ammenda
. Il vocabolo appartiene al lessico poetico di D. e vi ricorre sei volte, di cui cinque in rima. In If XIII 53 vale " riparazione di un danno ", con riferimento alla ferita provocata da D. al gran pruno del suicida Pier delle Vigne: Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece / d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi / nel mondo sù. La parola ritorna, ripetuta tre volte in rima con sé stessa, in un contesto crudamente sarcastico, là dove Ugo Capeto denuncia la politica violenta e rapinatrice della monarchia francese, che riparava le sue prepotenze con maggiori soprusi: Lì cominciò con forza e con menzogna / la sua rapina; e poscia, per ammenda, / Ponti e Normandia prese e Guascogna. / Carlo venne in Italia e, per ammenda, / vittima fé di Curradino; e poi ripinse al ciel Tommaso, per ammenda (Pg XX 65, 67 e 69).
La tagliente forza della frase, come hanno notato i commentatori, risulta dalla replicatio del termine, posto infine a suggello dell'intera requisitoria. Di parere contrario è tuttavia il Pagliaro, secondo il quale " la ripetizione, anziché dare maggiore vigore all'ironia, la svuota e indebolisce in rapporto al crescere delle malefatte " (Ulisse 611). Per la preferenza accordata a per ammenda rispetto alla variante per vicenda registrata da alcuni autorevoli codici al v. 67, accettata dall'edizione del '21 e difesa dal Vandelli e dal Barbi, v. Parodi, in " Bull. " XXVlll (1921) 37-38; Casella, Sul testo della D.C., in " Studi d. " VIII (1924) 23; Pagliaro, Ulisse 600-602; Petrocchi, ad l. Il Pézard (ad l.) propone invece la lettura per commenda.
La locuzione ‛ fare a. ', che vale " espiare le proprie colpe ", " far penitenza ", Si trova nelle parole di Guido da Montefeltro, Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, / credendomi, sì cinto, fare ammenda (If XXVII 68), e nel sonetto della Garisenda, Non mi poriano già mai fare ammenda / del lor gran fallo gli occhi miei (Rime Li 1).