazione marxista e almeno 140 gruppi paramilitari, finanziati dal narcotraffico ed espressione dell'oligarchia terriera. Nel 1997, la guerriglia avrebbe incassato 750 milioni di dollari dal narcotraffico, una cifra enorme, ma molto inferiore a quelle percepite dai vari cartelli di narcos e dai paramilitari. Nel 1998 fu eletto presidente il conservatore Andrés Pastrana, che in agosto annunciò il Plan Colombia, ispirato dagli Stati Uniti e mirato a sradicare le coltivazioni di coca. Il piano prevedeva la creazione di forze speciali da parte degli Stati Uniti, che investirono 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari. Le ultime negoziazioni di pace tra governo e FARC si interruppero nel febbraio 2002. Le successive elezioni videro la vittoria di Álvaro Uribe, contrario a ogni accordo di pace e legato a gruppi paramilitari di ultradestra. Il governo statunitense lo ha appoggiato con ulteriori aiuti per 2,6 miliardi di dollari e Uribe ha ottenuto l'intervento diretto di forze statunitensi nel paese. La guerriglia ha continuato a sequestrare civili, come la senatrice ambientalista Ingrid Betancourt, e i paramilitari hanno continuato ad assassinarli. Su 46 milioni di abitanti i poveri sono più di 25 milioni, 11 dei quali vivono nella più totale miseria. L'1,5% dei proprietari possiede l'80% dei terreni utili.
Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica e la fine del blocco socialista, la Cuba di Fidel Castro si è trovata in una situazione di particolare isolamento, soprattutto dal punto di vista macroeconomico, a causa dell'embargo statunitense, più volte inasprito. Per tutta la prima metà degli anni Novanta - il cosiddetto 'periodo speciale' - alcuni beni primari diventarono praticamente introvabili nell'isola e si verificarono numerosi episodi di emigrazione verso gli Stati Uniti. A partire dal 1995 la situazione ha cominciato a migliorare. Molte imprese straniere, soprattutto spagnole e canadesi, hanno attivato traffici nell'isola. È stato permesso il possesso di dollari e favorito il turismo. Soprattutto è stata avviata una radicale diversificazione dell'economia, che ha superato la storica schiavitù dalla monocoltura dello zucchero. Settori come quello minerario o altri tecnologicamente avanzati, come le biotecnologie o la farmaceutica, sono divenuti economicamente rilevanti. Nel 1999 la visita di papa Giovanni Paolo II e la sua condanna dell'embargo hanno messo fine all'isolamento stretto di Cuba. L'evoluzione politica latinoamericana ha aperto altre porte. L'interscambio con il Venezuela ha visto Cuba risolvere buona parte dei suoi problemi energetici e ha consentito di valorizzare il suo potenziale professionale e umano, soprattutto in campo sanitario. Nel 2004, per la prima volta dalla dissoluzione del COMECON, Cuba è entrata a far parte di una comunità economica, l'ALBA (Alternativa Bolivariana para la América), alla quale fanno capo anche Venezuela e Bolivia.
L'Ecuador si è dibattuto in una profonda crisi istituzionale e politica, segnata soprattutto dall'indebitamento. Per risolverlo si è ricorsi alla dollarizzazione dell'economia, comune anche a paesi come Panamá e, in parte, all'Argentina: informale dal 1995, è divenuta piena all'inizio del 1999 per opera del presidente Jamil Mahuad, nonostante le proteste della società civile, che vedeva ridotto ai minimi termini il proprio potere d'acquisto. A partire dal 1990 il movimento indigeno ha svolto un ruolo fondamentale, anche se con alterne fortune. Il più grande successo della CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) è stato il riconoscimento nella Costituzione del 1997 del carattere plurinazionale e multietnico del paese. In meno di dieci anni, i movimenti indigeni hanno rovesciato in rivolte popolari tre presidenti fondomonetaristi: Abdala Bucaram, Mahuad e Lucio Gutiérrez. L'ultimo dei tre, costretto alle dimissioni nel 2005, era stato eletto da una coalizione di sinistra, della quale faceva parte anche la CONAIE, ma se ne era poi allontanato.
Nel 1994 l'entrata in vigore del trattato di libero mercato nordamericano, coincisa con l'inizio delle attività dell'esercito zapatista, invece di far decollare l'economia verso il primo mondo, ne determinò la crisi. Al termine di quell'anno il peso messicano si era svalutato del 42% e il paese si ritrovava con 17 milioni di disoccupati. Far fronte al cosiddetto 'effetto tequila' fu compito di Ernesto Zedillo, eletto presidente nel 1994. Il suo fu l'ultimo governo del PRI, il Partido Revolucionario Institucional, al potere dagli anni Dieci. Nel 2000 gli è subentrato il candidato della destra conservatrice Vicente Fox, che ha impostato il suo mandato sull'amicizia con gli Stati Uniti e l'apertura dei mercati, e ha ritirato l'esercito dal Chiapas per favorire il processo di pace. La crisi economica, l'aumento dell'emigrazione verso gli Stati Uniti, la disoccupazione hanno posto fine alla sua popolarità. Nel 2003 il PRI è tornato a vincere le elezioni parlamentari di luglio e il PRD, partito di centro-sinistra, con Andrés Manuel López Obrador ha conquistato l'amministrazione di Città del Messico.
Nel luglio 2006 López Obrador è stato sconfitto di misura nelle presidenziali dal candidato della destra, Felipe Calderón. Il Messico resta un paese con problemi di democrazia e di violenza, come testimoniano il numero di giornalisti assassinati (20 dal 2000) e la strage di 370 giovani donne, avvenuta in 10 anni a Ciudad Juárez, nello Stato di Chihuahua, per la quale non è stata mai fatta giustizia.
Nel febbraio del 1989 il governo di Carlos Andrés Pérez represse nel sangue le proteste - denominate Caracazo - per l'aumento delle tariffe pubbliche, causando migliaia di morti e desaparecidos. Negli anni successivi un gruppo di giovani ufficiali, che nel 1989 si erano rifiutati di reprimere la folla, comandati da Hugo Chávez, tentò un colpo di Stato. Nel 1998 Chávez fu eletto presidente con il 56,5% dei voti. L'anno seguente, una nuova Costituzione partecipativa, redatta da un'assemblea costituente, fu approvata per referendum dal 70% degli elettori. L'avvicinamento a Cuba, la riattivazione dell'OPEC, i programmi di riforma agraria e di espropriazione delle terre improduttive e soprattutto la volontà di ridare allo Stato il controllo dell'impresa petrolifera portarono l'11 aprile 2002 a un tentativo di golpe e poi a una serrata dei dirigenti della compagnia petrolifera PDVSA, che per due mesi bloccò completamente l'attività estrattiva, causando al paese danni per 3 miliardi di dollari. Chávez ne è uscito politicamente rafforzato e radicalizzato. Favorito dagli alti prezzi del petrolio sul mercato mondiale e dalla riattivazione economica, ha dato impulso alla rivoluzione del sistema educativo e sanitario. Ha inoltre promosso una politica estera di integrazione latinoamericana - 'diplomazia petrolifera'- diretta soprattutto al Brasile, all'Argentina, alla Bolivia, a Cuba e ai piccoli Stati caraibici, che per la prima volta ha reso il Venezuela un attore della politica internazionale.
repertorio
Cenni storici
La fase coloniale
A partire dal 16° secolo il continente americano fu colonizzato dalle principali potenze marinare dell'Europa (Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Olanda) in modi piuttosto diversificati, secondo le caratteristiche del singolo popolo colonizzatore. Tale diversità ebbe il risultato di realizzare nel continente americano due gruppi etnico-linguistico-storici profondamente diversi: l'America Latina e l'America anglosassone.
L'America Latina, che comprende i territori dell'America Meridionale e Centrale, incluso il Messico, subì la colonizzazione portoghese e spagnola. Il Brasile fu ridotto a dominio del Portogallo nel 1500 e divenne suo possesso effettivo nel 1526; la Spagna conquistò il Messico con Hernán Cortés tra il 1519 e il 1522, il Guatemala grazie a Pedro de Alvarado nel 1523-24 e il Perù con Francisco Pizarro nell'arco di 12 anni, dal 1524 al 1536. A prevenire contestazioni fra le due potenze era intervenuto fin dal 1493 l'arbitrato di papa Alessandro VI, che con le due bolle Inter caetera tracciò la demarcazione tra le rispettive sfere d'influenza, stabilendo che le terre a occidente di una linea immaginaria passante dai poli, 100 leghe a ovest delle Azzorre, andassero alla Spagna, mentre quelle a oriente dovessero andare al Portogallo. La 'linea alessandrina' fu poi spostata nel 1494 con il trattato di Tordesillas e di nuovo nel 1529 con il trattato di Saragozza, assegnando parte delle isole Molucche (le isole delle Spezie) al Portogallo, in cambio di una forte indennità alla Spagna.
La colonizzazione portoghese all'inizio volle ispirarsi a un'organizzazione di tipo feudale (sistema di dodici capitanerie ereditarie, istituite tra il 1534-35 dal re Giovanni III) ma dopo la creazione del governatorato generale di Bahia (1548) finì con il presentare le stesse fasi e gli stessi fenomeni di quella spagnola. Questa ebbe inizialmente il solo scopo di appropriarsi dell'oro e dei tesori. Ne furono protagonisti i conquistadores, rapaci pionieri che agivano spesso per iniziativa personale e non per un piano organico della corona. Una volta chiusa l'età della conquista, il governo metropolitano intervenne e si ebbe un'organizzazione politica fondata sui due vicereami della Nuova Spagna (Messico) e del Perù. In periodi diversi, Guatemala (1527), Venezuela (1773), Cuba (1777) e Cile (1778) si staccarono dai vicereami e vennero retti da capitani generali dipendenti dal Consejo de Indias, che faceva capo direttamente al re. Il dominio spagnolo si ispirò a un rigido monopolio nel campo economico e a uno sfruttamento intensivo degli indigeni, costretti a vivere nelle encomiendas (soppresse nel 1542, ma presto risorte come repartimientos). La condizione degli indios costituì il lato più tragico della conquista spagnola e fu argomento anche di polemiche giuridico-teologiche, che videro contrapporsi per es. Bartolomé de Las Casas, fautore di un'evangelizzazione pacifica e contrario ai metodi brutali dei conquistatori, e Juan Ginés de Sepúlveda, il quale sosteneva la naturale inferiorità degli indios e il diritto di schiavizzarli. La quaestio de indiis, il dibattito sul diritto o meno alla conquista e sulla legittimità del potere spagnolo nel Nuovo Mondo, si concluse con gli editti e le ordinanze di Carlo V contro la schiavitù e gli abusi dei coloni. Nonostante le numerose leggi per la tutela del corpo e dell'anima, la rapacità degli spagnoli (laici, ma anche ecclesiastici) avrebbe alla fine fatto scomparire gli indigeni, se la quasi totale assenza delle donne europee non avesse spinto i coloni al concubinaggio con le indiane, creando il meticciato.
Le vicende diplomatico-territoriali delle potenze europee ebbero una ricaduta importante sui territori del subcontinente americano. Tra il 1580 e il 1640 il dominio coloniale portoghese si riunì a quello spagnolo, l'Olanda si insediò temporaneamente nel Brasile, l'Inghilterra, l'Olanda, la Francia intrapresero una spietata guerra economica contro il sistema monopolistico iberico, durante la quale emerse in particolare il fenomeno dei filibustieri, predoni di mare che imperversavano lungo le coste caraibiche. Sorte diversa ebbe la regione dell'attuale Paraguay, che fino al 1767 fu teatro della singolare colonizzazione comunistico-religiosa delle reducciones, piccoli nuclei cittadini in cui erano organizzate le missioni dei gesuiti.
Il movimento per l'indipendenza
La seconda metà del 18° secolo vide l'affermarsi di un lento ma costante processo di autonomia e indipendenza da parte dei paesi latinoamericani. La forte spinta verso l'autonomia proveniva non solo dal rapido declino delle potenze spagnola e portoghese, ma soprattutto dall'interesse concreto dei coloni, che in un momento d'intenso sviluppo agricolo delle colonie si sentivano danneggiati dal predominante sistema vincolistico. Si aggiungeva a ciò il costituirsi di una nuova popolazione mista (creoli, meticci, mulatti), che non aveva più alcun legame con l'Europa e che vedeva sempre più nella dominazione spagnola una pura usurpazione. Furono gli spagnoli colti ad agitare il mito indigeno, denominandosi Amigos del país e denunciando le limitazioni economiche e politiche cui erano sottoposti. In queste condizioni maturò il distacco dell'impero coloniale spagnolo dalla madrepatria, che ebbe come principali protagonisti José de San Martín e Simón Bolívar e si realizzò tra il secondo e terzo decennio del 19° secolo, dando l'avvio alla storia nazionale delle repubbliche dell'America Centrale e Meridionale. Il Paraguay diventò indipendente nel 1813, l'Argentina nel 1816, il Cile nel 1818, la Colombia nel 1819, il Perù e il Messico nel 1821, il Venezuela nel 1823, la Bolivia nel 1825. Un processo diverso seguì il Brasile, che divenne impero costituzionale nel 1822 per approdare alla repubblica solo nel 1889.
L'indipendenza delle repubbliche ex spagnole poté consolidarsi lentamente perché vi si opponevano non solo la politica delle potenze europee, ma soprattutto le mire espansionistiche del Brasile e il profondo contrasto nelle stesse repubbliche fra la tendenza a un particolarismo con pretese egemoniche e quella volta a creare delle unioni federali: a Guayaquil nel 1822 il programma di egemonia argentina di San Martín si scontrò con quello di egemonia colombiana di Bolívar e negli anni successivi fallirono tutti i tentativi di creazione federale, come quello della Grande Colombia, scioltasi nel 1821 o quello delle Province Unite dell'America Centrale, che si costituì nel 1824 tra Honduras, Guatemala, Costa Rica, El Salvador, Nicaragua e si ruppe nel 1839. All'interno, infine, violenti antagonismi razziali tra la popolazione bianca e gli indigeni sul diritto di voto e sul possesso della terra favorirono il sorgere del fenomeno del caudillismo, per il quale la direzione politica di un paese veniva affidata al capo militare che si era impadronito del potere con un colpo di Stato. La lotta delle opposte fazioni a volte uscì dai confini nazionali, come accadde tra il 1842 e il 1851 nella guerra del dittatore argentino Juan Manuel de Rosas contro l'Uruguay per ridare il potere a Manuel Oribe, o spinse gli stranieri a intervenire, come nel caso del Messico, costretto a cedere agli Stati Uniti alcune province e nel 1864-67 a subire l'intervento francese e l'impero di Massimiliano d'Asburgo.
La penetrazione degli USA
Il 2 dicembre 1823 in un messaggio al Congresso il presidente degli Stati Uniti, James Monroe, dichiarò che gli USA non avrebbero più tollerato che le potenze europee fondassero colonie nel continente americano e che qualsiasi ingerenza dei governi europei sarebbe stata considerata come una minaccia alla sicurezza e alla pace. Se l'intento di Monroe, che già nel 1822 aveva riconosciuto l'indipendenza delle colonie ribelli dell'America Latina, era di evitare che le potenze della Santa Alleanza riconducessero sotto la sovranità spagnola le colonie, la sua dottrina di fatto creò le premesse per un'egemonia degli USA su tutto il continente, che si affermò pienamente dopo la fine della Guerra di Secessione (1861-65).
La penetrazione statunitense fu rapida, inizialmente limitata all'aspetto economico, con lo sfruttamento dei bacini petroliferi del Messico già nella prima metà del 19° secolo, ma estesa presto anche a quelli politico-diplomatici, con il ruolo di arbitrato che gli USA ebbero nel 1880 nella Guerra del Pacifico, e nel 1895 tra Venezuela e Inghilterra. Nel 1898 scoppiò la guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna per il possesso di Cuba, conflitto durato solo 10 settimane che permise agli USA di impadronirsi di diversi territori; anche se non vi fu una formale annessione dell'isola, Cuba rimase sottomessa agli USA fino al 1902. La politica statunitense di intervento negli affari interni delle altre repubbliche americane si radicò ulteriormente con la presidenza di Theodore Roosevelt (1901) e la sua 'politica del big stick', imperniata sul rafforzamento militare, soprattutto navale, ai fini di un'affermazione del predominio statunitense nei Caraibi e in America Centrale, accompagnata dalla cosiddetta 'diplomazia del dollaro', realizzata attraverso la penetrazione delle grandi società commerciali statunitensi e la sostituzione degli Stati Uniti ai creditori europei. Nel 1901 gli Stati Uniti guadagnarono il controllo sul Nicaragua, che nel 1912-25 si sarebbe trasformato in una vera occupazione militare, nel 1903 provocarono la secessione di Panamá dalla Colombia, dal 1905 ottennero il controllo finanziario su Santo Domingo e poi la sua amministrazione nel 1916, nel 1915 occuparono militarmente Haiti.
Woodrow Wilson, salito alla presidenza degli USA nel 1912, sembrò deciso a ripudiare l'intervento nei paesi latinoamericani a protezione degli interessi economici statunitensi, ma di fatto si rivelò ancora più interventista dei suoi predecessori. Fu la Prima guerra mondiale, con la partecipazione degli Stati Uniti, a modificare la situazione. L'essersi aperti a una politica mondiale spinse gli USA a correggere la loro concezione di panamericanismo, abbandonando la politica del big stick e pensando all'America Latina come a un blocco di Stati liberi, le cui singole politiche potevano sintonizzarsi con quella degli Stati Uniti, che avrebbero agito solo come un fattore d'ordine.
Gli anni della Seconda guerra mondiale
Mentre le piccole repubbliche dell'America Centrale erano state facile terreno di penetrazione, altrettanto non può dirsi per gli Stati dell'America Meridionale, dove Argentina, Brasile e Cile furono a lungo ostili all'onnipotenza statunitense. Il ventennio tra le due guerre mondiali fu caratterizzato dal sorgere di nuove ideologie e movimenti, che attraverso un richiamo alla hispanidad colpivano il panamericanismo d'ispirazione statunitense. Benché la presidenza di Franklin Delano Roosevelt (1933-45) confermasse il ripudio del big stick, proprio in quel periodo l'Argentina si pose come la grande antagonista degli Stati Uniti nel continente americano. L'urto delle due tendenze si manifestò all'VIII Conferenza panamericana di Lima (1938), dove l'Argentina si batté per garantire autonomia di decisioni a ogni Stato latinoamericano, pur accettando il principio della solidarietà panamericana e riconoscendo il ruolo come organo speciale della Conferenza dei ministri degli Esteri delle 21 repubbliche.
La Seconda guerra mondiale rese gli Stati Uniti grandi protagonisti delle relazioni internazionali e solo l'Argentina e il Cile, almeno per un certo periodo, non si allinearono all'indirizzo della politica di Roosevelt. Alla fine del conflitto, che aveva isolato l'America Latina dall'Europa, contribuendo invece a creare una solidarietà tra statunitensi e latinoamericani anche grazie ai successi economici conseguiti durante gli anni di guerra, una sorta di coscienza collettiva sembrava animare il continente, che si sentiva pronto ad affrontare i problemi del riassetto di un mondo sconvolto dalla guerra. Nel 1948 fu promossa l'Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che sostituiva l'Unione panamericana e aveva come suoi scopi la pace e la sicurezza dell'America, e lo sviluppo economico e sociale dei paesi contraenti attraverso una reciproca collaborazione. Altre iniziative furono messe in atto per realizzare forme di integrazione politica ed economica tra diversi paesi latinoamericani. La Gran Colombia nel 1948 cercò di costituire una integrazione tra Colombia, Ecuador, Venezuela e Panamá, ma i risultati furono piuttosto modesti. Nel 1951, con la Carta di San Salvador fu istituita l'Organizzazione degli Stati centroamericani (ODECA) allo scopo di promuovere la loro cooperazione e il loro sviluppo economico, sociale e culturale. Nel 1957 l'ODECA ebbe ulteriore impulso con la formazione di un'area di libero scambio tra Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Honduras ed El Salvador.
Ma proprio i problemi internazionali sorti all'indomani della Seconda guerra mondiale dovevano incrinare la solidarietà continentale. Gli USA, impegnati a fondo in quasi tutti gli scacchieri del mondo, non erano più in grado di mantenere con gli alleati dell'emisfero meridionale i rapporti economici sviluppatisi in modo eccezionale durante il corso del conflitto. Le nazioni latinoamericane videro così, nel giro di pochi anni, sfumare le ingenti riserve auree accumulate fra il 1940 e il 1945. L'America Latina si trovò impreparata a dover affrontare l'adeguamento di un'economia di guerra ai nuovi tempi. L'industrializzazione forzata che cominciava a pesare enormemente sull'economia interna, la perdita dei mercati tradizionali assorbiti da nuovi concorrenti, l'incapacità di trasformare le monocolture in prodotti più vari e redditizi furono i principali fattori che, aggiunti alle rivendicazioni e inquietudini sociali, segnarono l'inizio, in tutta l'area, di una crisi allarmante sia per il progressivo deterioramento della situazione economica, sia per l'aggravarsi dei problemi sociali.
Tramonto del panamericanismo
La profonda crisi economica e sociale nella quale versavano molti dei paesi latinoamericani causò lo sviluppo di organizzazioni rivoluzionarie, che avevano studenti e intellettuali tra le proprie file. Al contempo la guerra fredda implicò un irrigidimento delle politiche di Washington verso l'America Latina, con l'obiettivo di ostacolare la diffusione del comunismo. Durante la presidenza di Dwight David Eisenhower (1953-61), che pure aveva dichiarato di voler realizzare una politica fondata sulla compartecipazione e sull'assoluta parità di diritti sia politici sia economici (good partnership policy), gli interventi degli Stati Uniti per impedire ogni forma di penetrazione comunista furono frequenti, anche se indiretti, come nel 1954 in Guatemala, dove gli USA contribuirono ad abbattere il regime progressista di Jacobo Arbenz Guzmán, suscitando un'ondata di ostilità antistatunitense che si diffuse in molti paesi latinoamericani. Nel 1956 l'Unione Sovietica e diversi paesi dell'Est europeo cominciarono ad allacciare rapporti economici e commerciali in America Latina, chiaro segno della progressiva ostilità nei confronti degli Stati Uniti. Le violenze che si verificarono nel 1958 in occasione di un viaggio del vicepresidente Richard Nixon in molti paesi latinoamericani ne furono la testimonianza. Nel 1959 a Washington e a Buenos Aires alcune riunioni coinvolsero i diversi rappresentanti dei paesi latinoamericani, conseguenza diretta del messaggio drammatico che il presidente brasiliano Juscelino Kubitschek de Oliveira aveva indirizzato a Eisenhower sollecitandolo a intervenire affinché il panamericanismo, ormai al tramonto, venisse rilanciato.
Il leader latinoamericano che raccolse i maggiori entusiasmi fu Fidel Castro, il rivoluzionario cubano che nel 1959 aveva abbattuto la dittatura di Fulgencio Batista e che si accreditava come il campione dell'antimperialismo statunitense. Il radicalismo antimperialista dei rivoluzionari cubani, inizialmente non di impronta comunista, si era presto trasformato in un'ideologia anticolonialista di ispirazione marxista. All'adozione di misure che toccavano direttamente gli interessi economici di Washington, il governo statunitense reagì imponendo l'embargo sull'importazione dello zucchero, prodotto base dell'economia cubana. Castro replicò allacciando relazioni economiche e politiche con l'Unione Sovietica e proclamando Cuba primo paese socialista dell'America Latina. Dopo un tentativo nel 1961 di invasione dell'isola da parte degli USA, Castro accettò di far installare numerose batterie di missili sovietici in grado di colpire le vicine città americane. La reazione del presidente John F. Kennedy fu di imporre il blocco totale di Cuba. Il mondo si trovò sull'orlo di una guerra mondiale che avrebbe potuto avere un esito apocalittico. L'Unione Sovietica decise di ritirare i missili da Cuba e la guerra fu evitata, ma la rottura fra USA e Castro fu definitiva. La crisi dei missili determinò una divaricazione nei paesi latinoamericani tra l'atteggiamento di simpatia verso il castrismo da parte di larghi strati dell'opinione pubblica e una crescente diffidenza da parte delle oligarchie economiche e politiche al potere in molti paesi. Nel 1961 con la creazione a Punta del Este dell'Alleanza per il progresso, Kennedy lanciò un imponente piano decennale per potenziare lo sviluppo politico e sociale dell'America Latina. Cuba fu esclusa ed estromessa dall'OAS. La Carta di Punta del Este rappresentò lo sforzo massimo compiuto da Washington per tentare di risolvere i problemi latinoamericani. I primi risultati però non apparvero soddisfacenti e le parti interessate si addossarono reciprocamente la responsabilità per il mancato successo. L'America Meridionale, cosciente dei pericoli cui andava incontro se non riusciva ad arrestare il dilagante stato di disagio economico-sociale, iniziò, sull'esempio di analoghe iniziative europee e dell'America Centrale, un processo d'integrazione economica mediante l'ALALC, Associazione latinoamericana di libero scambio (1961), alla quale aderirono Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Messico, Paraguay, Perù, Uruguay e Venezuela. Il grande ostacolo che si frapponeva all'ALALC era la mancanza di complementarità delle economie delle singole repubbliche, aggravato dalla deficienza di trasporti in un'area di così vasta estensione.
L'impossibilità di risolvere i problemi nell'ambito del panamericanismo, che fu messo a dura prova in occasione dell'intervento degli USA a San Domingo (1965), spinse i latinoamericani a cercare nuove vie e a partecipare più attivamente alla politica internazionale. Le iniziative (Brasile e Messico) alla conferenza per il disarmo, la proposta brasiliana di un trattato multilaterale di non aggressione al di fuori della NATO e del Patto di Varsavia, l'invio di delegati alle conferenze dei paesi non allineati a Belgrado e dei paesi in via di sviluppo al Cairo, il progetto latinoamericano di denuclearizzazione del subcontinente (1962) approvato da una risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unte (1963), furono tutte manifestazioni della volontà di svolgere una politica indipendente.
L'epoca delle dittature
Gli anni Sessanta non registrarono significativi miglioramenti della situazione socioeconomica del subcontinente americano e conseguentemente anche la situazione politica divenne sempre più instabile. Il peso preponderante che, nella maggior parte dei paesi, le oligarchie dominanti continuavano a esercitare sulla vita politica si esprimeva nella frequenza dei colpi di Stato, delle dittature militari o dei governi sostenuti dai militari. La riunione tenuta nel 1966 a Bogotà da cinque presidenti eletti con sistemi democratici (Cile, Colombia, Venezuela, Perù, Ecuador) ebbe l'evidente significato di condannare la diffusione di regimi militari in seguito all'instaurazione di governi del genere in Argentina e Brasile. Per contro, si andava diffondendo nell'America Latina una forza politica nuova, la Democrazia cristiana, che nel 1964 si affermò alle elezioni in Cile con Eduardo Frei Montalva. Questi, divenuto presidente, cercò di realizzare una politica di apertura verso i problemi sociali senza ricorrere a estremismi, distanziandosi da forze reazionarie e conservatrici. Ma nel 1959 il suo governo entrò in crisi e si aprì la strada per il successo elettorale del socialista Salvador Allende, poi tragicamente neutralizzato nel 1973 dal colpo di Stato militare condotto da Augusto Pinochet, con il concorso degli Stati Uniti.
La difficile situazione della maggioranza dei paesi latinoamericani si manifestava negli stessi processi di sviluppo che li investivano, caratterizzati da accentuati fenomeni di polarizzazione economica e sociale e di crescita della dipendenza dalle aree più forti del mondo industrializzato. Tali fenomeni, proseguiti negli anni Settanta e Ottanta, resero l'America Latina una delle zone del globo più agitate dalle tensioni sociali, contribuendo ad alimentarne la notevole instabilità politica. Gli anni Settanta continuarono a essere caratterizzati dalla frequenza dei colpi di Stato e delle dittature militari. La durezza della repressione raggiunse in alcuni casi punte estreme, in particolare attraverso il fenomeno della 'sparizione' degli oppositori politici (decine di migliaia di desaparecidos in Argentina) o quello della loro esecuzione sommaria a opera di 'squadroni della morte' costituiti da elementi della polizia, delle forze armate e dei gruppi di estrema destra. In più occasioni furono colpiti esponenti della Chiesa cattolica, importanti settori della quale, a partire dagli anni Sessanta, si mostravano sensibili alle istanze di liberazione dell'America Latina dai mali del sottosviluppo, dell'oppressione politica e dell'ingiustizia sociale, contribuendo, talvolta in modo determinante, alla mobilitazione delle masse popolari. L'influenza esercitata dagli Stati Uniti sul corso delle vicende fu oggetto di durissime critiche da parte di intellettuali ed esponenti politici, non soltanto della sinistra rivoluzionaria ma anche di quella democratica. Washington venne particolarmente criticata per l'appoggio decisivo dato alla dittatura di Pinochet in Cile. Nel 1975, per iniziativa del Messico e del Venezuela, sorse un nuovo organismo, il Sistema economico latinoamericano (SELA), orientato verso la revisione dei rapporti con Washington e l'integrazione di tutti i paesi del subcontinente.
Il ritorno della democrazia
L'ulteriore peggioramento della situazione economica e sociale verificatosi in America centrale negli anni Ottanta alimentò conflitti politici e militari, contribuendo ad aggravare la crisi regionale: risultarono a lungo inefficaci le ripetute iniziative di pace, promosse soprattutto dal cosiddetto gruppo di Contadora, formato nel 1983 dai ministri degli Esteri di Messico, Panamá, Colombia e Venezuela. Nel 1983 la sconfitta subita dalla Gran Bretagna che in poche settimane riconquistò la sovranità sulle Isole Falkland nell'Atlantico meridionale invase da truppe argentine, determinò la crisi definitiva della giunta militare di Buenos Aires, che si vide costretta a convocare libere elezioni, in seguito alle quali il radicale Raúl Alfonsín ebbe la presidenza della Repubblica. In Brasile si tennero le prime elezioni libere nel 1985 e consultazioni democratiche si ebbero tra il 1984 e il 1985 in Perù, Uruguay e Bolivia. Nel 1988 il regime di Pinochet in Cile fu sconfitto in un referendum che era stato indetto dallo stesso dittatore, e il democristiano Patricio Aylwin divenne presidente l'anno successivo. Alla fine degli anni Ottanta quasi tutta l'America Latina aveva riguadagnato la democrazia. Il consolidamento dei regimi democratici, tuttavia, trovò innumerevoli ostacoli di natura economica e politica. Il netto peggioramento delle condizioni economiche di molti dei paesi latinoamericani, che, accanto alla persistenza delle tradizionali difficoltà e dei vecchi squilibri, videro l'esplosione del gravissimo problema del debito estero (acuitosi fino al 1985 per la crescita dei tassi d'interesse e per la rivalutazione del dollaro), costrinse i governi, anche in seguito alle pressioni dei creditori internazionali, ad adottare misure di austerità assai drastiche, che determinarono un ulteriore abbassamento del livello di vita delle popolazioni, suscitando nuove preoccupanti tensioni sociali. In alcuni paesi, soprattutto Colombia e Perù, si fece sempre più drammatico il fenomeno della guerriglia, protagonista di azioni sanguinose anche nei confronti della popolazione civile. Altra grave minaccia alla stabilità democratica era rappresentata dai narcotrafficanti, che raffinavano ed esportavano sui mercati statunitensi ed europei la cocaina prodotta in Perù e soprattutto in Bolivia e apparivano in grado di condizionare con gli enormi profitti realizzati l'operato dei governi.
Ancora più complessa, dal punto di vista politico, era la situazione dei piccoli Stati dell'America Centrale, dove la fine di dittature personali come quella di Anastasio Somoza Debayle in Nicaragua, nel 1979, o di Jean-Claude Duvalier, che aveva proseguito il regime del padre François, a Haiti nel 1986, non si trasformò in una stabile affermazione della democrazia. Era soprattutto il Nicaragua a destabilizzare l'area. Il movimento rivoluzionario sandinista, così chiamato da Augusto César Sandino, eroe nazionale e promotore della lotta anticolonialista negli anni Venti del 20° secolo, prese il potere nel 1979 anche sull'esempio della rivoluzione cubana. Gli Stati Uniti reagirono, durante la presidenza di Ronald Reagan, e concorsero con finanziamenti alla lotta armata dei guerriglieri contras per reprimere i sandinisti. Nel 1989 si giunse a una tregua e furono indette libere elezioni nel corso delle quali i candidati sandinisti furono sconfitti. Alla fine degli anni Ottanta il collasso dell'URSS determinò una difficoltà economica enorme per il regime cubano di Fidel Castro che si vide costretto a intensificare le politiche repressive, con la conseguenza di un esodo dall'isola di migliaia di suoi oppositori. Uno dei fenomeni che caratterizzò gli ultimi anni del decennio fu il pesante carico di debiti accumulati da molti paesi dell'America Latina con l'estero, debiti che erano stati contratti per realizzare programmi di sviluppo senza precedenti, ma che poi nel tempo erano così cresciuti da fagocitare quasi tutto il valore degli scambi di quei paesi con l'estero. Per evitare la bancarotta alcuni governi sudamericani cercarono di creare aree di integrazione economica, sul modello europeo. Nel 1992 il Messico sottoscrisse con gli USA e il Canada un accordo di libero scambio, il NAFTA (North American free trade agreement). L'anno precedente Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay avevano dato vita a uno spazio commerciale comune del Sud, il MERCOSUR (Mercado común del Sur), successivamente allargato al Cile e alla Bolivia con ricadute sul volume delle esportazioni dei paesi coinvolti.