Amministrazione dell’Impero
Volendo sintetizzare in una formula il disegno complessivo di organizzazione delle strutture amministrative dell’Impero da parte di Costantino si deve presupporre fondamentalmente un progetto di centralizzazione. Solo se si tiene conto di questa esigenza primaria, che scaturisce anche dall’acquisizione, realizzata per tappe e conclusa solo nel 324 con la vittoria su Licinio, del controllo su tutto l’Impero, si possono capire determinate scelte, volte a compensare gli effetti potenzialmente destabilizzanti posti in essere dall’intento centralizzatore del sovrano. La necessità di centralizzare è, almeno in parte, eredità delle grandi riforme di Diocleziano: esse hanno lasciato un’impronta profonda sulle strutture imperiali, a cominciare da quelle monetaria e fiscale. L’Impero riorganizzato da Costantino alla fine risulterà sensibilmente diverso da quello del suo predecessore e la sua azione di governo, pur senza rivoluzionare la natura fondamentale dei rapporti sociali, è innovativa in molti settori della vita pubblica, con conseguenze durature nel tempo.
L’azione riformatrice di Costantino in ambito amministrativo è ineludibilmente collegata con quella in campo economico. Costantino opera scelte importanti, sebbene, in relazione all’impianto della riforma fiscale, non modifichi comunque i principi di base del sistema ideato da Diocleziano.
In termini molto generali si può dire che essa risponda allo stesso tempo a un’esigenza di razionalizzazione, determinata dalla necessità di entrate sicure, e a un criterio di maggiore equità, almeno a livello di intenzioni: la riscossione si basa infatti sulla produttività dei vari terreni in rapporto al numero dei lavoratori in essi operanti. Un sistema tributario siffatto sarebbe stato irrealizzabile senza una complessiva riorganizzazione dell’apparato amministrativo.
I principi di fondo della nuova organizzazione tributaria si possono sintetizzare nel modo seguente. In una prima fase si procede a un censimento sistematico, regione per regione, della base imponibile al fine di pervenire alla generalis formula, vale a dire l’attribuzione del carico fiscale tra le varie circoscrizioni. Ogni anno, il 1° settembre, le esigenze complessive dello Stato sono sintetizzate in una sorta di bilancio di previsione generale (indictio), redatto in funzione delle diocesi e delle province sulla base delle risorse conosciute. Il governatore è responsabile degli accertamenti città per città e della riscossione delle imposte, ora in natura, ora in denaro; questa ha luogo tre volte l’anno. Inoltre, per far fronte a esigenze eccezionali, lo Stato può far ricorso a un’imposta straordinaria, la superindictio.
Il quadro a fosche tinte, che ce ne dà Lattanzio, scaturisce in larga misura dallo spirito polemico con il quale lo scrittore cristiano sintetizza il sistema di riscossione. Così descrive le operazioni di censimento sotto Galerio, il successore di Diocleziano in Oriente:
Si misuravano i campi zolla a zolla, si contavano le viti una a una e gli alberi, si catalogavano gli animali di ogni specie, si prendeva nota individualmente dei nomi delle persone [scil. si registravano i singoli contribuenti]; in ogni città si riuniva la popolazione del luogo e della campagna1.
La meticolosità e la sistematicità delle operazioni di ricognizione fiscale corrispondono, invero, allo spirito di rigore che aveva ispirato Diocleziano nella sua riforma, al fine di eliminare le sperequazioni. Peraltro, il carattere proprio della capitazione, un tipo di imposizione basata su unità d’imposta corrispondenti al numero delle persone fisiche dei lavoratori, conservava inevitabilmente una certa arbitrarietà, tipica delle imposte di ripartizione. Un ulteriore elemento che poteva risultare negativo era l’ampio margine di discrezionalità lasciato agli agenti incaricati della riscossione, che dovevano ottenere dai contribuenti l’ammontare globale dell’imposta prefissata2.
Un riscontro significativo della nuova organizzazione del sistema fiscale viene da un discorso celebrativo della generosità di Costantino che risale al luglio del 311 e riguarda la situazione della Gallia, dove la ripartizione dell’imposta sembra avvenisse sulla base della combinazione di aree coltivabili e di ‘teste’ (e non soltanto di aree coltivabili, come in Egitto). Un retore, in servizio ad Autun in Gallia, era stato mandato come ambasciatore a Treviri, residenza imperiale di Costantino, per esprimergli la riconoscenza della città (la più grande tra quelle galliche) per i provvedimenti presi in suo favore. Costantino l’aveva infatti alleggerita di settemila unità d’imposta (capita), corrispondenti a più di un quinto dell’imponibile totale3. In realtà, nel panegirico che attesta tale riforma a essere celebrata è l’equità del sovrano che, con il suo provvedimento, avrebbe riconosciuto gli effetti distorsivi del sistema di censimento applicato secondo il criterio comune delle imposizioni in Gallia. Non è contestata, infatti, alcuna irregolarità amministrativa. La base dell’imponibile era calcolata tanto a partire dalla rendita delle aree coltivabili (iugatio) quanto dal numero degli adulti idonei al lavoro (capitatio). Il problema consisteva nel fatto che i dati acquisiti in questo modo non corrispondevano alla situazione reale, poiché una parte delle terre era divenuta incolta e, di conseguenza, le persone si erano indebitate. A fronte di un carico fiscale predeterminato, infatti, in caso di alleggerimento o aggravamento dell’imposta doveva cambiare la quota-parte delle varie unità fiscali, non il livello di imposizione globale dell’imposta di ripartizione4.
Quanto all’Italia e al sistema fiscale ivi vigente nel 293, in coincidenza con il perfezionamento del sistema di governo tetrarchico voluto da Diocleziano, si realizza un’innovazione di grande portata, che si può comprendere appieno solo tenendo conto del fatto che essa è funzionale alla perdita di centralità del ruolo di Roma, dove ormai gli imperatori non risiedono più. La stessa decisione di Costantino di creare una nuova capitale sul Bosforo non si può ricondurre solo a motivazioni di natura religiosa. Essa è stata preceduta dalla rinuncia definitiva, che si deve a Diocleziano, a mantenere Roma come ufficiale residenza permanente dell’imperatore. Con l’elevazione di Costanzo Cloro e Galerio a Cesari si creano di fatto altri due comitatus (apparati di corte): essi, affiancandosi a quelli di Diocleziano e Massimiano, portano dunque il numero a quattro. La penisola e i suoi abitanti perdono allora i propri secolari privilegi: la prima è equiparata, a tutti gli effetti, alle altre province e i cittadini sono gravati di tasse, giustificando così il fatto che si possa parlare di ‘provincializzazione dell’Italia’. Il nesso fra i due eventi è sottolineato dallo storico africano Aurelio Vittore, che parla dell’«tributorum ingens malum» che fu imposto all’Italia («Italiae invectum») in virtù di una «lex nova». Puntualizza Vittore:
Per questo a partire da quel momento fu esteso alla parte di Impero chiamata Italia il grande male dei tributi. Infatti, dal momento che tutta l’Italia viveva con equilibrio sotto il medesimo regime fiscale, affinché l’esercito e l’imperatore, che sempre o per la maggior parte del tempo vi soggiornavano, potessero essere mantenuti, fu introdotto un nuovo regolamento relativo ai versamenti fiscali. Esso, che a quei tempi era davvero tollerabile per la sua moderata incidenza, oggi è divenuto causa di rovina5.
Le valutazioni fortemente critiche delle riforme dioclezianee, per le conseguenze negative che queste hanno avuto sui contribuenti, non tengono conto, in realtà, delle esigenze, in primo luogo di natura militare, che le avevano determinate. Uno dei quattro comitatus, quello di Massimiano, è insediato stabilmente a Milano e opera quindi nell’Italia settentrionale, dove Aquileia, vicino al delicato confine orientale, gioca un ruolo particolarmente importante.
Un altro elemento di rilievo, indicativo della complessità del progetto di riforma di Diocleziano, è la divisione dell’Italia in circoscrizioni territoriali: per la prima volta anche la penisola è articolata in province, come il resto del territorio imperiale. Questa articolazione territoriale era evidentemente legata all’applicazione del ciclo fiscale e alla verifica della sua funzionalità. È lecito ritenere che una ridefinizione amministrativa di tale portata sia avvenuta in un unico momento e per finalità specifiche. Come ha rilevato Pierfrancesco Porena, una dinamica di questo genere è avvalorata dalla constatazione del fatto che i confini delle nuove province della penisola e della diocesi italiciana nel suo insieme non sono in continuità con quelli delle precedenti suddivisioni amministrative6. In proposito si deve tener presente come un documento burocratico del 314, noto come Laterculus Veronensis, attesti una diocesi italiana ampliata (la data precisa di creazione della diocesi italiciana è incerta, ma deve risalire agli ultimi anni del III secolo), rispetto all’area peninsulare: essa comprende, oltre all’arco alpino, anche la provincia di Rezia, intesa probabilmente come una sorta di avamposto importante per la difesa della Pianura Padana dalle invasioni, e le tre antiche province repubblicane di Sicilia, Sardegna e Corsica.
Alcune carriere di personalità chiamate a sovrintendere al governo delle province di nuova creazione confermano che tale innovazione avvenne in un unico momento per tutta l’Italia. Non sembra infatti che si possa seguire Mommsen quando sostiene – sulla base del sopracitato passo di Aurelio Vittore, in cui si parla di pars Italiae – che per l’età tetrarchica il tributo fosse preteso solo per l’Italia settentrionale, vale a dire per quella nota in età tardoantica come annonaria. In realtà, come già chiarito da Andrea Giardina, l’espressione pars Italiae deve essere intesa nel senso di: «in Italia, nella parte (di Impero), detta Italia»7.
C’è un ulteriore aspetto che merita di essere preso in considerazione: oltre alla provincializzazione dell’Italia, con la riscossione in essa del tributo, non si deve trascurare il fatto che in età tetrarchica il controllo fiscale è competenza del prefetto al pretorio, vale a dire dei vicari diocesani. Si è infatti in grado di accertare come già nella prima età costantiniana in Italia siano operanti due vicari: uno, il vicarius urbis, è responsabile della cosiddetta Italia suburbicaria. Con sede a Roma, questi sovrintende alla parte della penisola a sud dell’Appennino e alle isole maggiori. È evidente che su di lui gravano principalmente il rifornimento alimentare della capitale e tutte le sue necessità. L’altro vicarius, detto vicarius Italiae, opera invece nell’Italia settentrionale, detta Italia annonaria, chiamata a soddisfare le esigenze degli apparati di corte e degli eserciti sempre più presenti nella regione. Non vi è dubbio che in questa suddivisione dell’Italia operi una visione della penisola su base prevalentemente fiscale.
Le riforme costantiniane relative all’amministrazione dell’Italia completano e sanzionano un’evoluzione di diversi decenni. Va tenuto presente come, in poco più di trent’anni, la parte dell’Impero che non aveva mai avuto un’organizzazione provinciale abbia ricevuto una peculiare struttura amministrativa che la equiparava alle altre aree dell’Impero e che si rivelò, nel corso del tempo, stabile ed efficace8.
Un’innovazione sicuramente costantiniana, che fa dell’Italia un caso peculiare rispetto al resto dell’Impero tardoantico, consiste nella presenza di due vicari all’interno di un’unica diocesi. A partire da Costantino sono documentati un vicarius Italiae con sede a Milano e un vicarius urbis con sede a Roma. Si tratta, con ogni evidenza, di due identici funzionari, vicari del prefetto al pretorio. Sembra evidente che il vicarius urbis istituito e insediato a Roma da Costantino attorno al 320 sia un’innovazione rispetto al vicarius Italiae unico, creato da Diocleziano al momento della costituzione della diocesi. A Roma, nel corso del III secolo, opera un funzionario agens vice praefectorum praetorio al quale erano demandate le coorti pretorie, in ragione delle prolungate assenze dalla capitale degli imperatori e dei prefetti che li accompagnavano. Dopo la vittoria di ponte Milvio nel 312 Costantino sopprime le coorti pretorie, facendo così venir meno la necessità di mantenere in vita la carica che deve sovrintendere ad esse.
Costantino, dunque, conserva il vicario diocesano istituito da Diocleziano con sede a Milano e trasforma il supplente del prefetto al pretorio a Roma in un ulteriore vicario diocesano, denominato vicarius praefectorum pretorio in urbe Roma o, più semplicemente, vicarius urbis. La diocesi italiciana si trova quindi nella peculiare situazione di avere due vicari, con sedi diverse e con responsabilità su sedi circoscrizionali differenti al proprio interno. Si hanno indicazioni in base alle quali risulta che le scelte dei primi vicari operate da Costantino si indirizzano a favore di personalità di sua fiducia, da lui personalmente selezionate. Verso il 330, o poco prima, Costantino sembra essere ritornato su questa decisione. Quando infatti nomina un prefetto con un mandato limitato alla sola diocesi italiciana, tale nomina deve aver reso superfluo il mantenimento dei due vicari diocesani9.
La battaglia di ponte Milvio segna un primo momento di svolta nella linea di azione di Costantino, oltre che per quanto riguarda i privilegi riservati alla Chiesa, anche per gli aspetti essenziali dell’amministrazione imperiale. Tra i suoi primi atti va ricordato l’aver dato vita a un nuovo ordine di merito che sanzionasse in modo riconoscibile le benemerenze acquisite presso di lui. Si spiega così la creazione dei comites, vale a dire dei ‘compagni’ dell’imperatore, più tardi, attorno al 330, distinti secondo gradi. È notevole in quest’organizzazione la centralità del rapporto con l’imperatore che si presuppone sia l’origine di vantaggi per riceve il titolo, spesso funzionari di corte di alto rango, responsabili di diocesi o incaricati di missioni importanti. A comites erano talvolta affidate funzioni legate alla sfera ecclesiastica come la presidenza dei concili. Comites, infine, potevano essere nominati alla testa di una diocesi per sostituire il vicario dei prefetti.
Nello stesso tempo Costantino fa ricorso a un antico titolo onorifico romano, quello di patricius, che le famiglie più nobili si trasmettono per via ereditaria, come riconoscimento da lui direttamente conferito a personalità meritevoli. Non vi è dubbio che la generosità di Costantino renda questi riconoscimenti qualcosa di molto più concretamente appetibile di una pura distinzione onorifica. Ne fornisce riscontro in primo luogo la legislazione che registra il compiacimento dell’imperatore per i premi e i riconoscimenti che arrivano quasi a ‘sommergere’ i suoi seguaci10. Costantino, attraverso l’organizzazione di una gerarchia così attentamente studiata, punta verosimilmente a creare una propria, autonoma aristocrazia, rimodulando la precedente, che si basava sugli ordini senatorio ed equestre. La stessa nuova capitale, Costantinopoli, deve simboleggiare anche visivamente una sorta di centro ideale per un Impero unificato attorno a un imperatore e alla sua corte.
La parte finale del 312, dopo la vittoria su Massenzio, è anche un periodo di notevoli interventi di Costantino a Roma, a cominciare dalla definitiva soppressione delle coorti pretorie, che si erano rivelate un prezioso strumento a sostegno del figlio di Massimiano: da questo momento in poi l’unico corpo armato operante a Roma sarà quello delle cohortes urbanae11. Si tratta, in realtà, del compimento di un progetto che era già stato di Diocleziano e di Galerio, ma che è portato a termine con grande determinazione solo dopo ponte Milvio, per liquidare quel che restava delle forze fedeli a Massenzio. Questi, infatti, aveva rafforzato la capacità operativa delle sue truppe, mettendo alla loro testa un prefetto del pretorio presente nei castra praetoria di Roma. Le coorti pretorie, tra l’altro, avevano represso nel sangue i tumulti scoppiati a Roma tra il 308 e il 310 a seguito della crisi nei rifornimenti alimentari africani causata dall’usurpazione di Domizio Alessandro in Africa, a sua volta da loro sconfitto in seguito.
La decisione di Costantino ha notevoli ripercussioni anche rispetto alla topografia di Roma12. Settimio Severo aveva contrassegnato con un’intensa attività edilizia la regione lateranense13: è a lui infatti che si deve l’edificazione dei Castra Nova Equitum Singularium destinati ad accogliere la sua guardia del corpo, di consistenza doppia rispetto al passato. Costantino fa distruggere questi castra posti sulla cima del Celio, nella parte meridionale della città, nei pressi delle mura Aureliane, i quali, ormai privi di truppe erano rimasti un simbolo del potere di Massenzio, per far costruire al loro posto un grande edificio riservato al culto della nuova religione, la basilica Lateranense. Si tratta del primo degli edifici cristiani voluti da Costantino regnante da Roma, destinato a essere considerato in modo definitivo la sede del vescovo della città almeno a partire dal VI secolo. È notevole la collocazione della basilica in una zona aristocratica, abitata da famiglie ricche. Questo dato è di importanza decisiva quale manifestazione da parte di Costantino della sua fede e come scelta propriamente politico-ecclesiastica, anche tenuto conto del fatto che della sua concreta attività a Roma poco resta a parte gli edifici stessi14.
Se è attendibile la proposta di Richard Krautheimer, la dedica della chiesa avrebbe avuto luogo già il 9 novembre 312, dunque a sole due settimane di distanza dalla battaglia di ponte Milvio. Come ‘dedica’ si deve intendere propriamente la semplice cessione dei terreni destinati all’edificazione della chiesa, mentre la consacrazione vera e propria avrebbe avuto luogo nel 31815. Se così fosse si potrebbe intendere la decisione di fondare la basilica come una sorta di ex voto per il successo di ponte Milvio; un’indiretta conferma di quanto ciò fosse sentito come un prodotto di circostanze eccezionali, esito di un aiuto celeste. La nuova basilica è riservata alle assemblee liturgiche e nello stesso tempo sancisce il nuovo status dei cristiani16.
Per corroborare la portata delle scelte di Costantino non è necessario identificare nei resti del complesso rinvenuto presso il nuovo palazzo dell’Inps, all’angolo tra via dei Laterani e via Amba Aradam, la Domus Faustae, vale a dire la residenza della moglie dell’imperatore17. Il problema nasce da un passo di Ottato di Milevi che, narrando le vicende del sinodo indetto da papa Milziade nel 313 per giudicare la questione dello scisma donatista, ci informa che i partecipanti «convenerunt in domum Faustae in Laterano» («si riunirono nella casa di Fausta sul Laterano»)18. In realtà nulla attesta che la Fausta citata da Ottato sia proprio l’imperatrice; è anzi assai difficile che la moglie di Costantino abbia mai posseduto un palazzo a Roma, in quanto sembra non sia mai tornata in questa città dopo la sua nascita19. Sappiamo inoltre dell’interesse di Costantino per tale area in quanto, oltre a questa domus, fu inglobato nelle sue proprietà quanto rimaneva delle domus Lateranorum già acquisite dal fisco nel I secolo. Si deve anche tener conto di come a breve distanza, verso nord-ovest, sia ubicato il palazzo del Sessorio (attuale area nei pressi della chiesa di Santa Croce in Gerusalemme), utilizzato come residenza per la madre Elena20.
La tradizione di fondare nuove città, consuetudine dei sovrani ellenistici a partire da Alessandro Magno, in età tardoantica conosce un peculiare sviluppo. Sebbene solo una città porti il nome di Costantino, essa non è un capoluogo qualunque, bensì la nuova capitale dell’Impero, la ‘nuova Roma’. Altre città, riconducibili anch’esse all’iniziativa diretta dell’imperatore, si chiamano Costantina o Costanzia e due prendono nome dalla madre di Costantino, Elena.
La cristianizzazione della società promossa da Costantino ha il suo momento di forza nel riconoscimento, da parte dell’imperatore, delle funzioni del vescovo rispetto alla comunità da lui diretta. Tale riconoscimento presuppone la situazione di generale difficoltà delle tradizionali strutture organizzative delle città e il parallelo declino del senso civico delle élite locali. Oltre alla supervisione sull’organizzazione della vita propriamente religiosa, il vescovo esercita una forma di controllo delle risorse della comunità, su cui ha responsabilità disciplinari.
Un’epigrafe ha conservato memoria di una vicenda, che appare significativa dell’attenzione con la quale Costantino intende farsi promotore del benessere delle città. Dal testo dell’iscrizione si apprende di come egli avesse accondisceso, tra il 331 e il 332, alla richiesta di Orkistos, una comunità frigia, di diventare una città indipendente da Nacoleia. La motivazione della decisione e la stessa enfasi con cui l’imperatore celebra la propria liberalità meritano considerazione: «Gli abitanti di Orkistos, da ora in poi una città, hanno fornito un’occasione ben accetta alla nostra munificenza. Infatti la vostra petizione è risultata molto gradita a noi, che abbiano lo scopo di fondare nuove città o restaurare le antiche o ridar vita a quelle che muoiono»21.
Anche da questa iscrizione emerge come il quadro complessivo della vita cittadina dell’Impero sia tutt’altro che roseo. La crisi conosciuta dalle città nel corso del III secolo ha gravemente compromesso le risorse economiche delle comunità locali. La loro situazione non migliora se non marginalmente e solo in casi sporadici durante il regno di Costantino. Tra l’altro la confisca delle terre dei templi che le città amministrano rappresenta per loro un’ulteriore causa di perdita di risorse. In compenso Costantino restituisce alle città il diritto di reclamare le proprietà dei membri del consiglio municipale morti senza lasciare eredi. Un’ulteriore ragione di crisi è dovuta al fatto che Costantino, avendo reso accessibile l’ordine senatorio a un numero sempre maggiore di cariche, consentiva ai decurioni più ricchi che fossero entrati a farne parte di ottenere l’esenzione dagli oneri municipali per loro stessi e per i propri eredi. Tutto questo comporta non solo una perdita di entrate per le città, ma anche il declino dello spirito civico e il conseguente venir meno dello spirito di iniziativa. Agli occhi di Costantino l’emergere di una figura, come quella del vescovo, capace di agire nel concreto del tessuto sociale e di fungere da punto di riferimento per la collettività appare come una risorsa decisiva per correlare il proprio disegno di riforma e di accentramento del potere politico-militare con le città, nuova ed efficace forma di mediazione nei tradizionali gangli vitali dell’Impero. Si capisce, quindi, la ragione del suo appoggio costante non tanto alla Chiesa in senso generale quanto, molto concretamente, ai suoi vescovi, attraverso concessioni economiche, riconoscimento di privilegi e trasferimento di funzioni pubbliche quali la possibilità di fungere da giudici in questioni di diritto civile22.
La fondazione di una nuova capitale appare a un tempo come la premessa e l’esito di una nuova concezione del governo dell’Impero, che punta alla collaborazione delle élite provinciali attraverso la mediazione di una nuova gerarchia amministrativa organizzata attorno alla corte imperiale. Si tratta di una filosofia di governo, che deve risultare attrattiva per i ceti sociali emergenti dell’Oriente, ma nella quale necessariamente l’aristocrazia senatoria romana, orgogliosa del proprio ruolo e della propria autonomia, non può riconoscersi. Quanto alla fondazione in sé, si tratta di un gesto imperiale per eccellenza. La politica romana in Oriente si è contraddistinta per una moltiplicazione delle città e per l’armonizzazione dei loro statuti23.
Costantinopoli è la città fortemente voluta da Costantino, una volta riunificato l’Impero dopo la vittoria su Licinio nel settembre del 324. La scelta non cade subito su Bisanzio. Costantino, infatti, rimane incerto sul luogo ove fondare una città che porti il suo nome. L’anno celebrato come fondativo di Costantinopoli, il 330, è in realtà quello della dedicatio-consecratio, della cerimonia di inaugurazione solenne. I grandi lavori di costruzione iniziano già nel 325 e proseguono per almeno un decennio. Si tratta del progetto grandioso di una città concepita sin dall’inizio per accogliere un numero di abitanti superiore a quelli di coloro che vi risiedono: è una scommessa per il futuro che implica un forte drenaggio di risorse. Si utilizzano il tesoro lasciato da Licinio e i beni confiscati ai templi pagani. E si deve far ricorso a nuove tasse.
Non è storicamente corretto attribuire a Costantino l’intenzione di creare una capitale ‘alternativa’ a Roma per motivi di carattere religioso o per scelte politiche. Si tratta di una prospettiva creata dalla storiografia successiva, soprattutto pagana, per ragioni polemiche. È senz’altro preferibile vedere in questa scelta la motivazione di dar vita a un centro politico capace di organizzare attorno a sé l’Oriente riunificato sotto un unico potere. Si deve tener presente che Roma ha cessato di essere residenza imperiale già nel 284, con la decisione di Diocleziano e Massimiano di risiedere rispettivamente a Nicomedia e a Milano. Roma rimane la capitale dell’Impero, anche se si trova a essere progressivamente privata di quelle istituzioni che non hanno a che fare con il governo della città24.
Vero è che, a differenza di Roma, a Costantinopoli è l’imperatore a essere fonte di tutto e a dare vita in forma esclusiva alle sue istituzioni25. Costantino, d’altra parte, ha un progetto di riorganizzazione dell’Impero che punta al rinnovamento dello stesso Senato romano nel senso di una sua maggiore rappresentatività dei provinciali, e che traduce in modo evidente in quello che si andrà costituendo nella nuova capitale. Scrive un panegirista, Nazario, nel 321:
Finalmente, Roma, hai sentito che eri alla testa di tutte le nazioni e regina del mondo, quando hai aggregato alla tua curia i più nobili cittadini di tutte le province, affinché il Senato, dal momento nel quale entrava a farne parte l’élite del mondo intero, dovesse il suo accresciuto prestigio non tanto al suo nome ma a ciò che era realmente26.
A Costantino interessa fondamentalmente far sì che a Costantinopoli il Senato, proprio perché svincolato dai condizionamenti del passato, rappresenti effettivamente almeno la parte orientale dell’Impero. Tuttavia il Senato costantinopolitano, per quanto in dignità nominale del tutto uguale a quello romano, non giunge mai a essere un vero interlocutore nel gioco politico. Le sue funzioni effettive si riducono essenzialmente alla gestione della vita cittadina e alla risoluzione di questioni fiscali. Come ha scritto Gilbert Dagron, l’eguaglianza di statuto fra i senatori non implica una parità tra le due assemblee: se da una parte, infatti, abbiamo un «senato di Roma», dall’altra si ha non un senato di Costantinopoli ma «un senato di Costantino»27. Anche durante il regno di Costanzo II, che si impegna in una sistematica opera di organizzazione del nuovo Senato al fine di avvicinarlo al modello romano, esso conserva lo stretto legame con l’imperatore che aveva avuto con Costantino.
Si ritiene spesso che l’ordine equestre abbia cessato di esistere durante il regno di Costantino e che sia stato contestualmente assorbito da quello senatorio. Secondo André Chastagnol, nel 326 quasi tutti i membri dell’ordine equestre hanno ormai avuto accesso alla dignità superiore28. Da una parte si assiste a una moltiplicazione dei governatorati senatori e alla nomina di vari funzionari di rango senatorio, dall’altro, nello stesso tempo, viene meno la categoria dei viri egregii, nella quale rientravano molti notabili provinciali. In effetti il Senato comprende, attorno alla metà del IV secolo, circa duemila membri.
Questa opinione è stata corretta da Claude Lepelley, che ha contestato la possibilità che misure specifiche volte a sopprimere l’ordine equestre fossero adottate dall’autorità imperiale già in età costantiniana29. La svalutazione della dignità equestre, di fatto limitata ai governatori delle province non senatorie e ai decurioni alla conclusione della loro carriera, è peraltro indiscutibile, anche perché essa non comporta più alcuna forma d’immunità dagli obblighi nei confronti delle curie. L’assorbimento effettivo dell’ordine equestre in quello senatorio è in realtà di qualche decennio posteriore a Costantino. Tuttavia non c’è dubbio che egli persegua coerentemente il disegno di avere al proprio servizio un’aristocrazia statale organizzata in una struttura unitaria e fortemente gerarchizzata. Costantino ha la capacità d’indirizzare un processo in atto per consolidare la propria filosofia di governo dell’Impero.
Tra le innovazioni più rilevanti introdotte da Costantino in ambito politico-amministrativo c’è senz’altro la ridefinizione dei poteri e delle competenze del prefetto del pretorio30. A tale riguardo l’azione di Costantino appare particolarmente incisiva anche rispetto a Diocleziano. Durante il regno di quest’ultimo, infatti, il prefetto del pretorio è, quanto a poteri, una sorta di gran visir31, che esercita una grande autorità su ogni sfera di governo, amministrativa, finanziaria, militare, giudiziaria. Costantino riduce drasticamente le competenze dei prefetti del pretorio: benché ricada ancora sotto la loro responsabilità il delicato compito di organizzare il reclutamento e il vettovagliamento, oltre alla supervisione sulle fabbriche d’armi, alla fine del regno i prefetti non comandano più sulle forze militari.
Zosimo, pur nella sua tendenziosità, dà conto, nella versione sufficientemente articolata che fornisce dell’assetto finale della prefettura del pretorio costantiniana (II 33,1-2), di un elemento decisivo, vale a dire di come l’imperatore abbia moltiplicato il numero dei prefetti e li abbia distribuiti nell’Impero assegnando a ciascuno di loro un mandato su un’area circoscritta32.
Nella sua valutazione negativa delle riforme realizzate da Costantino, in particolare dopo il 324, lo storico bizantino dà particolare rilievo a quella della prefettura del pretorio. Il passo rilevante è II 32,1:
Costantino sconvolse le cariche istituite un tempo. Esistevano, infatti, due prefetti del pretorio, che esercitavano collegialmente il mandato; alla loro competenza e alla loro autorità erano sottoposte non solo le truppe di corte, ma anche i contingenti preposti alla difesa della città [di Roma] e quelli stanziati lungo tutti i confini; il potere dei prefetti, considerato secondo solo a quello dell’imperatore, si esplicava nell’approvvigionamento dell’esercito e nella punizione, per mezzo di pene proporzionate, dei reati commessi contro la disciplina militare.
La valutazione di Zosimo si giustifica se si tiene conto del fatto che, in effetti, da Augusto sino alla metà del III secolo gli imperatori hanno avuto di regola sempre uno o due prefetti al loro fianco. Si tratta di una prassi che nella seconda metà del III secolo e in età tetrarchica è in realtà ancora valida, con l’unica modifica rappresentata dalla presenza di un solo prefetto a fianco di un imperatore nei casi di una pluralità di sovrani.
Nel passo successivo Zosimo entra nel merito della nuova prefettura del pretorio così come riorganizzata da Costantino:
Costantino, modificando quanto era stato opportunamente stabilito, divise in quattro una carica unica: a uno dei prefetti del pretorio affidò tutto l’Egitto, oltre alla Pentapoli di Libia, e l’Oriente fino alla Mesopotamia e inoltre le terre di Cilicia, di Cappadocia e di Armenia, e tutta la costa della Panfilia fino a Trapezunte e alle fortificazioni sul fiume Fasi; assegnò allo stesso prefetto anche la Tracia, delimitata dalla Mesia sino al fiume Asemo e dalla Rodope sino alla città di Topero, e inoltre Cipro e le Cicladi, con l’eccezione delle isole di Lemno, Imbro e Samotracia. Al secondo prefetto del pretorio affidò la Macedonia, la Tessaglia, Creta, la Grecia e le isole che la circondano, i due Epiri e, oltre a queste province, l’Illirico, la Dacia e le terre dei Traballi, la Pannonia sino alla Valeria e, inoltre, la Mesia Superiore; al terzo prefetto del pretorio affidò tutta l’Italia, la Sicilia e le isole che la circondano, e ancora la Sardegna, la Corsica e l’Africa, dalle Sirti fino alla Mauretania Cesariense; al quarto prefetto del pretorio assegnò le Gallie al di là delle Alpi, le Spagne, oltre all’isola di Britannia33.
La ricostruzione di Zosimo non riproduce precisamente, con ogni probabilità, l’esatta articolazione delle prefetture scaturite dalla riforma costantiniana. Per quanto il principio di fondo della riforma non sia mai messo in discussione, si tratta di ripartizioni territoriali abbastanza instabili, soggette a vari aggiustamenti legati all’evoluzione della situazione politica e dell’organizzazione generale dell’Impero. La grande crisi determinata dalla disfatta subita da Valente contro i Goti ad Adrianopoli può considerarsi un ulteriore momento di svolta. In linea di massima, dalla morte di Costantino sino al 378 l’Impero risulta articolato in tre grandi prefetture: Oriente, Italia-Illirico e Africa e Gallia, territori che corrispondono molto da vicino a quelli a suo tempo governati dai singoli tetrarchi. Si tratta di aree geografiche di diversa estensione, ma caratterizzate tutte da omogeneità interna e da evidenti funzioni strategiche.
La prefettura centrale conosce una certa instabilità, dal momento che all’Italia viene aggregata talvolta la sola Africa, talaltra il solo Illirico, così che o l’Africa o l’Illirico restano autonomi. L’Africa, per certi aspetti, costituisce un caso speciale, forse legato alla persistenza della crisi donatista. Si deve anche tener conto di come, almeno in età costantiniana, i vari prefetti del pretorio non abbiano nella loro titolatura ufficiale alcuna designazione dell’ambito territoriale di competenza. Questa compare solo a partire dalla seconda metà del IV secolo con Valentiniano.
Risulta, in effetti, che Costantino abbia organizzato un collegio di cinque prefetti del pretorio tra il 332 e il 336, come attestano le iscrizioni di Aïn Rchine, Tubernuc e Antiochia. La differente versione di Zosimo è giustificabile forse con una modifica che l’istituzione potrebbe aver subito alla morte dell’imperatore nel 337, oppure con l’intenzione dello storico di dare una valutazione sintetica della riforma senza addentrarsi nell’illustrazione delle sue varie fasi. Malgrado le critiche di Zosimo relative all’indebolimento della carica di prefetto del pretorio, appare evidente dalla sua stessa testimonianza, oltre che da quella di Giovanni Lido34, che Costantino ha agito procedendo per tappe: prima ha moltiplicato il numero dei prefetti e poi, solo dopo aver creato la carica di magister militum, li ha privati delle competenze militari35.
L’esito della vittoria definitiva su Licinio deve avere ispirato a Costantino l’opportunità di una riorganizzazione di vasto respiro della prefettura del pretorio. Imperatore unico, attribuisce a più prefetti del pretorio il controllo su più diocesi: destinati a regioni molto lontane, è evidente che costoro non avrebbero più fatto parte del suo comitatus. Essi avrebbero risieduto a Cartagine, a Treviri, a Sirmio, a Milano o a Roma, ma in ogni caso al di fuori della corte e lontano da essa. Anche il prefetto che ha responsabilità sulle diocesi orientali dell’Impero non opera più a stretto contatto con la corte36. Ne è una riprova il fatto che il suo ufficio è ubicato in un palazzo lontano da quello imperiale anche nei casi in cui egli risieda nella stessa città dell’imperatore. In sostanza, a partire dalla parte finale del regno di Costantino il prefetto del pretorio, malgrado il rilievo assoluto che la sua carica continua ad avere, risulta presentare le caratteristiche di un magistrato periferico.
La nuova organizzazione della prefettura del pretorio ha indubbiamente dirette e rilevanti conseguenze sull’organizzazione dell’esercito, cosa che Zosimo non manca di evidenziare allo scopo di corroborare la propria presentazione negativa del regno di Costantino. È chiaro il suo intento di attribuire alle mutate competenze del prefetto del pretorio la causa di un generale e rovinoso indebolimento della compagine statale. Scrive Zosimo:
Dirò subito quali disastrose conseguenze produsse questo rovinoso cambiamento sia in tempo di pace, sia in tempo di guerra: quando i prefetti del pretorio riscuotevano dappertutto i tributi attraverso i loro sottoposti e utilizzavano l’imposta per il vettovagliamento dell’esercito, tenevano i soldati sotto controllo in virtù del fatto che questi dovevano rispondere al prefetto della loro indisciplina: chiaramente i soldati, consci del fatto che l’autorità preposta al loro approvvigionamento aveva il potere di perseguire gli insubordinati, non osavano violare i regolamenti, per timore di una sospensione del vettovagliamento e di una punizione immediata. Adesso, invece, dal momento che uno si occupa della distribuzione dei rifornimenti e un altro sovrintende alla disciplina, tutto è in preda al disordine e, per questo, la maggior parte dell’approvvigionamento destinato all’esercito diventa un guadagno per il generale e per i suoi ufficiali37.
A prescindere dalla tendenziosa ricostruzione di Zosimo, certo Costantino opera una radicale separazione delle funzioni civili da quelle militari. È la conclusione di un processo che ha portato alla netta separazione fra le competenze civili e militari dei detentori delle cariche più importanti. Comando militare e comando civile vengono scissi in quasi tutte le province, con il risultato di prefigurare due tipologie di carriera del tutto distinte. Si tratta di una forma di specializzazione che scaturisce dal riconoscimento dell’impossibilità di trovare personalità con competenze tanto differenziate da poter svolgere adeguatamente funzioni sia amministrative sia militari, ma nello stesso tempo scongiura la possibilità che altri, oltre all’imperatore, possa concentrare in sé poteri distinti.
Il prefetto del pretorio, secondo la riforma costantiniana, rimane una carica prestigiosa, che presuppone un curriculum di primo piano ed esperienze specifiche in campo amministrativo, e comporta competenze nella gestione e nella ridistribuzione delle risorse: tuttavia, la responsabilità diretta sulle truppe è riservata a comandanti scelti ad hoc, i magistri militum. I nuovi tratti della prefettura del pretorio, che ha perso definitivamente il suo carattere originario di alto comando militare, sono resi evidenti dal fatto che Costantino si preoccupa di renderla accessibile anche a esponenti dell’ordine senatorio. In realtà non si hanno riscontri cronologici precisi sul trasferimento delle competenze militari dai prefetti del pretorio ai magistri militum, una carica che risulta immediatamente aperta a personalità di estrazione relativamente bassa, ivi compresi i barbari38. Ad ogni modo, anche in questo ambito, la scelta operata da Costantino risulta definitiva: la prefettura del pretorio rimarrà una carica esclusivamente civile sino alla sua scomparsa all’inizio del VII secolo.
L’influenza dei prefetti del pretorio è comunque ulteriormente circoscritta dalla creazione di un gruppo di funzionari legati direttamente all’imperatore stesso. Due sono gli alti magistrati creati allo scopo di svolgere funzioni essenziali per l’amministrazione imperiale: il quaestor e il magister officiorum. Al quaestor, la cui creazione pare debba essere attribuita a Costantino, almeno secondo Zosimo (V 32,6), anche se ci è noto solo un nome di questore di età costantiniana – è demandato il compito di predisporre i testi legislativi, redigere le risposte alle petizioni indirizzate all’imperatore, preparare i documenti di nomina per le varie cariche.
La carica di magister officiorum risulta particolarmente indicativa della progettualità riformatrice e organizzativa costantiniana. Nella nuova carica, di cui sembra ragionevole ipotizzare la creazione subito dopo il 312, si realizzano la sistematizzazione e l’aggregazione di competenze precedentemente separate e distribuite tra funzionari diversi, anche se continuano a esistere ambiti, come la gestione del fondamentale cursus publicus, vale a dire il sistema dei trasporti dello Stato, rispetto ai quali le sue competenze si sovrappongono a quelle del prefetto del pretorio39. Ad ogni buon conto il nuovo magistrato deve svolgere compiti quali la corrispondenza ufficiale e l’invio di ambascerie che interessano aspetti di primaria importanza per la vita dell’Impero. Sappiamo in ogni caso che risale al 314 (o appena prima) la tripartizione dei principali dipartimenti amministrativi (scrinia), destinata a rimanere stabile per tutto il Tardo Impero40: scrinium memoriae, scrinium epistularum e scrinium libellorum. Si tratta dei dipartimenti sottoposti alla supervisione del quaestor. Nello stesso tempo la decisiva gestione delle esazioni tributarie, in natura e in oro, che ricade sul prefetto del pretorio viene a sua volta articolata in due uffici principali, gestiti rispettivamente dal comes sacrarum largitionum e dal comes rei privatae41.
Al di là dell’intento celebrativo, la valutazione che Eusebio di Cesarea dà della filosofia di governo costantiniana e della sua disponibilità ad accogliere le richieste che gli venivano rivolte merita considerazione. Scrive il biografo:
Alcuni ottenevano disponibilità di denaro, altri proprietà terriere, altri cariche prefettizie, altri la dignità senatoria, altri ancora quella consolare, moltissimi erano nominati governatori e, tra i comites, alcuni erano insigniti del titolo di primo grado, altri di quello di secondo grado e altri ancora di quello di terzo grado; tantissimi altri ottenevano del pari molte diverse dignità altrettanto insigni: infatti l’imperatore ideò nuove e diverse cariche per attribuirne l’onore a un maggior numero di persone»42.
La prospettiva, speculare e critica, di Zosimo, secondo il quale la prodigalità di Costantino, che Eusebio intendeva come munificenza, ha recato solo danni allo Stato, non deve indurre a sottovalutare il significato effettivo del ‘sistema’ costantiniano. Si riconosce operante in esso una strategia che punta a instaurare legami stabili con provinciali che detengono una posizione di influenza e ricchezza43. La creazione di nuovi titoli e di funzioni rende la corte il centro di un intreccio complesso di relazioni che, almeno nelle intenzioni, deve propiziare una conciliazione di interessi diversi.
Oltre che di centralizzazione, per la filosofia di governo costantiniana, si può parlare anche di razionalizzazione e burocratizzazione, con un esito profondo nell’accentuarsi delle distinzioni gerarchiche e, quindi, delle divaricazioni sociali. La sensibilità dimostrata da Costantino per le questioni che oggi si direbbero ‘assistenziali’ ha come motivazione, verosimilmente, una questione religiosa, essendo essa il riflesso dell’etica cristiana, ma traduce in atti concreti una sollecitudine che doveva rispondere a necessità diffuse ed evidenti. Non è un caso che il Codice Teodosiano raccolga in un titolo specifico, De alimentis, quae inopes parentes de publico petere debent, due costituzioni emanate nel corso dei primi anni regno44. Nella prima (Cod. Theod. XI 27,1), probabilmente del maggio 315, Costantino motiva la legge con la volontà di impedire che taluni genitori possano, in ragione della loro indigenza, macchiarsi di un orrendo crimine come l’infanticidio. È interessante notare come il tenore del testo induca a pensare a una sorta di ricognizione che il funzionario e i suoi collaboratori avrebbero dovuto compiere, prima di procedere alla corresponsione dei sussidi, allo scopo di accertare l’effettivo stato di indigenza del genitore richiedente. Nella seconda costituzione, di sette anni successiva, Costantino estende i provvedimenti già presi per l’Italia anche all’Africa, sebbene in questo caso il pericolo sia che i genitori, a causa della loro povertà, vendano o diano in pegno i figli. Eusebio celebra Costantino che «offrì abbondanti donativi per l’assistenza ai poveri»45, e che
meditava dall’alba al tramonto su quali uomini beneficare e su come essere equo e imparziale nella beneficenza. In modo particolare offriva alle chiese di Dio donativi in abbondanza, elargendo ora terre, ora distribuzioni di grano per il sostentamento dei poveri, degli orfani e delle donne in difficoltà. E con grande sollecitudine provvedeva a procurare una grande quantità di vestiti per gli ignudi che ne erano privi46.
A prescindere dal tono celebrativo di Eusebio, si deve riconoscere nelle motivazioni di Costantino la consapevolezza di un aggravamento delle condizioni di vita di larghi strati sociali del suo tempo, e dell’esistenza di una afflicta paupertas per la quale la sensibilità religiosa cristiana sollecita una risposta adeguata. Senza pensare a forme di compiuto e coerente assistenzialismo, o a un progetto di riforma complessiva del tutto prematuro per i tempi, una politica di questo genere, che probabilmente si esplica in provvedimenti saltuari, sembra implicare un tentativo di mitigare le conseguenze delle scelte operate dallo stesso Costantino con la sua politica economica.
Risulta particolarmente significativa l’attenzione manifestata da Costantino negli anni finali del suo regno per una corretta applicazione della giustizia. Secondo Eusebio, l’imperatore è solito ricordare con forza ai magistrati come ciascuno di loro avrebbe dovuto render conto a Dio del comportamento tenuto nell’esercizio delle proprie funzioni47. Un testo legislativo sembra corrispondere davvero a una richiesta perentoria di equità:
Che le mani rapaci dei funzionari si fermino immediatamente: perché, se dopo essere stati ammoniti non dovessero fermarsi, esse saranno recise con la spada. La tenda del giudice non sia venale, l’ingresso ad essa non sia acquisito dietro compenso, la stanza del consiglio personale non sia famigerata a causa di offerte finalizzate alla corruzione. La vista del governatore non sia a tariffa: le orecchie del giudice siano ugualmente aperte per i poveri come per i ricchi48.
Lungo la stessa linea d’azione già qualche anno prima, nel 325, Costantino aveva manifestato, con un’ampia motivazione, la sua preoccupazione perché anche i più deboli potessero ottenere adeguata giustizia49.
Se si tiene conto della sincerità di questo proposito e dell’impegno manifestato per la sua realizzazione, appare allora meno difficile da accettare l’autenticità di un testo legislativo indirizzato al prefetto Ablabio nel 33350. Esso appare eccezionalmente favorevole alla Chiesa, cui Costantino attribuisce un’autorità senza limiti quanto ai verdetti emanati dai tribunali ecclesiastici. Il ricorso al tribunale vescovile era già stato ammesso con una legge del 31851, che rappresenta la costituzione imperiale più antica in materia di epicopalis audientia52. In realtà Costantino non delega una specifica competenza ai vescovi, ma riconosce quanto da loro già da tempo praticato. La giurisdizione dei tribunali vescovili risulta una giurisdizione elettiva, concorrente con quella dei magistrati ordinari. I giudizi dei vescovi possono infatti essere invocati in qualunque momento nei dibattimenti legali da una qualsiasi delle parti in causa senza tener conto della disponibilità dell’altra. Impressiona, invero, la sfiducia mostrata dall’imperatore nei confronti del sistema giudiziario: solo così, infatti, si può spiegare la scelta di affidarsi al verdetto dei vescovi, che egli considera immune da corruzione e, quindi, decisivo perché capace di sottrarsi alle capziosità del formalismo giuridico.
La strategia di Costantino può essere ricostruita in questi termini: consapevole di non essere in grado di ottenere che il personale giudiziario agisca secondo i valori di giustizia e di equità da lui propugnati, egli sembra optare per una soluzione radicale: creare un sistema giudiziario alternativo, una sorta di concorrenza che forse avrebbe potuto costituire un modello di riferimento per la giustizia ordinaria. L’apparato ecclesiastico è utilizzato da Costantino, con il pragmatismo che gli è connaturato, per conseguire il proprio scopo: che anche gli umili possano ottenere giustizia. Non a caso le sentenze del tribunale episcopale sono rese inappellabili al pari di quelle del prefetto del pretorio53.
Anche questa è una componente della filosofia di governo costantiniana, che ha premesse ed esiti importanti nell’amministrazione dell’Impero.
1 Lact., mort. pers. 23,2.
2 Cfr. J.-M. Carrié, Dioclétien et la fiscalité, in Antiquité Tardive, 2 (1994), pp. 33-64.
3 Paneg. 8,11,1.
4 Cfr. F. Carlà, A. Marcone, Economia e finanza a Roma, Bologna 2011, pp. 239-240.
5 Aur. Vict., Caes. 39,31-32.
6 Cfr. P. Porena, Sulla genesi degli spazi amministrativi dell’Italia tardoantica, in Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana, I/2, Tradizione romanistica e Costituzione, a cura di M.P. Baccari, C. Cascione, Napoli 2006, pp. 1315-1376.
7 Cfr. A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’Impero, in Società romana e Impero tardoantico, I, Istituzioni, ceti, economie, Roma-Bari 1986, pp. 1-36 (adesso in Id., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari 1997, pp. 265-321).
8 Cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale e élites dirigenti nell’Italia tardoantica. Problemi di storia politico-amministrativa (270-476 d.C.), Como 1994.
9 Cfr. P. Porena, Sulla genesi degli spazi amministrativi, cit.
10 Cod. Theod. VI 36,1 del 326.
11 Cfr. P. Stephenson, Constantine: Roman Emperor, Christian Victor, New York 2009, p. 54; J.R. Curran, Pagan City and Christian Capital, Oxford 2000, p. 93.
12 Cfr. R. Ross Holloway, Constantine and Rome, New Haven 2004.
13 Cfr. P. Liverani, Le proprietà private nell’area lateranense fino a Costantino, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 100 (1988), pp. 891-915.
14 Cfr. A. Logan, Constantine, the Liber Pontificalis, and the Christian Basilicas of Rome, in Studia Patristica, 50 (2011), pp. 31-53.
15 Cfr. R. Krautheimer, Three Christian Capitals: Topography and Politics, Berkeley 1983, p. 15.
16 Cfr. J.R. Curran, Pagan City, cit., p. 95.
17 Cfr. M. Guarducci, La Domus Faustae in Laterano e la cattedra di san Pietro in Vaticano, in Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst. Friedrich Wilhelm Deichmann gewidmet, hrsg. von O. Feld, U. Peschlow, I, Bonn 1986, pp. 249-263.
18 De schismate Donatistarum I 23.
19 E. Nash, Convenerunt in domum Faustae in Laterano. S. Optati Miletivani. 1, 23, in Römische Quartalschrift, 71 (1976), pp. 1-21.
20 Cfr. P. Delogu, Costantino, Elena e il mausoleo sulla via Labicana, in Il mausoleo di sant’Elena. Gli scavi, a cura di L. Vendittelli, Milano 2011, pp. 12-29.
21 ILS 6091. Cfr. A. Chastagnol, L’inscription constantinienne d’Orcistos, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 93 (1981), pp. 381-416.
22 Cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore 2000. Sul rapporto tra Costantino e i vescovi, si veda qui il saggio di R. Teja.
23 Cfr. G. Dagron, Costantinopoli. Nascita di una capitale, Torino 1991, pp. 58-59.
24 Cfr. A. Chastagnol, La préfecture de Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960, pp. 64-66.
25 G. Dagron, Costantinopoli, cit., p. 117.
26 Paneg. 12,5.
27 G. Dagron, Costantinopoli, cit., p. 122.
28 A. Chastagnol, Constantin et le sénat, in Atti del Secondo convegno internazionale dell’Accademia romanistica costantiniana, Perugia 1976, pp. 51-69.
29 Cl. Lepelley, Fine dell’ordine equestre: le tappe dell’unificazione della classe dirigente romana nel IV secolo, in Società romana e Impero tardoantico, I, cit., pp. 227-244; Id., Du triomphe à la disparition. Le destin de l’ordre équestre de Dioclétien à Théodose, in L’ordre équestre. Histoire d’une aristocratie (Ier siècle av. J.-C.-IIIe siècle ap. J.-C.), Rome 1999, pp. 629-646.
30 È fondamentale per questa ricostruzione lo studio di P. Porena, Le origini della prefettura del pretorio tardoantica, Roma 2003.
31 Così secondo A.H.M. Jones, Il Tardo Impero romano. 284-602 d.C., I, Milano 1973, p. 453.
32 P. Porena, Le origini della prefettura, cit., p. 498.
33 Zos., II 33,1-2.
34 De magistratibus, II 10.
35 Cfr. P. Porena, Le origini della prefettura, cit., pp. 524-526.
36 Cfr. A. Gutsfeld, Der Prätorianerpräfekt und der kaiserliche Hof im 4. Jahrhundert n. Chr., in Comitatus. Beiträge zur Erforschung des spätantiken Kaiserhofes, hrsg. von A. Winterling, Berlin 1998, pp. 75-202.
37 Zos., II 33,4-5.
38 RE suppl. XII (1970), A. Demandt, s.v. Magister militum, cc. 553-790; Id., Der spätrömische Militäradel, in Chiron, 10 (1980), pp. 609-636.
39 Cfr. M. Clauss, Der magister officiorum in der Spätantike (4.-6. Jahrhundert), München 1980.
40 Cod. Theod. VI 35,1= Cod. Iust. XII 28,1.
41 Cfr. C. Kelly, Bureaucracy and Government, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lensky, Cambridge 2006, p. 190.
42 Eus., v.C. IV 1,2.
43 Cfr. C. Kelly, Bureaucracy and Government, cit., p. 199.
44 Cfr. C. Corbo, Paupertas. La legislazione tardoantica, Napoli 2006.
45 Eus., v.C. III 58,4.
46 Eus., v.C. IV 28.
47 Eus., v.C. IV 29,4. Cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, pp. 158-159.
48 Cod. Theod. I 16,7 del 331.
49 Cod. Theod. IX 1,4.
50 Const. Sirmond. 1.
51 Cod. Theod. I 27.
52 Cfr. G. Vismara, Episcopalis audientia: l’attività giurisdizionale del vescovo per la risoluzione di controversie private tra laici nel diritto romano e nella storia del diritto italiano fino al secolo nono, Milano 1937, pp. 37-51.
53 Cod. Theod. XI 30,16 del 331.