amicizia
Comunità tra due o più persone, unite da affetti e da interessi, ispirata da affinità di sentimenti e da reciproca stima. Il termine amicizia, in greco φιλία, si incontra nella filosofia greca dapprima come concetto fisico in Empedocle con il significato di forza cosmica, e insieme anche di divinità, che spinge in armonica unità gli elementi (aria, acqua, terra, fuoco). Aristotele ha segnato in maniera decisiva la storia del concetto di a., con la lunga analisi che ne fa nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea (➔). In tale trattazione l’a. è una virtù o si accompagna alla virtù, fondata non su sensazioni e passioni, ma sull’abitudine e su una libera scelta. Inoltre è «cosa necessarissima per la vita», in quanto nessuno sceglierebbe di vivere senza amici anche se avesse tutti gli altri beni. L’a. deve essere distinta dall’amore (➔) (con cui è collegata, ma non si identifica, in quanto è più ampia) e dalla benevolenza (a cui più si avvicina). L’amore, infatti, è simile a un’affezione (πάϑος, cioè una modificazione subita), mentre l’a. è un abito, come la virtù; inoltre l’amore è unito a desiderio ed eccitazione (sentimenti estranei all’a.) ed è provocato dalla vista del bello e dal piacere che ne deriva. L’a. si distingue poi dalla benevolenza, perché quest’ultima può essere rivolta a sconosciuti e rimanere nascosta, mentre l’a. comporta un rapporto attivo. Più specificamente, l’a. è caratterizzata dalla reciprocità e dal «vivere insieme», cioè dalla comunanza di ideali e di vita: nasce tra uguali che hanno cose in comune. Fondamento dell’a. può essere l’utile o il piacere reciproco, oppure il bene. Nei primi due casi l’amico è amato per quello che di utile o di piacevole proviene da lui, non per quello che egli è. Si tratta di a. rapide e fuggevoli perché le persone non restano sempre uguali, e quando non sono più piacevoli o utili, l’a. cessa. Ci sono tanti tipi diversi di a., quante sono le comunità esistenti nella società: a. tra naviganti, tra soldati, tra coloro che fanno un lavoro comune; può esserci a. anche tra padrone e servo (se quest’ultimo è considerato non come uno strumento animato, ma come un uomo), ma non con il tiranno, dal momento che non c’è niente in comune tra chi comanda e chi obbedisce. Dopo Aristotele, il tema fu largamente sviluppato, specie dai peripatetici, dagli stoici e dagli epicurei, che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica: l’a. è, infatti, una delle principali esperienze della vita del saggio, con una connotazione aristocratica ed esclusiva che non aveva in Aristotele, per il quale l’a. è fenomeno diffusamente umano. All’argomento è dedicata una delle operette filosofiche di Cicerone, il Laelius. Il concetto dell’a. sulla base della definizione aristotelica è stato assunto dal cristianesimo e insieme trasformato: al di sopra dell’a. naturale e umana, che è selettiva (tra persone che hanno qualcosa in comune) vi è quella cristiana, estesa all’umanità intera e fondata sull’amore fraterno che congiunge gli uomini fra loro e con Dio, Padre comune. Nella Bibbia Abramo è detto «amico di Dio» e questi parla a Mosè come a un amico; anche Gesù chiama amici, non servi, i discepoli cui comunicò quanto apprese dal Padre (Giovanni 15,15). Da qui nacque la concezione di un’a. soprannaturale, divina, che ebbe risonanze anche fuori del cristianesimo (Filone, mandeismo, manicheismo). S. Tommaso, sviluppando concetti aristotelici e cristiano-neoplatonici, vede in essa l’essenza della carità infusa, in quanto questa implica la benevolenza mutua tra il giusto, che vuole la gloria di Dio, e Dio, che vuole il bene del giusto e gli conferisce la grazia santificante. Questa concezione venne poi fatta propria specialmente dai domenicani tedeschi e acquistò un’importanza speciale nella mistica tedesca del 14° sec., tra i gruppi degli Amici di Dio. Nel Rinascimento Montaigne trattò l’a. sotto l’aspetto psicologico e la definì come una «servitù volontaria»: è infatti uno dei legami più profondi, perché disinteressato, che si instaurano tra gli esseri umani, ed è più forte dell’amore, che è invece un ardore che dura poco (Saggi, I, 28).