AMMIANO Marcellino (Ammianus Marcellinus)
Storico latino, nato in Antiochia da nobile famiglia greca. È ignoto l'anno della sua nascita, che si può ritenere avvenuta fra il 332 e il 335 d. C., come pure è ignota la vita da lui trascorsa prima del suo ingresso nel corpo dei protectores domestici al comando del magister equitum Ursicino che si trovava di stanza a Nisibi in Mesopotamia. La sua sorte fu da allora legata per alcuni anni alle vicende di questo ufficiale, che, sulla fine del 353, passò da Nisibi ad Antiochia, chiamatovi dal Cesare Gallo per presiedere al processo di alto tradimento contro gli amici di Domiziano e Monzio, e di qui a Milano per ordine di Costanzo che aveva dei sospetti su di lui. Ursicino si recò poi, sempre accompagnato da A., a domare la rivolta dell'usurpatore Silvano che aveva in Colonia indossato la porpora, e che fu debellato e ucciso. Dopo un breve soggiorno nelle Gallie e alla corte imperiale in Sirmio, Ursicino fu inviato di nuovo in Oriente, dove la Persia assaliva l'Impero. A questa campagna A. stesso prese parte, e la descrive con vivi colori nei libri XIX e XX. Particolarmente interessante è il racconto dell'assedio di Amida dove si era rifugiato (359). Allorché la città fu espugnata dai Persiani, A. si salvò insieme con Ursicino a Melitene e di qui ad Antiochia. Quando Ursicino nel 360 fu deposto dalla sua carica, sembra che anche A. per un certo periodo abbandonasse la vita militare. Ma nel 363 lo troviamo di nuovo nell'esercito di Giuliano del quale era amico e ammiratore, e che seguì nella sua campagna contro i Persiani. Dopo la morte di Giuliano e la pace coi Persiani, conclusa dal suo successore Gioviano, sembra che Ammiano abbandonasse definitivamente le armi e si ritirasse a vita privata. Da principio visse in Antiochia, sua patria. Di qui, dopo aver visitato diverse regioni, come l'Egitto, la Grecia, la Tracia, si recò in Roma dove attese alla composizione della sua storia. Quantunque abbia a lamentarsi dell'orgoglio dell'ordine senatorio e non nasconda il suo disgusto per il ceto signorile di Roma, a eccezione di Pretestato e Simmaco, campioni del cadente paganesimo e suoi amici, non è meno probabile che negli ultimi anni della sua vita entrasse nel Senato romano, come si ricaverebbe da una lettera di Simmaco (Ep., IX, 110) che sembra rivolta a lui. Sembra che nel 383, in occasione di una grave carestia, fosse espulso da Roma insieme con gli altri forestieri, il che proverebbe che, se fu senatore, non lo era ancora in questa data. Nel 391 era però di nuovo in Roma, dove diede lettura della prima parte della sua opera non ancora compiuta (Liban., Ep. 1063 [= 983], ed. Foerster). Sugli ultimi anni della sua vita nulla ci è noto.
L'opera di A.: il suo contenuto e la sua composizione. - Nei mss. e in Prisciano (IX, 51) l'opera di A. si intitola Rerum gestarum libri. I suoi limiti cronologici ci sono dati dalle parole con le quali A. stesso conchiude il XXXI ed ultimo libro: Haec ut miles quondam et Graecus, a principatu Caesaris Nervae exorsus ad usque Valentis interitum pro virium explicavi mensura. Partendo adunque da Nerva, col quale si arresta Tacito, arriva fino ai più recenti avvenimenti. I 31 libri di cui constava l'opera, dei quali è giunta a noi la parte che va dal libro XIV in poi, si raggruppano in tre parti; la prima, comprendente i libri I-XIV, dal regno di Nerva giunge alla morte del Cesare Gallo (96-354); la seconda, che consta dei libri XV-XXV, contiene i fatti che dalla nomina di Giuliano a Cesare vanno fino alla morte di Gioviano (354-364); la terza, coi libri XXVI-XXXI, si estende dalla morte di Gioviano alla morte di Valente (364-378). La parte conservata contiene 26 anni di storia, tutti i fatti cioè del periodo compreso tra l'anno 353 e il 378, dal che si ricava che il lungo periodo antecedente, di 257 anni, doveva essere trattato in forma relativamente succinta. In essa, in mezzo alla monotona serie di intrighi e di guerre prive di fortuna e di splendori, risalta la figura di Giuliano, alle cui imprese e al cui programma A. dedica le pagine più vive e la parte centrale della sua opera. E con la sua scomparsa (libro XXV) si sarebbe dovuta anche arrestare, nel disegno d'origine, l'opera di A., in modo che le imprese di Giuliano e le campagne a cui l'autore aveva partecipato personalmente avrebbero formato una parte forse diversa, per disposizione e concezione, dalla prima, che è a noi sconosciuta, ma che certamente dovette essere meno dinamica e meno vissuta. Questo complesso dell'opera di A. (libri I-XXV), di cui egli aveva dato pubblica lettura in Roma, era stato composto prima del 390 o 391. Ma il favore del pubblico lo indusse a continuarlo fino alla morte di Valente (Liban., Ep. 1063 [= 983] ed. Foerster).
La dinastia di Valentiniano cadde nel 392, e così A. poteva parlar di lui e del fratello Valente senza riguardo né timore. A narrare però i tempi di Teodosio I, Augusto dal 379 insieme con Graziano e Valentiniano II, fu dissuaso dal pericolo che gliene poteva derivare quando Teodosio, di cui Roma nel 394 sperava la caduta, ebbe invece restaurato la sua unica signoria sull'Occidente. I libri XXVI-XXXI rimangono così l'ultima parte della sua opera, che molto probabilmente fu compiuta soltanto dopo la morte di Teodosio, attorno all'anno 397 o 400.
Fonti delle Storie di A. - Per quel che riguarda le fonti, va distinta in A. la parte dedicata agli avvenimenti suoi contemporanei da quella in cui si tratta un altro ordine di fatti, come sarebbero gli excursus. La prima, trattandovisi spesso di storia vissuta dall'autore, deriva in grandissima parte dai suoi ricordi personali. Ma data la vastità dell'opera di A., vera storia e non semplici commentarî era necessario che usasse anche altre fonti. Le fonti di A. sono tuttavia molto difficili a individuare, e ciò per una tendenza dell'autore a nasconderle e a volerci dare a credere di attinger sempre a testimoni oculari. Secondo i risultati delle ricerche più recenti, per i libri XIV-XXV, oltre a conoscere gli scritti di Giuliano (XVI, 5, 7; XXII, 14, 2), A. ha per fonti varî scritti perduti, uno dei quali trattava la battaglia di Strasburgo, un altro, che è servito anche a Zosimo, è forse di Oribasio, il medico di Giuliano, o di Magno di Carre. Inoltre il doppio tipo di cronologia usato da A. fino al libro XXV, la tucididea per stagioni e l'annalistica per consolati, è probabile sia dovuto a due fonti, una delle quali seguiva il sistema di Tucidide per stagioni, l'altra quello per consolati. La prima sarebbe, secondo il Seeck, da identificarsi con Virio Nicomaco Flaviano; la seconda con Eutichiano di Cappadocia (Seeck, Zur Chronologie und Quellenkritik des A. M., in Hermes, XLI, 1906, p. 481). Dal libro XXVI in poi il venir meno del sistema annalistico ci dimostra che le fonti scritte cominciano a scarseggiare; da questo punto in poi è di gran lunga maggiore la parte dovuta ai ricordi personali, alle testimonianze oculari e ai panegirici, specie di pubblicazioni ufficiali, che contenevano molto materiale storico. Quanto agli excursus, digressioni erudite nelle quali si parla delle più svariate cose (di speciale importanza e interesse sono quelli di carattere storico ed etnografico), le fonti sono Rufio Festo, poi un catalogo ufficiale delle provincie e città dell'Impero, che deve essere stato redatto poco prima del 373, Tolomeo, una Chorographia pliniana, un'opera di Timagene, probabilmente un περίπλους, oltre a qualche altra descrizione di città e luoghi. Sono utilizzati Cesare, Sallustio, Livio, e Lucano. Erodiano ed Eutropio sembra servissero per le parti perdute riguardanti i secoli precedenti il quarto.
Caratteri delle Storie. - Oltre a continuare Tacito, A. intende anche imitarlo. Ammiratore ardente della cultura classica, egli segue fedelmente nella concezione dell'opera gli antichi scrittori, e vorrebbe anche, se gli fosse possibile, seguirli nella lingua e nello stile. Ma A. è anche figlio del suo tempo; e perciò, se le sue storie rientrano da un lato nel tipo della storia in grande stile della maniera tacitiana, dall'altro risentono anche della biografia imperiale in voga ai suoi tempi. Ché a questo genere appartengono le notizie copiose e particolari che ci fornisce su ciascun imperatore, come famiglia, virtù, vizî, aspetto e caratteristiche fisiche e azioni da lui compiute. Conforme alla maniera classica è invece la disposizione cronologica che, come abbiamo visto, caratterizza gran parte dell'opera, e cioè la parte fino al libro XXV, col quale nel piano originario essa doveva terminare. L'unità è però spesso interrotta, come dicemmo, da numerosi excursus o digressioni che, se sono da criticare dal punto di vista artistico, ci presentano però una quantità immensa di notizie, giacché trattano di ogni più svariata cosa e dànno all'opera il carattere di una piccola enciclopedia. Sembrano infatti scritti allo scopo di darci nel loro complesso una geografia completa. In tutti è seguito lo stesso schema: di una regione sono date le caratteristiche fisiche, monti, fiumi, flora; poi le circoscrizioni amministrative, tanto secondo le più antiche divisioni quanto secondo l'ordinamento dioclezianeo, quindi le principali città con le loro memorie, e da ultimo, per ciascuna provincia, la sua aggregazione all'Impero romano.
Abbiamo già visto le fonti di A., fonti che egli spesso trascrive a parola, inserendovi però aggiunte molto sovente infelici, sia contaminandole con altri autori, sia con aggiunte di vuote parole che snaturano e falsano il modello. Giacché appunto il principale difetto di A. è una grande vanità di parer dotto, per la quale vuole tutto spiegare, anche là dove la tradizione è lacunosa, sì che l'ingombrante erudizione finisce col renderlo eccessivamente complicato. Un esempio ne offrono i paralleli con la storia più antica e le citazioni di autori celebri (Cicerone è citato 34 volte: v. Michael De A. M. studiis Ciceronianis, Breslavia 1874).
Anche come scrittore, A. piuttosto che artista si rivela retore: ama le espressioni più inusitate, le parole rare, i fiori retorici, che raccoglie dagli scrittori classici più lontani, fino da Plauto e da Terenzio. Anche qui cerca nascondere la provenienza. A questo scopo divide e distribuisce le varie parti dello stesso estratto, mescola insieme i brani di diversi scrittori, altera, quando estrae un passo o una frase, la costruzione e la disposizione. Sotto l'impulso di tal mania la ricerca della frase arriva al punto di falsare l'età sua nella maniera più ridicola. Così egli fa distribuire a Giuliano coronae obsidionales, navales, civicae, castrenses (XXIV, 4, 24, 6, 16), costume da lungo tempo scomparso.
Ci si deve perciò guardare, leggendo A., dalla letterale interpretazione delle parole, che ci potrebbe indurre in errore. La complicatezza dello stile è dovuta in parte anche al fatto che A. scrive una lingua per lui straniera, appresa nella scuola, e di cui non è riuscito mai a impadronirsi come della propria; e come coloro che scrivono una lingua straniera, non sempre sceglie la maniera più felice e più semplice (E. Norden, Antike Kunstprosa, 2ª ed., II, pp. 647-648).
Ma, nonostante i difetti della composizione e dello stile, A. è pur sempre un grande storico. In primo luogo è proprio di lui un vivo amore per la scienza: si burla infatti di coloro che non leggono se non un autore solo, come Giovenale o Mario (XXVIII 4, 14): quidam detestantes ut venena doctrinas, Iuvenalem et Marium Maximum curatiore studio legunt, nulla volumina praeter haec in profundo otio contrectantes. Si burla di quegli ignoranti che, se sentono per caso un nome d'antico scrittore, lo prendono per il nome d'un pesce o di altro ghiotto boccone (XXX 4, 17: et si in circulo doctorum auctoris veteris inciderit nomen, piscis aut edulii peregrinum esse vocabulum arbitrantur). E così pure dice che Orfito era splendore liberalium doctrinarum minus quam nobilem decuerat institutus (XIV 6,1). Altro suo pregio di cui è da far gran conto, data la profonda depressione in cui giace la letteratura latina del suo tempo, è la dignità che sente dell'arte e del compito dello storico (XXVI 1, 1: historiae.... discurrere per negotiorum celsitudines adsuetae, non humilium minutias indagare causarum). Allo stesso modo che disprezza le inezie e i fatterelli che formano la delizia dei biografi del tempo suo, i quali ad es. si offendono se dallo scrittore praeteritum sit quod locutus est imperator in cena, vel omissum quam ob causam gregarii milites coerciti sunt apud signa (XXV, 1, 1), così si tiene lontano dall'eccessiva povertà dei compendiatori.
Come storico spicca soprattutto la sua imparzialità. Filosofo pagano, rimane freddo di fronte alle lotte religiose, consiglia la tolleranza, biasima lo zelo di Giuliano (XXII, 10, 7; 12, 7; XXV 4, 17; 20), apprezza le dottrine cristiane, professa ammirazione per l'eroismo dei martiri. È inoltre un osservatore profondo del carattere e dell'anima umana, che sa descrivere magistralmente. Tutto ciò, unitamente alla vastità di concezione della sua storia, alla larghezza del teatro degli avvenimenti contenuti in essa, all'aver vissuto egli stesso molte di cotali vicende, lo rende uno storico di prim'ordine, il penultimo, avendo riguardo a Procopio di Cesarea, dei grandi storici dell'antichità.
1. Il nome intero Ammianus Marcellinus appare nella subscriptio del codice vaticano; in Libanio e in Prisciano si chiama Marcellinus. Che fosse antiocheno si ricava da Liban., Ep. 1063, 3-4 (= 983), ed. Foerster. La gran maggioranza degli altri particolari della sua vita si ricavano dai varî passi dell'opera sua stessa (v. cit. in M. Schanz, p. 94-95). Il suo soggiorno in Roma è testimoniato, oltre che dagli excursus sulla società romana (XIV, 6, 3-26 e XXVIII, 4, 6-35), dall'ep. cit. di Libanio (cfr. Gutschmid, Reisen A., p. 567).
2. La sua nascita si può ritenere avvenuta tra il 332 e il 335, per il fatto che entrò nel corpo dei protectores domestici al comando del magister equitum Ursicino quando questi era di stanza a Nisibi in Mesopotamia, adunque non prima del 350, giacché in tale anno Ursicino ebbe il comando supremo dell'esercito di Oriente; e non più tardi del 353, giacché alla fine di quest'anno o al principio del seguente Ursicino lasciò Nisibi per recarsi prima ad Antiochia poi a Milano. E dal momento che la carriera si iniziava generalmente a 18 anni, è molto probabile che A. nascesse tra gli anni 332 e 335
3. H. Michael (Die verlorenen Bücher des A. M., Breslavia 1880) emise l'ipotesi che i libri perduti di A. cominciassero dalla morte di Costantino (337) e che la storia da Nerone a Costantino formasse l'oggetto di un'altra opera di A. Ma la sua opinione è stata respinta dalla maggioranza degli studiosi (L. Jeep, in Rhein. Mus., XLIII, 1888, p. 60; M. Schanz, Gesch. d. lat. Lit., IV, 1, p. 97).
4. Che la storia di A., almeno fino al libro XXII, ma più verisimilmente fino a tutta la 2ª parte del libro XXV, sia stata scritta prima dell'anno 391 è dimostrato specialmente dal fatto che A. ignora in un punto (XXII, 16, 12) la distruzione del Serapeo, avvenuta nell'anno 391.
5. Numerosi indizî assicurano che le ultime parti dell'opera, i libri XXVI-XXXI, furono composte nell'ultimo decennio del sec. IV e che l'opera intera fu compiuta attorno al 400. Il più importante di tutti è il passo XXIX, 6, 15, dove Teodosio, morto nel 395, è detto princeps postea perspectissimus, che dimostra come il libro sia stato scritto quando già questo imperatore era morto, altrimenti A. avrebbe detto nunc princeps noster (Cart, Quaest. Amm., p. 49; Seeck, in Real-Encycl., I, col. 1848).
6. Sulle fonti geografiche degli excursus, importanti sono le ricerche di Th. Mommsen (Ammians Geographica, in Hermes, XVI, p. 602; Ges. Schr., VII, Berlino 1909, p. 393) e del Gardthausen (Die geographischen Quellen Ammians, nei Fleckeisens Jahrb., supplemento VI, 1872-73, p. 507). Sulle fonti delle parti storiche, quelle di Borries (Die Quellen zu den Feldzügen Julians des Abtrünmigen gegen die Germanen, in Hermes, XXVII, 1892, p. 170), di H. Sudhaus (De ratione quae intercedat inter Zosimi et Amm. de bello a Juliano imp. cum Persis gesto relationes, Bonn 1870, p. 99) e del Seeck (Zur Chronologie, in Hermes, XLI, 1906, p. 481).
Manoscritti. - Il testo attuale di A. deriva da un archetipo oggi perduto sul quale furono esemplati: a) un manoscritto di Hersfeld del sec. X, di cui solo pochi fogli si conservano a Marburgo; b) il manoscritto Vat. 1873, portato dal monastero di Fulda in Italia dal Poggio, sul quale furono compilati altri manoscritti ed edizioni. Riproduzione dal manoscritto di Hersfeld in Chatelain, Paléogr. des class. latins, Parigi 1894-1900, 2ª parte, p. 195, e nell'ediz. del Clark, tav. II e III; riprod. dei fogli rimasti del codice di Hersfeld ancora nell'ediz. del Clark, tav. I. Contro l'opinione dell'Eyssenhardt (edizione, p. IV), del Gardthausen (edizione, p. XII), del Ruhl (in Fleckeisens Jahrb., 113, 1876, 792 e 799) e di M. Schanz (Gesch., 106), che cioè ambedue i manoscritti citati derivino dallo stesso archetipo, altri, come il Mommsen (Herm., VI, 1872, p. 232; Ges. Schr., 7, p. 364) e il Seeck (Real-Encycl., I, col. 1852), ritengono invece che il Fuldensis derivi dallo Hersfeldensis. Per la critica del testo serve di base il Fuldensis, essendo impossibile la ricostruzione completa dello Hersfeldensis anche sulla scorta dell'ediz. del Gelenio.
Edizioni. - Le prime edizioni di A. sono l'editio princeps di Angelo Sabino, Roma 1474, fatta sul Codex Reginensis 1994; alla quale tennero dietro l'edizione di Pietro Castello, Bologna 1517, non molto pregevole, e l'edizione di Erasmo per i libri XIV-XXVII (Basilea 1518); l'edizione di Accursio aggiunse i libri XXVIII-XXXI (Augusta 1533). Dal codice Hersfeldensis deriva la splendida edizione di Sigismondo Gelenio (Basilea 1533), facente parte del Corpus scriptorum latinorum del Froben, editore di Basilea. Edizioni critiche sono quelle di F. Eyssenhardt, Berlino 1871 e di V. Gardthausen, Lipsia 1874-75, oltre ai frammenti pubblicati dal Nissen. La più recente è l'edizione del Clark, I (libri XIV-XXV), Berlino 1910. Edizione con note di varî, tra le quali quelle eccellenti del Valesio, di J. A. Wagner (Lipsia 1808).
Bibl.: C. A. Müller, De A. Marcellino, Posen 1852; E. A. W. Möller, De A. Marcellino, Königsberg 1863; H. Nissen, A. Marcellini fragmenta Marburgensia, Berlino i 1856; J. Gimazane, A. Marcellin, sa vie et son oeuvre, Bordeaux 1889; H. Michael, Das Leben des A. M., Jauer 1895; H. Peter, Geschichtliche Litt. der röm. Kaiserzeit, II (1897), p. 117; M. Büdinger, A. Marcellinus und die Eigenart seines Geschichtswekers, eine universalhistorische Studie, in Denkschriften der phil.-hist. Klasse der Wiener Akad., XLIV (1896), Abh. V; Wachsmuth, Einleitung in das Stud. d. alten Geschichte, Lipsia 1895, p. 682; E. Norden, Die antike Kunstprosa, 2ª ed., II, p. 646; O. Seeck, A. M., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, coll. 1845-52; Dautremer, Amm. Marcellin, Lilla 1899; F. Leo, Die griech.-röm. Biographie, Lipsia 1901, p. 236; E. R. Glover, Life and Letters in the fourth century, Cambridge 1901, p. 20; L. Traube, Die überlieferung des A. M., in Mélanges Boissier, Parigi 1903, p. 443; C. U. Clark, The text-tradition of A. M., New Haven 1904; P. Allard, Julien l'Apostat, Parigi 1904, III, p. 366 segg. A. Müller, Militaria aus A. M., in Philol., LXIV, n. s., XVIII (1905), p. 573; M. Schanz, Römische Litteraturgeschichte, IV, Monaco 1914, pp. 93-107; Ensslin, Zur Geschichtschreibung und Weltanschauung des A. M., in Klio, Beiheft XVI, Lipsia 1923; R. Pichon, Histoire de la Litt. latine, Parigi 1924, p. 790.