Ammalarsi e guarire
La definizione di malattia
Si usa definire la malattia come una perdita della salute; da ciò deriva che, per comprendere il significato del termine, è necessario spiegare cosa s’intende per salute. Si può dire che una vita è sana quando vi predomina il benessere come prodotto del corretto funzionamento degli organi; ma con una definizione più rigorosa è possibile affermare che la salute si colloca all’interno dei parametri solitamente usati per differenziare la normalità dall’anormalità. Ciascuna delle funzioni vitali di un organismo biologico potrebbe quindi essere studiata, in linea di principio e in teoria, per determinare se si colloca all’interno dei parametri che configurano la sua normalità, il che porterebbe senza dubbio a stabilire se l’organismo in questione raggiunga o meno il grado massimo di normalità, costituito ‘idealmente’ dalla normalità di tutte le sue funzioni.
È evidente che se si studia un insieme di organismi con un criterio statistico, si arriverà alla conclusione che questo stato di normalità ‘ideale’ non solo non è frequente, ma forse non esiste neppure. In altre parole, se si usa questa norma ideale per definire cosa si deve intendere per salute, si arriva alla conclusione che la salute non è la condizione predominante o, per dirlo in altri termini, che la salute ‘completa’ non è ‘normale’. La normalità, nel senso statistico del termine, si ha quando l’immensa maggioranza di una popolazione si trova in una condizione in cui alcune delle proprie funzioni, considerate separatamente, sfuggono ai parametri considerati normali. Di fronte a tale situazione, tuttavia, la medicina solitamente non parla di malattie, ma al massimo di acciacchi o di indisposizioni abituali. A eccezione di alcune circostanze particolari, non vengono ritenute malattie nel senso pieno del termine, per es., la difficoltà di conciliare il sonno, i difetti di rifrazione ottica che si possono compensare con l’uso degli occhiali, la calvizie o la più o meno lieve ipotrofia muscolare provocata da una vita sedentaria.
Quando Gregory Bateson, nel suo libro Steps to an ecology of mind (1972; trad. it. 1976), fa riferimento a situazioni nelle quali l’adattamento si ottiene al prezzo di una diminuzione della flessibilità di cui l’organismo si avvale per affrontare le avversità, si inoltra nella zona al limite tra salute e malattia, introducendo un punto di vista e un concetto che è indispensabile citare. In altre parole: una funzione può continuare a esercitarsi entro i limiti fisiologici grazie al fatto che un’altra ‘funzione’, in questo caso la capacità di adattamento, è scesa sotto i parametri che consideriamo normali.
Al di là delle definizioni rigorose che aspirano a una precisione irraggiungibile, è possibile limitarsi al concetto che essere malati significa essere entrati in una condizione nella quale un’alterazione di qualcuna delle funzioni biologiche ostacola l’abituale continuazione della vita. Tuttavia, quando Viktor von Weizsäcker (Pathosophie, 1956), il fondatore dell’epistemologia medica da lui denominata antropologica, sostiene che la salute non è normale, e che la normalità è la malattia, sembra voler intendere qualcosa di più. La sua intenzione sembra quella di sostenere che il processo denominato ammalarsi costituisce, in quella che si può considerare la zona confinante con l’adattabilità, un’ultima risorsa per gestire le difficoltà che la vita presenta, e che l’uso di tale risorsa è abbastanza frequente da poter essere considerato abituale.
Cambiamenti nel concetto di malattia
Pedro Laín Entralgo, nella sua Introducción histórica al estudio de la patología psicosomática (1950), ripercorre le alterne vicende che, in diverse epoche, diedero forma a differenti concezioni della malattia. La validità che oggi riconosciamo a questo riesame storico si fonda sull’aver egli compreso che tali concezioni conservano, nelle parti non coscienti della nostra vita psichica, la permanente capacità di influenzare le nostre idee e i nostri sentimenti riguardo alla malattia. È su questo punto di vista – che riconosce l’efficacia a livello inconscio delle idee ‘passate’ – che si basano i metodi con cui oggi si tenta di scoprire cosa avviene quando ci si ammala.
La malattia era considerata nell’antica Babilonia come una colpa, un peccato spirituale, la cui risoluzione richiedeva l’arte della divinazione, dato che questo peccato non era riconosciuto coscientemente da colui che ne pativa le conseguenze. Per i greci, invece, la malattia era un’alterazione della physis, la materia naturale, a opera dei ‘miasmi’ o ‘macchie’ e del ‘disonore’, materie cattive che dovevano essere eliminate mediante la ‘catarsi’, un mezzo fisico per trovare sollievo. La medicina di Galeno tornò a individuare un peccatore in chi soffre di una malattia che si manifesta nel corpo; tuttavia, mentre per gli assiri il malato era innanzitutto un peccatore, per Galeno il peccatore era prima di tutto un malato. L’avvento del cristianesimo introdusse una variante. Sebbene si possa anche sentir dire che Dio punisce il peccato con la malattia, l’elemento più importante dell’interpretazione cristiana sembra risiedere in questo: il significato della malattia consiste nel mettere alla prova la creatura di Dio e nell’offrirle l’occasione di meritarsi il cielo.
Lo sviluppo della scienza ci ha fatto entrare in una nuova visione della malattia. Nell’interpretazione che la scienza, in prima istanza, diede di questo termine, il suo significato biografico venne abbandonato alla sfera della religione, o semplicemente lasciato cadere, ignorato. La causa ‘prima’, opera di Dio o del caso, venne trasferita verso l’agente patogeno, che fosse fisico, chimico o biologico, il quale costituiva così la causa principale della malattia; una causa che presto ha accettato di condividere il suo trono con altre cause associate, che agiscono come elementi preparatori del terreno in cui il processo patologico si sviluppa. Negli ultimi decenni, per es., gli enormi progressi ottenuti nello studio del genoma hanno condotto a rivalutare l’importanza della predisposizione genetica. Se per gli assiro-babilonesi la terapia era la divinazione del peccato spirituale, per i greci la catarsi dalle materie cattive e per i cristiani la comunione con Dio, per il pensiero scientifico occidentale questa terapia è una tecnica di lotta, precisa e definita, contro le cause della malattia. Questa guerra tra il medico e le cause si svolge all’interno dell’uomo che soffre della malattia e che, in quella che si è arrivati a definire medicina disumanizzata, deve diventare, nello stesso tempo, campo di battaglia e spettatore passivo della lotta che la terapia e il medico, in quanto tecnico, ingaggiano contro la malattia e contro le cause che ne sono all’origine.
La malattia nella nostra epoca
Sappiamo che la nostra percezione delle cose dipende sempre dalla teoria con cui ci avviciniamo all’oggetto che cerchiamo di conoscere. Il risultato di un esperimento è inevitabilmente condizionato dal modo in cui esso è stato impostato. Le risposte che possiamo ottenere si trovano sempre all’interno del territorio delimitato dal modo specifico in cui si formulano le domande; un quesito impostato sul territorio della chimica potrà darci solo una risposta formulata nei termini che questa scienza utilizza. I problemi posti dalla malattia non fanno eccezione, e una caratteristica specifica della nostra epoca consiste appunto nell’avvicinarsi alla malattia da un punto di vista più ampio, che conduce alla formulazione di nuove domande.
Le categorie di spazio e tempo che configurano la nostra concezione del mondo portano ai concetti di materia e storia, attraverso cui cerchiamo di comprendere la malattia. Quando rileviamo nella malattia una trasformazione di ciò che occupa un luogo nello spazio e che chiamiamo materia, diciamo che la malattia è un’alterazione organica che si manifesta come un’alterazione della forma, della struttura o della funzione. Un’alterazione fisica, chimica, anatomica, istologica o fisiologica è allora alla base della nostra concezione della patologia. Queste sono tutte categorie implicite nel concetto riassunto dall’espressione ‘i segni fisici della malattia’. Si tratta di alterazioni che possono essere percepite come una presenza oggettiva.
La malattia, intesa come patimento (pathos), come disturbo o perturbazione che coinvolge l’animo, si manifesta nel tempo fondamentalmente con la presenza delle sensazioni soggettive che denominiamo sintomi, e da questo punto di vista costituisce inevitabilmente un avvenimento psicologico. È un patimento comunicabile che può essere com-patito, cioè empaticamente condiviso, e che, in virtù della sua capacità di produrre emozioni e cambiamenti in un altro essere umano, è sempre un atto di convivenza che ha ripercussioni sociali. La malattia si costituisce allora come una storia umana, che acquista un nuovo e più ricco significato nella misura in cui la si considera una parte inseparabile della biografia di un soggetto immerso nel suo ambiente familiare e sociale; possiamo allora parlare di una patobiografia.
Arriviamo così al concetto di malattia più tipico della nostra epoca, uno dei cui elementi è costituito da ciò che Laín Entralgo denomina volontà di completezza storica. È una completezza derivante da un’analisi basata sulla riflessione intorno agli atteggiamenti assunti nel passato di fronte alla malattia, e intorno alle nostre opinioni in merito alle possibilità della medicina del futuro, tenendo conto del fatto che il passato e il futuro costituiscono rappresentazioni di una realtà che vive e opera nel nostro presente, spesso al di là dell’esercizio della nostra volontà cosciente. Sigmund Freud (1856-1939), con la sua scoperta dell’inconscio, ci ha portato ancora una volta, e da un nuovo punto di vista, a riflettere sul senso della malattia che acquista, così, il significato di una forma di linguaggio attraverso cui il malato si esprime. Nella nostra epoca si è tornati a tenere in considerazione l’essere umano come soggetto e come essere sociale. Non solo nell’arte e nella tecnica della medicina, dalle quali non ha mai potuto essere completamente rimosso, ma nelle stesse teorie sulla malattia e sull’esercizio della terapia.
Come e perché si arriva alla condizione di malato
Nella nostra epoca la scienza, accompagnata da uno sviluppo tecnologico che è cresciuto in proporzione geometrica, risponde sempre meglio, con descrizioni dettagliate e approfondendo i meccanismi che mettono in relazione cause ed effetti, alla domanda su come insorge la malattia, come si evolve e come possono combattersi i suoi effetti dannosi. Si sa molto di più, per es., sulla biologia molecolare e sulle predisposizioni genetiche che determinano la forma delle malattie e che si traducono in malattie concrete quando intervengono i fattori che sono capaci di attivarle. Mentre aumenta continuamente la conoscenza su come si produce la malattia, le antiche domande che il malato è solito formulare sulle ragioni dell’insorgere della malattia stessa si impongono ora sullo sfondo della conoscenza scientifica reclamando con urgenza una risposta.
Quando dal punto di vista delle scienze naturali esaminiamo un essere umano come un organismo biologico che costituisce un oggetto della nostra percezione sensoriale, governato dalle leggi della fisica e della chimica e dai meccanismi della sua fisiologia, ci si impone, in modo inesorabile, l’idea che la sua vita è determinata, fin nei minimi dettagli, dalle forze universali che lo trascendono e lo conducono verso una meta che sfugge alla sua scelta. Quando, invece, ci identifichiamo con un essere umano perché in lui vediamo un nostro simile, non possiamo fare a meno di attribuirgli, in una certa misura, la libertà che noi, inevitabilmente, sentiamo come una proprietà vitale che ci caratterizza e a cui, che lo vogliamo o meno, non possiamo rinunciare. Una proprietà che si unisce indissolubilmente con il senso di responsabilità e che ci accompagnerà, persino nelle situazioni più difficili, finché rimarremo coscienti.
Dal primo punto di vista una malattia è necessariamente un processo in cui un organismo si trova coinvolto a causa della sua immersione nel mondo e che è indipendente dalla sua volontà, poiché anche ciò che farà prima, durante e dopo essersi ammalato sarà un prodotto delle forze universali che lo trascendono e alle quali rimane inevitabilmente soggetto. Non possiamo rinunciare all’idea che viviamo condizionati dal movimento degli atomi da cui siamo costituiti, e che nulla, nel mondo della scienza, sfugge a una connessione causale che ha la stessa efficacia che attribuiamo alla volontà divina. Dal secondo punto di vista la malattia è un dramma a cui il malato partecipa come un attore le cui decisioni influiscono sul corso degli eventi, e nulla di ciò che farà sarà esente da questa responsabilità. Non possiamo neppure rinunciare all’idea che i nostri atti influiscano sul divenire delle cose, poiché senza questa convinzione ciascuna delle nostre azioni resterebbe priva del fine che la motiva.
Queste due convinzioni, se attentamente esaminate, risultano inconciliabili, ma l’esperienza ci mostra che le nostre opinioni profondamente radicate non si modificano né perdono forza quando mancano della coerenza razionale che il nostro intelletto richiede, di modo che viviamo, senza poterlo evitare, oscillando tra le due convinzioni. Von Weizsäcker, che abbiamo già citato, sosteneva che in una stazione ferroviaria non potremo mai prendere un treno che ci porti in un luogo lontano dal percorso delle rotaie, ma che, tra tutti quelli che la stazione offre, possiamo scegliere il treno su cui salire. Tuttavia, non è facile, soprattutto quando si tratta dell’ammalarsi, scegliere in maniera sicura tra quello che proviamo come conseguenza della ‘vita che abbiamo fatto’ e quello che sperimentiamo come prodotto di ‘quello che ci fa la vita’.
La verità è che, insieme alla necessità di spiegare com’è sopraggiunto il disturbo di cui soffriamo (questione chiarita sempre meglio dalle scienze naturali che esaminano gli organismi come oggetto di conoscenza), esiste sempre, parallelamente, la domanda sul perché ci siamo ammalati, nata dalla necessità di comprendere il significato che la malattia riveste nel decorso ‘biografico’ del tragitto che una vita percorre. Questa necessità, che appartiene e dà luogo a quelle che Wilhelm Dilthey chiamò scienze dello spirito, fondate sulle interazioni delle esperienze personali e soggettive, completa il panorama delle nostre conoscenze attuali sulla malattia, con sviluppi che è impossibile eludere.
Il rapporto tra il corpo e l’anima
Il pensiero umano, che affronta sin dall’antichità l’affascinante questione dell’anima e del suo rapporto con il corpo, si è sviluppato, schematicamente, attraverso due fasi: quella del pensiero magico e quella del pensiero logico. L’uomo primitivo viveva in un mondo in cui tutti gli esseri, anche quando non erano esseri viventi, apparivano animati da intenzioni: avevano un’anima gli alberi, le pietre, il fulmine, il tuono. Poi, a mano a mano che si è evoluto, l’essere umano è arrivato a vedere nell’anima una ‘sostanza’ eterea che entra nel corpo come un soffio vitale quando l’uomo nasce ed esce con l’ultimo respiro quando spira, cioè quando muore. L’uomo civilizzato non pensa che il fulmine, il tuono o i vegetali siano ‘abitati’ da qualche tipo di pensiero, sentimento o volontà. Benché la parola animale designasse originariamente gli esseri animati, cioè gli esseri con anima, oggi di solito si ritiene che possiedano una vita psichica solo gli animali abitualmente definiti come superiori. Gli animali inferiori, come i vegetali, vegetano senza alcun tipo di coscienza.
Per il pensiero scientifico corrente l’essere umano esiste come corpo fisico, materiale, che occupa un luogo nello spazio, ma in ‘qualche luogo’ dell’organismo (di solito riferito alla testa) c’è uno spazio psichico o mondo interiore in cui risiede la coscienza. Ogni avvenimento è il prodotto di una causa che produce i suoi effetti mediante meccanismi. Quando il corpo sviluppa un cervello, come prodotto del suo funzionamento appare la mente, anche se non si conosce il meccanismo attraverso cui questo avviene. Il corpo genera gli istinti che danno origine ai desideri o alle tendenze della mente nella quale è presente una rappresentazione del corpo, un’immagine interna della nostra fisicità. Esiste un’influenza del corpo sulla mente che opera mediante sostanze (come l’adrenalina o l’alcol) le quali alterano il funzionamento del cervello. Vi sono modifiche cerebrali prodotte dalla mente, e vi è un’influenza del sistema nervoso sul resto del corpo, il che permette che tale influenza si estenda a tutto il nostro organismo.
I tentativi di fare progressi in tale questione si scontrano sempre con un fatto che è stato sottolineato molte volte. Mentre l’anima e il suo equivalente, ossia la vita psichica (che è l’anima avvolta nel vestiario concettuale della scienza), sono sempre concepite a partire da una conoscenza che ogni uomo può acquisire solo per introspezione, contemplando la propria coscienza, la conoscenza scientifica cerca di essere obiettiva e di basarsi sulla percezione di ciò che si usa definire esterno.
Una vita psichica inconscia
Nel 1895 Josef Breuer e Freud (Studien über Hysterie) scoprirono che un disturbo che si manifestava nel corpo, l’isteria, si poteva comprendere meglio come risultato di un trauma psichico piuttosto che come disturbo fisico del sistema nervoso. Inoltre i sintomi dell’isteria scomparivano quando chi li manifestava, vincendo una resistenza interna, ricordava il trauma e riviveva sentimenti penosi dimenticati. Un trauma psichico che era stato rimosso, e che quindi la persona malata non poteva ricordare consciamente, poteva produrre le alterazioni del corpo che si osservavano nell’isteria. Questo porta a due questioni essenziali: la prima consiste nell’esistenza di una vita psichica inconscia, la seconda dà maggiore importanza al problema del rapporto tra anima e corpo.
Innumerevoli esperienze cliniche e i nuovi sviluppi delle neuroscienze hanno consolidato l’ipotesi di uno psichismo inconscio e, a partire da qui, il concetto stesso di psiche si è modificato, poiché la qualità essenziale che la definisce non è più la coscienza, ma il significato, il senso, una qualità che la maggior parte delle volte esiste senza bisogno della coscienza. In accordo con la definizione che diede Freud nel suo libro Zur Psychopathologie des Alltagslebens (1901), un evento ha senso quando può essere collocato all’interno di una sequenza di avvenimenti che obbediscono a un proposito. Bisogna inoltre aggiungere che tali propositi, dotati di quella che viene chiamata intenzione, sono ‘sentiti’ come qualcosa che fa piacere o dispiacere; in altre parole, il senso si sente.
Quanto a quello che riguarda il rapporto esistente tra il corpo e l’anima, Freud (Abriss der Psychoanalyse, 1938) sostenne, negli ultimi anni della sua vita, che ciò che di solito percepiamo in un essere vivente come un processo meramente fisico è anche, allo stesso tempo, un processo autenticamente psichico il cui significato rimane inconscio. Il corpo vivo, attraverso i nostri organi sensoriali percepito come materia che occupa un luogo nello spazio della fisica classica, possiede un significato, un senso (nella doppia accezione di finalità e sensibilità), che si sviluppa in una sequenza temporale configurando un dramma storico. Non si tratta allora, come ipotizzava René Descartes, di due realtà ontologiche che esistono in sé, al di là della coscienza che le esamina, ma di due modi differenti di registrare la realtà di un organismo vivente.
Sappiamo che i significati presenti nel mondo dell’informatica non risiedono solo nei programmi che il computer è in grado di interpretare, ma anche nel modo in cui sono stati creati i suoi circuiti. Per dirlo in termini attuali: il software si trova anche nell’hardware, vale a dire che anche nella costruzione fisica della macchina vi è un programma. Questo fatto, che nel computer è evidente, vale in realtà per qualunque tipo di macchina: il mulino o l’orologio sono costituiti da parti fisiche che entrano in relazione tra loro, meccanicamente, di modo che ciascun movimento può essere visto come l’effetto di una causa; ma ciò non toglie che quanto costituisce una macchina, la sua ‘ragion d’essere’, il suo scopo, implicito nel suo funzionamento, non è qualcosa di inerente alla sua costituzione fisica, ma all’idea che determina la relazione tra le sue parti. Un orologio continuerà a essere un orologio indipendentemente dal fatto che lo si costruisca con metallo, legno, acqua o sabbia. Questo fatto, che è vero per la locomotiva, è vero anche per il rene dei mammiferi, benché, chiaramente, non risulti un’impresa facile costruire un rene artificiale che possa essere ‘collocato’ nel luogo occupato da quello naturale. La costruzione anatomica dell’essere umano ha un significato simile a quello dei circuiti di una macchina che serve a uno scopo. Quando esaminiamo la disposizione del tessuto che costituisce un rene, comprendiamo che l’organizzazione della sua struttura si spiega in virtù della funzione che svolge. La funzione di un rene è al servizio di un fine, ha uno scopo, e uno scopo è qualcosa che non rientra in un modello fisico del mondo.
Siamo abituati all’idea che gli organismi biologici sono entità fisico-chimiche le quali, a mano a mano che aumenta la complessità del loro sistema nervoso, cominciano a funzionare psichicamente; ma se accettiamo il fatto che la vita psichica, per la maggior parte inconscia, sia definita dal significato e non dalla coscienza, ogni struttura biologica che ha uno scopo è psichica senza smettere di essere fisica. Da questo punto di vista non esiste un corpo vivente sprovvisto di anima, perché la funzione (che spiega anche la forma del corpo e la sua intima struttura organica) lo trasforma nel corpo animato che consideriamo vivente. Come affermato dal poeta inglese William Blake (in The marriage of heaven and hell, 1793, specificamente nel capitolo intitolato The voice of the devil), morto all’incirca un trentennio prima della nascita di Freud, chiamiamo corpo quella parte dell’anima che si percepisce attraverso i cinque sensi e anima (è necessario aggiungere) quel senso che, nel suo doppio significato di sensibilità e intenzione, caratterizza e ‘anima’ il corpo degli esseri viventi. Diremo allora che il corpo è la parte dell’anima che si vede e si tocca, e l’anima, tanto in salute come in malattia, è la parte delle funzioni vitali del corpo che si comprende, empaticamente, come sensibilità e come intenzione.
La malattia e il dramma
Il mondo psichico può essere rappresentato in forma schematica come lo spazio geometrico di un campo di forze ma, in tal modo, il significato che lo caratterizza si degrada fino a trasformarsi in una forma atrofica. Si presenta in una rappresentazione più complessa nell’immagine visiva di un palcoscenico sul quale si svolgono gli atti di un determinato dramma, e raggiunge la pienezza della sua forma nella sequenza temporale di una narrazione linguistica che aumenta lo spessore della trama affettiva.
Nessuno dubita del fatto che una malattia possa sfociare in un dramma. Quando ciò avviene si può pensare che si tratti di un dramma comprensibile, naturale, giustificabile o anche, in altri casi non tanto rari, che si tratti di un dramma ingiustificato o esagerato. In quest’ultimo caso, la scienza parla di patonevrosi. Ma la domanda su cui attualmente si appunta la nostra attenzione è un’altra: come può un dramma sfociare in una malattia del corpo? Già da molti anni la medicina ha scoperto il decisivo intervento delle emozioni inconsce in malattie come l’asma, la psoriasi, la colite ulcerosa o l’ulcera gastroduodenale. La ricerca in questo campo è andata avanti, confermando sempre più l’idea che, perché si produca una malattia, non bastano i microbi o la predisposizione genetica; queste sono di solito condizioni necessarie, ma non sufficienti.
Perché una malattia si produca è necessario che il ‘terreno’ in cui si sviluppa sia abbastanza fertile, e oggi sappiamo senza alcun dubbio che lo stato emotivo del paziente condiziona in maniera decisiva le sue difese immunitarie e il modo in cui la malattia si evolve. L’elemento più importante, comunque, non risiede nelle emozioni che il paziente sente consciamente, ma in quelle altre, represse, che si manifestano nell’alterazione della funzione degli organi. Sappiamo anche che le emozioni e la tendenza a reprimerle non nascono senza rapporto con un’interpretazione dei fatti, ma appunto come conseguenza del modo in cui si sceglie di mettere in relazione tra loro gli avvenimenti, allo scopo di attribuirvi un particolare significato. In altre parole, la vita emotiva è sempre un prodotto della costruzione di una storia che attribuisce ai fatti un qualche significato.
Non siamo solo un insieme di atomi o di sostanze chimiche simili, ma anche un insieme di storie, che sono tanto tipiche e universali quanto gli atomi da cui siamo costituiti. I drammi che impregnano e conformano la vita degli uomini sono classici. Esiste il dramma della colpa, quello della vendetta, quello dell’espiazione, quello del tradimento e molti altri. Sono drammi che si combinano tra loro per formare storie che sono anch’esse classiche, benché presentino variazioni che fanno di ogni essere umano un caso particolare e differente. Possiamo allora dire che, per quanto ogni essere umano viva la vita in una maniera del tutto particolare, perché due persone non sono mai identiche e ogni individuo è il prodotto della diversa combinazione dei medesimi mattoni, i drammi nascosti dalle malattie sono tipici e universali. Cambiano i palcoscenici, i costumi, i personaggi, le epoche, ma il filo conduttore è riconoscibile, e appunto per questo è per noi comprensibile e ha la capacità di emozionarci.
I drammi che impregnano la vita di persone differenti sono tanto diversi tra loro come lo sono i malati di cui ogni medico si occupa, ma il medico può effettuare il suo lavoro appunto perché le somiglianze tra un caso e l’altro gli permettono di parlare di malattie che sono tipiche e di aiutare un paziente utilizzando ciò che ha imparato con un altro. Per il medico è evidente, per es., come dal punto di vista fisico tutte le cardiopatie ischemiche abbiano in comune qualcosa che permette di fare la diagnosi e di decidere la terapia, e che è diverso da quanto hanno in comune le pneumopatie o le malattie autoimmunitarie.
La storia che si nasconde nel corpo
La storia, come disciplina scientifica, studia i fatti che un tempo furono percepiti e registrati, ordinandoli cronologicamente in una sequenza temporale che permette di concepire una relazione logica tra cause ed effetti; ma la storia che si nasconde nel corpo è comunque un tipo diverso di storia. Il prodotto dell’arte narrativa, che chiamiamo anch’esso storia, trasmette il significato di un’esperienza che, come il «c’era una volta» dei racconti per bambini, è indipendente dalla sua collocazione in uno spazio e in un tempo determinati e reali. Questo tipo di storia appartiene a un modo di pensare che, invece di raffigurare la realtà come la somma algebrica di forze oppure come la risultante geometrica di una congiunzione di vettori, la rappresenta ‘linguisticamente’, mediante parole che alludono innanzitutto al coinvolgimento emotivo delle persone, coinvolgimento che ne costituisce appunto l’intrinseca qualità drammatica.
Il fondamento del pensiero storico, la base primordiale dell’interpretazione di un dramma, nasce appunto da un presente in cui non solo il significato di questo dramma conserva il senso che ci permette di comprenderlo, ma tale senso raggiunge, nel momento presente, la significanza necessaria a richiamare la nostra attenzione. Quello che ci interessa del passato è ciò che è vivo nell’atteggiamento verso il presente e nella maniera di viverlo. Appunto per questo il presente ‘vivo’ è quello che fa nascere e rende possibile l’interpretazione del passato che chiamiamo storia.
Possiamo dire che una storia, come racconto, si forma sempre riempiendo di carne lo scheletro di un dramma ‘tipico’. Tempo, luogo, palcoscenico, scenografia, costumi e attori, ma soprattutto le circostanze, a volte insolite, costituiscono la carne che rafforza, come una cassa di risonanza, l’interesse risvegliato da una particolare storia. Il suo scheletro, invece, composto da tematiche che, come la vendetta o l’espiazione della colpa, sono atemporali, è tanto universale e tipico quanto lo sono le nostre mani, le nostre orecchie o le malattie di cui abitualmente soffriamo, ed è questo scheletro tematico ciò che costituisce l’ultimo e autentico motivo del nostro interesse per la storia.
L’esperienza clinica ci mette molte volte di fronte al fatto, ripetutamente segnalato, che l’apparizione e il decorso delle malattie non sono indipendenti dalla vita emotiva del malato. L’esperienza ci mostra inoltre che una parte importante di questa vita emotiva è di solito repressa, insieme al ‘libretto’ storico che le ha dato origine. Quando esploriamo la vita di un malato, e studiamo il momento che sta attraversando come il prodotto di un percorso biografico che sfocia in quel suo particolare presente caratterizzato dalla malattia, comprendiamo che l’alterazione del suo corpo nasconde una storia legata a un intenso coinvolgimento emotivo. In questo modo, con la stessa efficacia con cui un reagente chimico mostra una sostanza nascosta, la ricerca con il metodo appropriato ci rivela il dramma che il malato nasconde o sottovaluta e che, tuttavia, lo coinvolge fino al punto da alterare il funzionamento dei suoi organi. Quando un uomo, in un dato momento, pone la sua vita nel significato di una storia che gli è divenuta insopportabile e la nasconde, allontanandola dalla sua coscienza, avviene anche che questa storia, il cui finale gli risulta traumatico, si trasforma in un dramma ‘paralizzato’, che rimane ‘fermo nel tempo’.
Arriviamo, per questa via, a una conclusione importante (Chiozza 1976, 19982), suffragata dalla seguente osservazione: le malattie contengono, nascoste, differenti storie, e ognuna di queste, che sono tanto tipiche e universali quanto i disturbi organici che il malato costruisce per nasconderle, si presenta nella coscienza del malato e in quella dell’osservatore come un diverso disturbo fisico. In altre parole, le differenti trame storiche sono ‘temi’ che configurano storie differenti, e i modi in cui un uomo si ammala sono tanto tipici quanto i temi che costituiscono la trama particolare e specifica delle storie che ognuna delle diverse malattie nasconde. Se possiamo comprenderne il senso è precisamente nella misura in cui siamo capaci di condividerne affettivamente il significato a partire dalle nostre esperienze di vita, perché queste appartengono tutte, com’è inevitabile, all’enorme repertorio di tematiche, ricorrenti e sempiterne, che impregnano con emozioni simili la vita degli esseri umani.
La strada per il ritorno alla salute
È inutile dire che l’azione medica basata sulla capacità tecnica sviluppata nella nostra epoca dalla scienza, un’azione fondata sul proposito di ristabilire al meglio possibile le funzioni che la malattia ha danneggiato, dispone oggi di un potere stupefacente e che essa, quando tale potere è esercitato con criterio e con misura, ha un merito e un valore indiscutibili. Non ci sono quindi valide ragioni per svalutare, basandosi sugli eccessi che spesso avvengono, le attuali conquiste della tecnologia medica e del suo promettente futuro. È tuttavia necessario sottolineare come la nostra epoca presenti importanti sviluppi che, al capezzale del malato, bisogna integrare con la medicina basata sui farmaci, sulla fisioterapia o sulla chirurgia.
Freud sosteneva che la malattia è un degno avversario, volendo intendere con questo che non dovremmo trascurare a cosa tende il proposito che l’ha causata. Per lo stesso motivo von Weizsäcker sosteneva che l’atteggiamento del medico di fronte al proposito che porta alla malattia non dovrebbe consistere, come succede di solito, nel dire «fuori di qui», ma al contrario dovrebbe corrispondere all’espressione «sì, ma non in questo modo». Questa alternativa presuppone che si riconsideri il momento in cui, allo scopo di alleviare un dolore, si sceglie la strada che alla fine, in maniera inconsapevole e non premeditata, sfocia in una malattia.
Se una persona soffre, per es., di crisi notturne durante le quali avverte nelle proprie palpitazioni cardiache un ritmo accelerato, e questo la porta a consultare un cardiologo, è possibile che riceva come diagnosi quella di tachicardia parossistica; e se gli esami complementari non danno risultati anomali, probabilmente l’interpretazione sarà quella di una crisi neurovegetativa legata alle emozioni e a uno stato di nervosismo. Tra le modifiche nelle funzioni biologiche che la paura produce c’è la tachicardia, ma anche la diarrea, l’aumento della frequenza nel ritmo della respirazione, il tremito, il pallore del viso, la dilatazione delle pupille, l’aumento della sudorazione, il rizzarsi dei peli. Quando la maggior parte di questi fenomeni è presente, insieme con le sensazioni che per esperienza personale sappiamo accompagnarli, si configura l’affezione che chiamiamo paura. Sappiamo anche (Chiozza 1986, 20072) che, quando una persona ha bisogno di ignorare la paura di cui è preda, può scaricare l’energia che stimolava tutte queste funzioni verso una sola di esse, che così acquista un’intensità inusitata. In tal modo questa funzione si trasforma in un rappresentante della paura, in un suo equivalente, che non verrà riconosciuto come paura. Se, nonostante tutto, la persona che soffre di tachicardia parossistica a volte avverte paura, non dirà che questa si manifesta nelle palpitazioni, semmai che le palpitazioni le provocano paura. Il pre-testo della seconda storia, secondo la quale la paura proviene dalla tachicardia, nasconde il testo della prima, e il motivo della paura originale rimane ignorato; anche se, chiaramente, l’ignoranza che si mantiene reprimendo l’intensità e la qualità di un sentimento, così come le sue motivazioni, non si regge in piedi da sola, ma al contrario richiede uno sforzo (di rimozione, diceva Freud) permanente che trattiene e consuma una parte, spesso notevole, dell’energia vitale.
Il primo passo sfortunato nel tragitto che conduce alla malattia consiste nell’aver fatto ricorso al procedimento che permette di nascondere la crisi biografica ‘attuale’. Il beneficio immediato di questo atteggiamento è l’alleviamento del dramma; e la malattia è di solito il prezzo che si paga per questo modo di ottenere sollievo. Inutile dire che la strada del ritorno alla salute presuppone che si vincano difficoltà derivanti dal tragitto percorso dalla malattia.
Comunemente si dice che una persona ha scelto una brutta strada quando sceglie quella della delinquenza. Samuel Butler nel 1872 scrisse un libro intitolato Erewhon, inversione quasi esatta di nowhere, il cui significato coincide con l’etimologia di ‘utopia’ (letteralmente «non luogo, luogo che non esiste»). In questo libro egli immagina una società, diversa da quella attuale, che cura i delinquenti in ospedale e manda i malati in carcere. Invertendo la sorte che la società sceglie per i rappresentanti di queste due disgrazie, Butler rivela di aver compreso che anche la malattia può essere interpretata, alla pari del delitto, come la manifestazione di un indirizzo morale sbagliato. Non tutti gli errori che si commettono vivendo conducono a infortuni della stessa grandezza. È tuttavia esatto quanto sostiene Freud quando rileva che nella vita, come negli scacchi, può accadere che una mossa sbagliata ci costringa a dare la partita per persa.
Il lutto
Bisogna ammettere che nei primi momenti di una situazione traumatica, quando il dolore aumenta, il tentativo di allontanarlo dalla coscienza può far parte di un atteggiamento sano. Ma non è meno vero che, una volta passato il primo impatto insopportabile, quando si tenta di tornare alla realtà che provoca dolore, con la strada ostruita dalle tracce lasciate nella memoria dal trauma, nasce nuovamente la tentazione di proseguire per la deviazione che allontana dalla realtà. Le lapidi dei cimiteri, come gli antichi monoliti e gli obelischi commemorativi, indicano un luogo a cui si attribuisce la proprietà di riattivare i ricordi, facendo ricominciare, o riprendendo, il processo di lutto. Dal momento che tale processo è doloroso, le lapidi indicano un luogo che produce sofferenza e a cui spesso si ha paura di tornare; ma è anche vero che quello del lutto, quando si sviluppa in maniera normale, è un processo sano che ha un inizio e una fine, e che per questo motivo la lapide, quando indica il luogo al quale si deve tornare con la periodicità che l’uso prescrive, allude, metaforicamente, alla necessità di onorare il debito contratto con la persona di cui dobbiamo portare il lutto. Durante il processo di lutto, come in molte altre circostanze, la virtù sta nel mezzo, perché quando il dolore lacera al di là delle possibilità di recupero è necessario allontanarsi da una realtà insopportabile, ma finché dura l’allontanamento il processo di lutto non si realizza, e la perdita delle energie, consumate in un permanente sforzo quotidiano per rimuovere costantemente ciò che costantemente ritorna, porterà verso un futuro incerto che, come accade con il vino che invecchia male, di solito peggiora con gli anni.
Come una ferita superficiale non infetta si cicatrizza normalmente in circa sette giorni, così il processo che chiamiamo lutto, quando nulla arriva a complicarlo, si realizza in un tempo biologico normale che di solito dura all’incirca diciotto mesi. Quelli che si osservano abitualmente nella pratica psicoterapeutica sono processi di lutto che, turbati da sentimenti di colpa e spesso interrotti, si prolungano per molti anni. Si può ricorrere alla metafora dei lutti ‘infettati’, che periodicamente suppurano e dolgono, perché le perturbazioni abituali che contaminano il dolore producono contagio, come se si trattasse di microbi.
Nella prima fase del lutto, quando il dolore è molto forte, per un breve periodo la negazione ha una funzione protettiva. Nella fase successiva la negazione scompare gradualmente, e fa la sua apparizione una sovrabbondanza di ricordi molto nitidi e dolorosi. Poi l’angoscia, la desolazione e il dolore cedono lentamente il posto alla tristezza, mentre i ricordi, uno alla volta, si consumano in un processo di assuefazione che fa diminuire il dolore. Alla fine si riacquista di nuovo la gioia di vivere e l’interesse per il mondo. Di solito rimane, tuttavia, qualche residuo di dimensioni variabili che, come una cicatrice permanente, qualche volta potrà ancora produrre dolore.
Il riconoscimento di una crisi biografica in corso rappresenta la prima opportunità per intraprendere una strada che preserva la salute, invece di cedere alla tentazione di continuare a procedere sulla strada, meno dolorosa e più facile che, rimandando il processo di lutto, di solito porta alla malattia. Si tratta di affrontare realmente il dolore che tale processo porta con sé, sopportando i sentimenti negativi, ma soprattutto diffidando della storia attentamente costruita in merito agli eventi che hanno prodotto il dolore. Per scoprire il testo della storia nascosta è necessario mettere in discussione i pre-testi tra i quali si nasconde.
Inutile dire che la necessità del processo di lutto nasce non solo dalla perdita delle persone amate, ma anche da quella di altri beni, che a volte possono essere immaginari, come avviene quando qualcuno scopre che non è (o non può) quello che credeva di essere (o di potere). In ogni caso, il dolore attribuito all’assenza di ciò che si è perduto nasce in realtà dalla presenza, vorace, di una necessità insoddisfatta. Spesso un paziente conserva nella sua memoria il momento preciso in cui ha espulso dalla sua coscienza un’idea intollerabile, quando c’era ancora la lotta tra ricordare e dimenticare. Un momento in cui alla fine, e come un intruso giunto da non si sa dove, è apparso un sintomo che prima non si aveva. Quando si riesce infine a sostenere lo ‘sforzo di rimozione’ che evita la reiterazione del ricordo doloroso, di solito si introducono nella vita del paziente due nuovi personaggi: la malattia e il farmaco. Con questi egli convive, e nei loro confronti il paziente e la sua famiglia sperimentano i sentimenti più diversi.
Alcune sofferenze non valgono la pena che comportano
La malattia, rispetto alla persona che ne soffre, e anche alla famiglia di cui il malato fa parte, svolge in un certo qual modo la funzione del ‘fusibile’, il quale evita, in un circuito elettrico, che il danno si produca in un luogo in cui la riparazione è più difficile. La malattia, al di là di questa funzione da essa esercitata, e che si può definire approssimativamente come difensiva, di adattamento o di mediazione, concede sempre, è importante rilevare, anche una seconda opportunità di riprendere la strada che si allontana dalla rovina fisica e dalla viltà morale a cui la malattia di solito conduce. È tuttavia necessario sottolineare che la strada del ritorno alla salute non è facile. Non si può ‘tornare alla salute’ percorrendo a ritroso esattamente la stessa via attraverso la quale si è arrivati alla malattia di cui si soffre. Non c’è una strada per il ritorno all’innocenza. Quello che porta al processo di lutto, completamente opposto al tentativo di tornare a vivere ciò che se n’è andato, è un tragitto contropelo, perché è reso difficile dal ricordo del dolore che, appunto, è stato evitato nel momento in cui si è scelto, a priori, di pagare il prezzo della malattia, senza conoscere l’ammontare.
Il lutto da cui già una volta si è fuggiti lascia di solito, come traccia, un ricordo penoso che funzionerà indicando che i processi mentali devono allontanarsi da lì. Non c’è allora da stupirsi per il fatto che, con il passare del tempo, sia sempre più difficile ritrovare il punto a partire dal quale si è prodotta la malattia. Capita che il lutto non elaborato peggiori a causa dell’aggiunta di altri dolori i quali, tendendo verso lo stesso obiettivo nascosto, si sommano tra loro, e che le forze di cui si dispone, sempre più impegnate nello sforzo di nascondere ciò che può riattivare il dolore represso, difficilmente bastino ad affrontarne le quotidiane incarnazioni offerte dal presente.
Freud rilevava che la terapia psicoanalitica non promette di sostituire la sofferenza con la felicità, poiché si propone, molto più modestamente, di sostituire la sofferenza nevrotica con la sofferenza normale nella vita. La medicina, anche qualora comprenda una psicoterapia efficace, può offrire solamente, per tornare alla salute, una strada che non può evitare completamente il dolore. Tuttavia, oltre alle sofferenze che la malattia riserva, e che non valgono la pena che provocano, perché fanno progressivamente peggiorare la vita e ne rovinano le migliori possibilità, esistono sicuramente altre sofferenze: sono quelle che si incontrano sulla strada del ritorno alla salute e che, al contrario, valgono senz’altro la pena che comportano.
Ricordiamo i tre atteggiamenti, noti sin dall’antichità, attraverso cui si suole evitare la responsabilità che conduce all’elaborazione di un lutto. L’atteggiamento maniacale porta a sostenere, in modo simile a un gioco di prestigio, che la disgrazia sopravvenuta non ha alcuna importanza. Quello paranoico, basato sull’irresponsabilità, spinge a dire che la disgrazia è sopravvenuta a opera di un’altra persona. L’atteggiamento malinconico, infine, che ha il carattere di un ricatto morale, induce ad affermare sconsolatamente che la propria sofferenza è più importante della disgrazia sopravvenuta. L’elaborazione del lutto, al contrario, porta a riparare ciò che può essere riparato e, di fronte a ciò che non ha riparazione possibile, a una rassegnazione unita alla fiducia nel fatto che quanto è venuto a mancare potrà forse essere compensato da altre gioie.
I tre atteggiamenti evasivi, il ‘gioco di prestigio’ maniacale, l’irresponsabilità paranoica e il ricatto malinconico, mostrano in maniera schematica quali sono gli argomenti con i quali spesso, e senza piena coscienza, viene bloccata la strada che potrebbe portare al recupero della salute. La difficoltà maggiore consiste, tuttavia, nel fatto che di solito, facendo un altro passo nella direzione sbagliata, si reprime il ricordo del doloroso avvenimento originale e si evita accuratamente tutto ciò che permetterebbe di recuperarlo.
La risignificazione
È vero che a volte il paziente si ricorda del momento in cui ha espulso dalla coscienza l’idea intollerabile ma, anche se il ricordo di quell’idea esiste, spesso si è persa la connessione che le dava la sua importanza. Tale connessione è infatti necessaria per il processo di risignificazione di una storia, cioè per quel processo che ha origine quando si abbandona la storia ‘pre-testo’ per cercare il ‘testo’ di un’altra che vi si nasconde dietro. Ma non si tratta, com’è naturale, di un procedimento facile. Non solo perché è necessario affrontare il dolore, ma anche perché non sempre si ha una sufficiente fiducia nel fatto che, alla fine, intraprendere questo procedimento si riveli la cosa migliore. Esiste tutta una cultura che avalla la condotta del vivere fuggendo, del ‘dimenticare’ e del tentare di sminuire l’importanza dei fatti che provocano dolore. Se, quando si ascolta ciò che dice il malato, l’attenzione si concentra sui dettagli del racconto, è difficile che si riveli ciò che il velo della rimozione ricopre.
La coscienza è, per ineludibile necessità, parziale, e dentro questa parzialità, che si manifesta in molteplici forme, è possibile distinguere una coscienza concentrata e acuta, che rivela in modo nitido dettagli isolati, e una coscienza ampia e ottusa che abbraccia in modo indistinto i vasti insiemi e le profondità. Se si riesce, superando la difficoltà, a ‘sfuocare lo sguardo’ per contemplare l’ampiezza dell’insieme, è possibile trovarsi di colpo, come succede quando ci viene in mente qualcosa, di fronte a una briciola della storia che fa parte della strada che conduce alla salute. Lì, dentro il dramma che la storia racconta, è possibile ritrovare il dolore che in precedenza ha portato a ricoprirla con un’altra, ma la pena e il dolore che si risvegliano giungeranno assieme al valore del coraggio che si aveva un tempo, e che si è perso quando, cercando di evitare quella pena, si è scelta la sofferenza, di minor valore, che ha portato ad ammalarsi. Il testo di quella storia non rappresenta la fine della strada che può eliminare la malattia da cui si è attualmente afflitti, è solo un inizio, il quale porta alle vicissitudini di un processo di lutto che conduce alla rassegnazione. Ma la rassegnazione non implica, come si pensa di solito, solo una rinuncia, poiché, in accordo con l’etimologia di questa parola, si tratta dell’assegnazione di un nuovo significato, a opera del quale ciò che si è abbandonato viene sostituito da una nuova scelta. La vita ha più di una strada, e l’esperienza insegna che è necessario crescere, come fa il ramo di un rampicante, lungo i percorsi contorti che impone la realtà del muro, adattando continuamente i propri progetti. Lungo la strada di questo salutare processo di lutto è necessario riaprire la pratica che la storia racconta, immergendosi nei sottintesi e comprendendo i malintesi che ne determinano l’apparenza. Nel corso di questo processo di lutto, la strada del ritorno alla salute nascerà da un doloroso percorso che conduce a una gioia totalmente opposta rispetto all’illusione di poter tornare indietro.
Bibliografia
L.A. Chiozza, Cuerpo, afecto y lenguaje. Psicoanálisis y enfermedad somática, Buenos Aires 1976 (trad. it. Torino 1981), 1998².
L.A. Chiozza, ¿Por qué enfermamos? La historia que se oculta en el cuerpo, Buenos Aires 1986 (trad. it. Roma 1988), 2007².