Amministrazione pubblica
di Gaetano Stammati
Amministrazione pubblica
sommario: 1. Concetti generali: a) l'amministrazione pubblica in generale e le tendenze evolutive in atto; b) pubblica amministrazione in senso oggettivo; c) pubblica amministrazione in senso soggettivo; d) la ‛burocrazia' e i suoi problemi. 2. Problemi organizzativi della pubblica amministrazione: a) l'attività di programmazione e gli organi del programma; b) caratteristiche dell'attività di programmazione; c) l'amministrazione della spesa pubblica; d) le tecniche di programmazione di bilancio; e) la cosiddetta crisis of accountability e le ‛agenzie'; f) il sistema delle ‛partecipazioni statali'; g) la ‛Cassa del Mezzogiorno'. 3. Crisi della pubblica amministrazione e possibili rimedi: a) le cause della crisi; b) la preparazione dei pubblici funzionari; c) una rivoluzione tecnica: l'informatica; d) ancora sui problemi dell' ‛informatica'. □ Bibliografia.
1. Concetti generali
a) L'amministrazione pubblica in generale e le tendenze evolutive in atto
‛Pubblica amministrazione' è l'espressione sintetica con la quale si suole indicare indifferentemente l'attività dell'amministrare la cosa pubblica, nonché il soggetto, cioè l'organizzazione che esercita tale attività. Sinonimo di tale espressione, quando intesa come soggetto, appare spesso il termine di ‛burocrazia', il quale, per altro, assume sfumature diverse e prevalentemente sfavorevoli. Per questa molteplicità di significati si spiega come la materia abbia formato e formi oggetto di studio da parte di discipline diverse: giuridiche, politiche, sociologiche, economico-finanziarie e tecniche, nonché, ovviamente, storiche.
Può essere interessante, sotto il profilo storico, ricercare le caratteristiche di antiche strutture amministrative e burocratiche, dall'antichità classica e dagli imperi orientali (specialmente cinese), fino all'epoca medioevale e alle monarchie assolute. Ma è solo con riferimento al periodo posteriore alla nascita del capitalismo e alla formazione dello Stato moderno che l'esame storico dell'organizzazione amministrativa acquista rilevanza ai fini di una migliore conoscenza dei problemi attuali.
Così dicasi dell'esame comparato delle strutture amministrative e burocratiche nei diversi paesi: solo l'esame ristretto ad un gruppo di paesi industrializzati e di assetto omogeneo consente di trarre utili riflessioni sulla situazione presente, sugli inconvenienti che si rilevano, sui possibili rimedi. L'analisi estesa, per esempio, all'amministrazione pubblica e alla burocrazia dei paesi socialisti primo fra di essi, l'URSS), ovvero dei paesi in via di sviluppo, non è certo priva di interesse né di insegnamento, ma è scarsamente utilizzabile per correggere il modello organizzatorio prevalente nei paesi industrializzati di assetto capitalistico.
Più interessante è l'analisi del rapporto fra le strutture pubbliche e quelle private, specialmente ove si prenda come termine di confronto la struttura delle imprese di grandi e grandissime dimensioni. Tale confronto acquista vieppiù rilevanza quando lo Stato, sia pure in forme indirette, assume su di sé responsabilità tipicamente imprenditoriali (ad es. nel settore bancario, in quello assicurativo o anche in settori squisitamente industriali e commerciali).
E qui si pone il problema di esaminare le conseguenze che derivano sull'attività amministrativa, oggettivamente considerata, e sulle strutture amministrative, soggettivamente considerate, da quel processo di trasformazioni che porta lo Stato (e le collettività minori) ad assumersi crescenti responsabilità nel campo dell'economia, trasformandosi da semplice produttore di grandi servizi pubblici di interesse generale (la difesa e la sicurezza interna ed esterna, la giustizia, l'istruzione e così via) ad operatore economico esso stesso. Esso può svolgere questo compito sia mediante imprese costituite nel suo seno, in forma autonoma (ad es. le ferrovie) o no (ad es. gli arsenali militari), sia mediante la costruzione di enti pubblici, più o meno strettamente collegati all'amministrazione diretta, anche nella forma tipicamente americana di ‛agenzie', sia, infine, mediante imprese a capitale statale, o comunque pubblico, ma organizzate in forma privata (società per azioni). La sfera crescente dell'intervento statale porta a due principali conseguenze.
Anzitutto è facile constatare che, quasi dappertutto, e sia pure in forme diverse, si perviene ad una fase di programmazione dell'intervento statale e dell'intera economia: il che implica una profonda trasformazione nei rapporti fra lo Stato e gli operatori economici. Allo Stato produttore di pubblici servizi si sovrappone lo Stato industriale e lo Stato regolatore del sistema economico, di fronte al quale l'operatore economico non si pone più soltanto nella veste di utilizzatore dei servizi, o di contribuente, o di destinatario di sovvenzioni e di contributi, ma altresì, e specialmente tra i responsabili delle più grosse imprese, di soggetto chiamato a collaborare di volta in volta alle scelte e poi all'attuazione concreta della programmazione economica.
Superato il dibattito sui diversi tipi di programmazione (indicativa, concertata, coercitiva), permane tuttavia aperta la discussione sui metodi del programmare, se cioè si debba avere una programmazione economica generale - come si è tentato di fare in Italia con il programma economico nazionale 1966-1970 (cfr. legge 27 luglio 1967, n. 685), e, ancora, con il documento preliminare per il piano 1971-1975 (cui erano allegati 12 ‛progetti pilota' ed il ‛progetto Venezia') - ovvero, come adesso pare si preferisca, una programmazione ‛per obiettivi', se si debba avere una programmazione ‛dall'alto' o ‛dal basso'. Si discute ancora sui rapporti fra i vari centri di programmazione, Stato e collettività locali (in Italia, Stato e Regioni), nonché sull'organizzazione degli uffici programmatori: Commissariato al piano (come in Francia e altrove) o Comitato interministeriale o Ministero per la Programmazione. In Italia - indice, questo, ‛di scarsa capacità' a decidere - si è adottata una forma mista, con un ministero, impropriamente chiamato del ‛bilancio e della programmazione economica', un Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) e un Istituto per la Programmazione Economica (ISPE). Mal definiti, altresì, i rapporti fra gli organi della programmazione e gli altri uffici della pubblica amministrazione (specialmente quelli competenti in materia di bilancio), con la inevitabile confusione di competenze e gli inevitabili attriti non solo sul piano burocratico, ma anche su quello politico. Il gabinetto Rumor (1973-1974) aveva tentato una direzione collegiale dell'economia (la cosiddetta ‛troika'), dissoltasi su un problema non fondamentale, ma indicativo di un contrasto di fondo fra opposti punti di vista sulla soluzione della crisi economica, sulla lotta all'inflazione e sulla spesa pubblica. Proprio la recente esperienza italiana mostra quanto sia delicata la correlazione fra programma, bilancio e attività della pubblica amministrazione in generale.
Si è ritenuto in un primo momento, in una visione ‛illuministica' ma alquanto distaccata dalla realtà, che la stesura del piano garantisse di per sé la razionalizzazione delle scelte pubbliche. In seguito si è dovuto constatare, però, quanto delicato e difficile sia il problema del pur necessario raccordo fra i diversi organi e rami della pubblica amministrazione, per evitare quella che potrebbe essere definita la ‛reazione di rigetto' al piano presentata dal sistema.
È da ritenere che tale fenomeno non possa essere imputato a una supposta ‛cattiva volontà' della pubblica amministrazione (come pure, piuttosto semplicisticamente, si è tentato di fare). Le cause, in realtà, sono molto più complesse ed esigono complessi rimedi.
Non esistono, e perciò non si possono scoprire, formule miracolose: occorre stabilire con infinita cura i necessari collegamenti, ricercare con attenzione le opportune forme di coordinamento, sulla cui necessità non possono sussistere dubbi. Occorre, quindi, assicurarsi di continuo del buon funzionamento e del costante miglioramento dei collegamenti stessi.
La seconda conseguenza dell'intervento statale nell'economia consiste nella progressiva espansione, negli Stati moderni, dell'attività finanziaria, sia per quanto riguarda il prelievo di quote crescenti di reddito, con tributi diretti e indiretti che incidono sulla produzione e sui consumi dei privati; sia per quanto riguarda l'attività di spesa, nelle varie forme di erogazioni, o per stipendi e pensioni, o per acquisto di beni, o per sovvenzioni a famiglie e imprese, o per contribuzioni alle collettività minori (autarchiche), le quali così alimentano gran parte della propria attività; sia, infine, per quanto riguarda i controlli sull'attività creditizia degli istituti di credito e degli altri intermediari finanziari, fra i quali si colloca la stessa tesoreria statale. Da ciò deriva la crescente importanza dell'amministrazione finanziaria nel suo complesso (amministrazioni fiscali in senso proprio, amministrazione del bilancio comunque denominata, tesoreria), nonché degli organi destinati al controllo sulla gestione del pubblico danaro.
È facile constatare come siano ricorrenti le considerazioni circa l'aumento della spesa, la sua articolazione qualitativa, la distribuzione del carico fiscale, la progressione dei pubblici disavanzi. Sotto l'aspetto quantitativo, si constata il fenomeno di una spesa pubblica il cui rapporto con il reddito nazionale rivela un andamento sempre crescente. Ciò fa sorgere, a sua volta, un duplice problema: quello dei limiti politici, psicologici ed economici, che si pongono a questo spostamento dai consumi privati ai consumi pubblici, e quello della ripartizione perequata dell'onere derivante dal finanziamento di crescenti volumi di spesa, e della ricerca nel campo fiscale di adeguati strumenti tecnici.
Non è un mistero per alcuno che nel nostro paese, più che in altri, tali strumenti sono rozzi e arcaici, il che provoca un preoccupante aumento del ‛costo psicologico', conseguente alla continua constatazione di spettacolari evasioni e della ingiusta distribuzione del carico fiscale. L'insoddisfazione del cittadino è, infatti, duplice: in primo luogo, egli si ritiene ingiustamente tassato, e non solo in senso assoluto, ma anche in rapporto ad altri contribuenti; in secondo luogo, ritiene cattiva e antieconomica la gestione del pubblico danaro ed errata la sua destinazione.
Di qui, la necessità della riforma tributaria appena entrata in vigore e della sua attuazione completa da parte dell'amministrazione finanziaria, chiamata a risolvere problemi giuridici, amministrativi e tecnici (anagrafe tributaria), in gran parte nuovi.
Per quanto riguarda i limiti economici si può osservare che la misura del peso dello spostamento di risorse dal settore privato a quello pubblico non può essere valutata in astratto. Un giudizio sulla congruità del prelievo non può essere, difatti, dissociato dalla considerazione della progressiva espansione dell'attività dello Stato, nonché dell'utilità dei servizi pubblici.
Del resto, aumento quantitativo e specificazione qualitativa non sono se non le due facce di un medesimo fenomeno; in tutti i paesi il collegamento fra aumento del reddito e crescente incidenza della spesa pubblica appare proprio come una conseguenza necessaria dei mutamenti intervenuti nella direzione impressa alla spesa stessa. In concomitanza col crescere del reddito, cresce la domanda dei servizi sociali, in certo senso aggiuntivi, rispetto ai tradizionali servizi; in concomitanza con lo svilupparsi dei sistemi economici, più evidenti appaiono le carenze dei meccanismi di mercato e più avvertita l'esigenza di un intervento dello Stato.
Questi processi, del resto, non avvengono senza lotte e resistenze sociali, e nell'intraprenderli con successo la classe politica e amministrativa gioca la più importante delle sue partite.
Acquistano importanza crescente i problemi tanto dibattuti dalla dottrina politica e da quella sociologica. Come l'antica dottrina cameralista si allarga, si trasforma e si articola nello studio dell'attività finanziaria, in senso lato, dello Stato, e gli studi giuridici sfociano nel diritto pubblico dell'economia, così più complessi e difficili diventano i problemi dei rapporti fra l'attività puramente amministrativa e quella politica vera e propria, diventando sempre più frequenti le occasioni e i luoghi d'incontro tra le due sfere d'azione nel momento delle decisioni e delle scelte. Nello stesso tempo, lo studio sociologico della burocrazia, superando il classico schema weberiano, deve arricchirsi, ampliarsi e articolarsi per tener conto della mutata realtà e del differenziarsi delle funzioni: da quelle amministrative a quelle tecniche, finanziarie, economiche e programmatorie, a quelle di controllo e infine a quelle ‛giudicanti'. Queste ultime tendono poi, dovunque, ad ampliarsi, fuori dei limiti tradizionali, in attività di controllo giudiziario, non solamente di legittimità, ma anche di merito, sulla vasta gestione pubblica, statale e non statale. Si noti la sequenza delle trasformazioni.
Dal sistema amministrativo patrimoniale proprio della società feudale, caratterizzata dai rapporti di autorità (e di insofferenza) intercorrenti tra il signore e il vassallo, si passò gradualmente, attraverso la ristrutturazione e la centralizzazione dei servizi amministrativi propri delle monarchie assolute, nelle quali il pubblico funzionario era il servitore della corona e del principe, al sistema di amministrazione pubblica propria dello Stato moderno, nel quale il servizio alla corona si trasforma in un rapporto di pubblico impiego.
A tale fase si riferisce l'analisi weberiana, nel suo modello ideale di burocrazia. Ma lo schema weberiano andava bene per una burocrazia operante nei limiti della tradizionale attività dello Stato; esso si palesa inidoneo a rappresentare la nuova classe di funzionari, specialmente quella che opera ai vertici dell'amministrazione: una categoria di ‛tecnocrati', posti non più ad eseguire ordini o direttive politiche provenienti dall'alto, bensì chiamati a manovrare, sulla base di deleghe sempre più generali e vaghe, delicate leve di comando e di interferenza nella vita economica nazionale. Di qui l'esigenza di un'analisi sotto molti aspetti nuova.
Si vuol ricordare, da ultimo, che se la scienza del diritto amministrativo (scienza giuridica) si è affaticata a elaborare ‟teorie generali, come quella del procedimento o come quella dell'organizzazione", nonché ‟istituti quali la gerarchia e la competenza" (Benvenuti), non è men vero che il puro metodo giuridico si appalesa inadeguato, per le stesse considerazioni fatte all'inizio di questo articolo, a spiegare e a valutare l'intero fenomeno della pubblica amministrazione. E di ciò si è tenuto conto nella disamina dell'argomento.
b) Pubblica amministrazione in senso oggettivo
Ove si consideri la pubblica amministrazione sotto il profilo oggettivo, diventa subito necessario, ma anche assai difficile, tentare una classificazione delle attività amministrative.
È anzitutto erroneo, o almeno impreciso, considerare l'attività amministrativa come mera esecuzione della legge. Qui vale l'assimilazione con l'attività dei privati cittadini e, nello stesso tempo, l'identificazione delle caratteristiche differenziali. Come per l'attività dei privati la legge pone ‛vincoli' e ‛limiti' al fare e anche ‛obblighi' di fare, per l'attività dell'amministrazione determina in più i ‛modi', cioè i procedimenti attraverso i quali l'azione amministrativa si svolge. Ma, a differenza di quanto accade per i privati, la volontà del legislatore indica pure i ‛fini' dell'azione amministrativa. Per il conseguimento di questi ultimi, che taluno definisce ‛interessi pubblici', e con il rispetto dei vincoli sostanziali e formali, l'amministrazione si svolge ‟secondo un libero e discrezionale apprezzamento circa il miglior modo di conseguirli" (Forti). Quindi l'attività amministrativa consiste in ‟attività pratica, in attività operativa di effetti nel mondo esterno" (Forti). In ciò si caratterizza e si distingue sia dall'attività legislativa, che elegge i fini e stabilisce, con carattere di generalità, vincoli, limiti, obblighi e forme, sia dall'attività giurisdizionale che mira a garantire e accertare l'osservanza della norma.
Ma, tornando all'attività amministrativa, l'accennata difficoltà di classificazione cresce, come si vedrà in seguito, ove si tenga conto della enorme estensione dell'attività dello Stato (e, comunque, di altri enti pubblici autarchici). Nella breve disamina che tenteremo, saranno lasciate da parte, per motivi diversi, tanto l'attività della magistratura, quanto quella dei corpi militari; sarà invece inclusa l'attività degli enti di diritto pubblico (ma non quella delle imprese organizzate secondo le norme di diritto privato).
A parere di chi scrive deve distinguersi anzitutto, nell'attività dell'amministrazione, per la sua importanza, un'attività programmatoria, la quale non necessariamente si concentra soltanto negli organi o uffici della programmazione in senso stretto, ma si rileva anche in altri organismi, specialmente in quelli preposti al governo della spesa pubblica (organi del bilancio: in Italia, specialmente gli uffici della Ragioneria Generale dello Stato) e in tutti quegli uffici che nell'ambito dei singoli settori di attività e, quindi, soggettivamente considerati, nell'ambito dei singoli ministeri, sono addetti alla preparazione di piani settoriali: agricoltura, lavori pubblici e così via.
L'attività di direzione (o di alta amministrazione) si esplica quando, sulla base degli obiettivi prefissati dal programma (o dai programmi), ci si muove, organizzando i mezzi umani e finanziari disponibili, per il conseguimento di tali fini.
L'attività amministrativa, in senso stretto, si esplica lungo le direttive segnate, curandone l'esatto adempimento e la utilizzazione migliore di uomini e di mezzi nel quadro organizzatorio esistente.
I primi due momenti, quello programmatorio e quello direttivo, pur essendo di carattere prevalentemente tecnico, sono quelli sui quali più largamente incide la valutazione politica. Non è certamente solo un fatto tecnico la prevalenza da dare alla costruzione di centrali termonucleari rispetto a quelle termoelettriche e viceversa, o alla intensificazione delle colture cerealicole. Nelle due attività sopra accennate l'opera dei funzionari è costantemente a contatto con quella dei politici: gli uni collaborano o addirittura partecipano con gli altri alle decisioni, e questo fatto pone non pochi e non facili problemi di confini, di competenze e di responsabilità.
L'attività di programmazione, pur partendo, specialmente nelle economie moderne, da sofisticati supporti tecnici, o forse proprio per questo, non può ridursi alla semplice presentazione di scelte alternative, sulle quali alla fine l'organo politico decide. Ma in tutto il processo della programmazione, dalla scelta di quelle che si chiamano ipotesi-obiettivo (ad es. il tasso di crescita del reddito nazionale) alla identificazione dei vincoli (ad es. l'equilibrio della bilancia dei pagamenti), deve porsi in atto un continuo passaggio dal momento tecnico al momento politico, dalle elaborazioni statistico-economiche alle decisioni politiche, un progredire dalle linee generali del programma a quelle via via più concrete, o addirittura, come adesso si tende a preferire, ai ‛progetti' (programmazione per progetti).
Si è accennato all'importanza delle decisioni relative alla spesa pubblica e in genere alla finanza pubblica. Non si vuole qui aprire una discussione sui rapporti fra spesa pubblica e programmazione; forse sarebbe più esatto dire che esse si condizionano a vicenda, rappresentando due facce della stessa realtà: la faccia o l'aspetto finanziario essendo costituito dalla spesa pubblica e l'aspetto reale essendo rappresentato dalla programmazione. Ci si può attenere alla formula corrente che vede nella spesa pubblica uno strumento del programma.
Ma non è possibile trascurare l'importanza delle decisioni che in questo settore debbono essere adottate: ad esempio, sull'entità del pubblico disavanzo, sui metodi per finanziarlo, sulla creazione di ‛base monetaria'; qui le decisioni di bilancio si incontrano (e dovrebbero coordinarsi) con quelle della tesoreria e della banca centrale. Se questi quattro centri decisionali - programma, bilancio, tesoreria e banca centrale - fanno sistema, la natura della loro attività non dovrebbe differenziarsi dal punto di vista qualitativo, nemmeno per quanto riguarda i problemi, sopra indicati, dei rapporti tra la sfera dell'azione amministrativa e quella dell'azione politica.
Ma qui occorre ritornare su un fenomeno che sarà costante tema di riferimento nel corso di questo articolo: la profonda trasformazione delle funzioni dello Stato (e delle collettività locali), cioè il sempre crescente inserimento dello Stato nel mondo dell'economia.
Questo fenomeno è stato sinteticamente indicato (dal Guarino) come il passaggio dallo Stato ‛limitato' allo Stato ‛responsabile', ed è sottolineato da qualsiasi cultore di economia o di diritto pubblico. In questo articolo debbono essere messi in evidenza la conseguente trasformazione che si produce nell'attività della pubblica amministrazione e alcuni contrasti che ne derivano con i modelli fino ad ora accettati.
c) Pubblica amministrazione in senso soggettivo
Per quanto riguarda l'organizzazione amministrativa, intesa in senso soggettivo, essa non si identifica né con lo Stato, né con quella parte di esso che viene definita, seguendo lo schema classico della divisione dei poteri, come l'‛esecutivo'. Anzitutto occorre ricordare che il concetto di pubblica amministrazione si pone anche nei confronti degli ‛enti autarchici territoriali' (i cosiddetti ‛enti ausiliari dello Stato'), nonché delle persone giuridiche pubbliche. Questi due gruppi di enti vengono anche indicati come costituenti ‛l'amministrazione indiretta' dello Stato. In secondo luogo, il momento amministrativo, o, se si vuole, la funzione amministrativa, è presente anche negli altri due poteri statali: il legislativo ed il giudiziario (per es., la cosiddetta ‛volontaria giurisdizione').
Come l'amministrazione statale si distingue in amministrazione centrale e locale, essendo quest'ultima gerarchicamente subordinata alla prima e manifestazione del fenomeno di ‛decentramento' (amministrativo), così gli enti pubblici a carattere nazionale - poiché esistono anche enti pubblici con più limitata sfera di azione territoriale - possono organizzarsi, e spesso si organizzano, in amministrazione centrale e periferica.
Il modello organizzativo della pubblica amministrazione, nello Stato moderno, è ben descritto dal Guarino nelle sue caratteristiche essenziali: ‟applicazione di una disciplina in via di principio uniforme per tutte le parti componenti il complesso organico della P. A.; raggruppamento degli uffici in una pluralità di sub-organizzazioni a struttura piramidale (principio della pluralità dei ministeri); inquadramento degli uffici in tali sub-organizzazioni in base a criteri ben definiti di omogeneità (principio della divisione delle funzioni); unione reale tra il capo di ogni ministero ed il titolare dell'organo politico tipico (ministro); coordinamento e insieme contenimento dell'attività dei vari dicasteri a mezzo di istituti giuridici vari (pareri, concerti, ecc.) o nell'ambito di organi collegiali, amministrativi (comitati burocratici) o politici (Comitati interministeriali e, al vertice dell'organizzazione, Consiglio dei ministri); esclusione di organi od uffici attivi e centrali, privi di personalità giuridica, che non siano raggruppati in ministeri e che sfuggano quindi alla direzione del ministro; dipendenza gerarchica di ciascun complesso organico periferico dal ministero competente per le corrispondenti materie; applicazione del principio gerarchico anche all'interno di ciascun complesso organico, centrale o periferico, o di parte degli stessi; i rapporti con i dipendenti sono disciplinati con l'istituto del pubblico impiego, sulla base di ruoli precostituiti e di una classificazione uniforme delle funzioni; lo stato giuridico ed economico è in via di principio eguale per tutti i dipendenti; i funzionari più elevati, pur nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, sono scelti e restano in funzione in base ad un rapporto largamente fiduciario; per gli appartenenti alla generalità degli uffici vige il principio della totale apoliticità delle nomine e delle promozioni, nomine e promozioni che devono, invece, disporsi per concorso o a mezzo di altre procedure amministrative di tipo concorsuale; la competenza della P. A. si compone di poteri amministrativi discrezionali e di fattispecie amministrative vincolate; devono osservarsi principi ben definiti nell'esercizio dei poteri discrezionali, diretti a salvaguardare le esigenze dell'acquisizione della più completa informazione prima della decisione, della coerenza, dell'imparzialità e dell'esternazione del processo deliberativo; l'azione della P.A. si estrinseca corrispondentemente in una attività di diritto pubblico, e nei rari casi in cui è ammessa l'utilizzazione di istituti privatistici, questa a sua volta trae origine e trova sbocco in procedure amministrative; le norme disciplinari della P.A. sono di norma poste nell'interesse generale, e danno luogo ad interessi legittimi; gli atti amministrativi hanno una propria autonoma disciplina dei vizi; in caso di contrasto tra fattispecie concreta e fattispecie normativa, l'ipotesi della invalidità prevale su quella della inesistenza; i vizi degli atti presupposti si riflettono sugli atti anteriori; gli atti invalidi hanno la stessa efficacia di quelli validi sin quando non siano eliminati con le forme e con le procedure stabilite; l'atto amministrativo non può essere disapplicato dalla P.A., quand'anche sia invalido, ma può essere annullato d'ufficio o revocato se ricorrano i presupposti per l'esercizio di questi poteri; sono previsti ricorsi contenziosi ed è concesso, coperto da garanzia costituzionale, il ricorso alle giurisdizioni ordinaria e amministrativa, aventi rispettivamente poteri di disapplicazione e di annullamento e abilitate alla tutela in via di principio l'una dei diritti soggettivi, l'altra degli interessi legittimi; quanto ai mezzi finanziari, la P. A. ha il potere di procurarseli, tra l'altro, con il prelievo tributario, così come, più in generale, essa può imporre prestazioni a terzi; sono rigidamente distinte le procedure per il procacciamento e quelle per l'erogazione dei mezzi finanziari; il procacciamento è accentrato in un singolo sub-complesso organico, negandosi in via di principio ai dicasteri entrate proprie; il bilancio è unico ed è preventivo, rigido, analitico; non v'è spesa che possa essere disposta ove manchi il relativo stanziamento; controlli generali, di legittimità e di regolarità contabile, sono affidati ad organi dotati di propria autonomia nell'ambito stesso della P. A. (Ragioneria e Corte dei conti); tutti gli appartenenti agli uffici della P. A. sono o pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e, per tali qualità, sono soggetti all'applizione di una particolare disciplina penale, attiva e passiva; e così via" (v. Guarino, 1970, pp. 9-10).
Esistono, naturalmente, deroghe particolari. Si pensi, ad esempio, all'organizzazione militare (della quale - ripetiamo - qui non ci si occupa) o a quella di talune amministrazioni, per esempio degli affari esteri e della diplomazia. Altre deroghe si hanno mediante la creazione, nel seno delle amministrazioni, delle cosiddette ‛aziende autonome' aventi o no personalità giuridica propria, ma sempre riconducibili, in genere, al modello organizzativo comune, al quale è pure riconducibile la figura dell'‛ente pubblico' incaricato di svolgere particolari funzioni.
Meritano rilievo le considerazioni del Guarino al riguardo: egli nota che nei tempi più recenti si sono creati enti pubblici che si sottraggono per intero alla disciplina delle pubbliche amministrazioni, e costituiscono, quindi, modelli organizzatori del tutto distinti; che esiste una disciplina generale, applicabile indistintamente a tutti gli enti pubblici, fondata su taluni principi comuni (ad es., per quanto riguarda il potere di vigilanza e quello di nomina di commissari); che si sono venuti formando, tuttavia, modelli diversificati di organizzazione, abbraccianti una gamma estesa, dal modello classico della pubblica amministrazione al modello azienda di Stato, ai modelli corrispondenti ai vari tipi di enti pubblici.
La rivoluzione più importante, sul piano concettuale almeno, se non ancora sul piano operativo, è costituita dallo spostarsi dell'attenzione dal principio della mera legittimità dell'operato della pubblica amministrazione a quello dell'‛efficienza'; principio, quest'ultimo, che senza sostituirsi o sovrapporsi al primo, si affianca, però, ad esso. Purtroppo, l'attenzione è attratta (e allarmata), oggi, dal progressivo decadimento dell'efficienza dei servizi pubblici e dell'amministrazione pubblica in genere, ma proprio per ciò si determina questo orientamento di fondo della dottrina e della pubblica opinione, nel senso sopra indicato.
Se ‛efficienza' è la capacità di produrre un dato effetto e cioè di raggiungere i risultati che si attendono dall'azione amministrativa (Zingarelli), la misura dell'efficienza può essere espressa dal rapporto fra i risultati ottenuti e i mezzi impiegati per ottenerli (Onofri). Di qui nasce il problema, espresso in taluni documenti ufficiali, del controllo sull'efficienza della pubblica amministrazione. Questi temi, dell'efficienza, della sua misura e del suo controllo, si pongono in maniera tanto più acuta e urgente, quanto più si diffonde la consapevolezza della perdita di efficienza accusata dalla pubblica amministrazione (in particolare in Italia, ma anche altrove), per una serie di fattori concomitanti, in parte legati alla rapida e rilevante estensione dei compiti che all'amministrazione vengono affidati, in parte all'irrigidimento crescente delle sue strutture.
È comunque notevole questo mutamento di prospettiva, che si sposta dalla considerazione dell'azione amministrativa sotto gli aspetti puramente formali della legittimità o sotto quelli più concreti, ma sempre riferibili alla convenienza amministrativa in senso stretto, dell'impiego parsimonioso dei mezzi disponibili, alla valutazione dei risultati conseguiti dall'attività amministrativa. Nella stessa direzione si sposta la discussione sui controlli.
Parallelamente assumono rilievo, specialmente nel sistema italiano, da una parte l'organizzazione a sistema delle imprese a partecipazione statale, dall'altra la strutturazione degli organi di programmazione. Di entrambi questi temi si dirà in seguito.
d) La ‛burocrazia' e i suoi problemi
Si è detto che spesso l'espressione ‛pubblica amministrazione' è considerata sinonimo di burocrazia, sebbene questo secondo termine abbia assunto sovente sfumature spregiative, che si riscontrano anche nell'origine storica della parola, che risale ai fisiocrati e precisamente al de Gournay. In realtà la parola è ambigua, potendo indicare tanto un tipo di amministrazione mediante uffici (bureaux), piuttosto che mediante organi collegiali, quanto il fatto degenerativo del potere dei capi e del personale degli uffici governativi.
A grandi linee si possono contraddistinguere il sistema angloamericano e quello europeo continentale (italiano, francese e tedesco).
Il primo modello ha fra le proprie caratteristiche quella per cui il funzionario non è titolare di alcuna parte di autorità e i suoi rapporti con lo Stato sono regolati dal diritto privato, sia pure con particolare modificazioni. Il secondo modello è contrassegnato dal carattere pubblicistico del pubblico impiego. Il sistema inglese si fonda sulla ‛neutralità' politica e sul non intervento dei membri del governo nell'amministrazione della burocrazia, nonché sulla stretta associazione del personale alle determinazioni delle sue condizioni di impiego. Negli Stati Uniti d'America, al vecchio sistema delle ‛spoglie' si è sostituito il criterio del merito, per altro in una organizzazione strutturata esclusivamente per ‛posti di lavoro', che esclude l'idea di carriera.
Nel modello europeo, viceversa, il carattere pubblico del rapporto d'impiego, la struttura gerarchica, la disciplina unitaria del personale, l'esistenza di una giurisdizione amministrativa, sono tutti elementi volti a garantire la legalità dell'azione amministrativa e le sue caratteristiche di imparzialità e di ‛buon andamento' (cfr. art. 97 della Costituzione italiana).
È stato osservato che tra i due sistemi sopra indicati le differenze sono notevoli su tre punti fondamentali: i metodi di reclutamento e di amministrazione del personale; il ruolo dei sindacati del pubblico impiego; le relazioni tra funzionari e governanti.
Per quanto riguarda il primo punto è ovvio che la differenza non investe i principi, ma i modi con i quali riuscire a garantire la scelta dei più idonei e la carriera dei migliori. Sono, questi, problemi importantissimi e di delicata soluzione, a proposito dei quali l'ampia letteratura esistente non ha portato a conclusioni univoche. Né può essere taciuta l'importanza, come meglio si dirà in seguito, della preparazione scolastica dei futuri dipendenti dello Stato e dell'idoneità della scuola a fornire tale preparazione, nonché dei corsi di aggiornamento, di formazione e di perfezionamento, che si possono organizzare in seno all'amministrazione.
In Gran Bretagna si procede mediante direttive assai flessibili e mediante l'intervento della Commissione del Pubblico impiego; nel continente le assunzioni si fanno prevalentemente o esclusivamente sulla base di pubblici concorsi e i meccanismi di carriera sono rigidamente vincolati e sottoposti ai controlli amministrativi e giurisdizionali. A propostito dei concorsi in Italia si è discusso circa l'opportunità di modificarli, almeno per le carriere direttive, sostituendo alla procedura attuale degli esami scritti e orali, concorsi per titoli e per esami o anche per soli titoli, nei quali si tenga debito conto della carriera scolastica dell'aspirante.
In Italia, durante il periodo fascista, e in Francia, fino al 1946, era proibita la costituzione di sindacati nel pubblico impiego. In Italia, attualmente, rappresentanti delle associazioni sindacali partecipano ai lavori dei consigli di amministrazione dei ministeri, e fanno parte del Consiglio Superiore della Pubblica Amministrazione, organo, peraltro, almeno fin qui, scarsamente operante.
Quanto ai rapporti fra funzionari e governanti, mentre in Gran Bretagna, come si è detto, si è conseguito un soddisfacente equilibrio, in Francia e in Italia si sono lamentate infiltrazioni politiche nella pubblica amministrazione. In particolare, in Italia sono state emanate specifiche norme volte ad evitare, da una parte, l'ingerenza politica nelle nomine e nelle promozioni dei funzionari (ma le nomine dei funzionari di grado più elevato, da direttore generale in su, sono di competenza del Consiglio dei ministri), dall'altra a garantire il rispetto di autonome sfere di competenza nell'ambito della pubblica amministrazione.
In particolare è previsto che: 1) nel riordinamento delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato sia, di norma, osservato il criterio di configurare le competenze dei vari uffici, in modo che si realizzi nei confronti dei capi di uffici equiparati una sostanziale parità qualitativa di attribuzione di compiti e di responsabilità, anche in relazione all'eguaglianza di retribuzione prevista dal nuovo ordinamento; 2) siano attribuiti alla competenza dei direttori generali (ora ‛dirigenti generali') gli atti vincolati, di maggiore rilevanza, compresi quelli che comportano impegni di spesa, nonché quelli che si risolvono in un apprezzamento meramente tecnico e quelli discrezionali, ma di ‛limitato rilievo', da adottare in attuazione di direttive generali formalmente impartite dal ministro (salvo facoltà di avocazione e anche di annullamento e di revoca, spettante al ministro stesso in determinati casi); gli atti vincolati di minore rilevanza sono attribuiti alla competenza di funzionari aventi qualifica inferiore; 3) vengano riordinati i servizi periferici dell'amministrazione, riducendone il numero (in conseguenza del trasferimento di competenze alle Regioni), ma trasferendo ad essi gran parte dei poteri decisionali prima spettanti all'amministrazione centrale, anche con carattere definitivo, cioè con esclusione di possibilità di ricorso in via gerarchica (ma sono sempre, ovviamente, ammessi i rimedi in via giudiziaria, secondo la Costituzione).
2. Problemi organizzativi della pubblica amministrazione
a) L'attività di programmazione e gli organi del programma
I precedenti più remoti della programmazione economica in Italia possono essere fatti risalire: 1) ai ‛piani di importazione' redatti dalle autorità italiane allo scopo di meglio utilizzare le risorse messe a disposizione del nostro paese e della sua economia con i diversi programmi di aiuto, fra il 1945 ed il 1946 (soprattutto con gli aiuti detti UNRRA ed ERP); 2) allo ‛schema di sviluppo dell'occupazione e del reddito in Italia, nel decennio 1955-1964', meglio conosciuto come ‛schema Vanoni', dal nome del suo ideatore e animatore, che lo presentò nel 1954. Al momento della presentazione dello ‛schema', i mutamenti intervenuti nel sistema, grazie a uno sviluppo imprevedibilmente rapido, avevano però messo in luce nuovi problemi strutturali, come il permanere di un gran numero di lavoratori disoccupati e l'accentuarsi dello squilibrio fra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Quindi gli obiettivi indicati nello schema furono: la creazione di posti di lavoro ‛fuori' dell'agricoltura e l'attuazione di un sistema di infrastrutture nel Mezzogiorno, per favorire l'installazione di attività industriali. Fu indicato, come condizione per il conseguimento di quegli obiettivi, il contenimento dei consumi a favore degli investimenti.
I precedenti più vicini dell'attività di programmazione furono i seguenti: 1) ‛la nota aggiuntiva' presentata al Parlamento nel 1962 dall'onorevole La Malfa, in aggiunta alla ‛Relazione economica generale' presentata al Parlamento, nello stesso anno, dai ministri del Tesoro (Tremelloni) e del Bilancio (lo stesso La Malfa); nel paragrafo 4 di questa ‛nota', significativamente intitolata Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, si individuano gli obiettivi della programmazione: a) approntare gli strumenti di un possibile intervento dello Stato che venisse richiesto dalla necessità di provocare uno sviluppo globale sulla base di ritmi altrettanto elevati di quelli che si erano verificati in passato; b) accelerare opportunamente il processo di superamento dei tradizionali squilibri fra regioni avanzate e regioni arretrate; c) orientare l'evoluzione economica e sociale, in modo da soddisfare le esigenze di civiltà democratica e di progresso; 2) ‛programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970' (approvato con la legge 27 luglio 1967, n. 685, ricordato al cap. 1); quivi gli obiettivi indicati nella ‛nota' del 1962 appaiono specificati in termini quantitativi (aumento del reddito nazionale in termini reali nella misura del 5% in media all'anno; aumento del prodotto lordo dell'agricoltura nella misura del 2,8-2,9% in media all'anno; aumento, nel quinquennio, dell'occupazione extra-agricola di 1,4 milioni di unità; localizzazione nel Mezzogiorno del 40-45% dei nuovi occupati extra-agricoli; aumento degli impieghi sociali del reddito a un livello del 26-27% delle risorse interne disponibili).
Si ebbe cura di indicare anche i ‛vincoli' da riscattare nel conseguimento degli obiettivi sopra ricordati: sostanziale stabilità del livello dei prezzi e tendenziale equilibrio dei conti con l'estero, in un sistema di ‛economia aperta'.
L'attività di programmazione economica ha trovato, in Italia, la sua collocazione, come è noto, nel Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, in forza della legge 27 febbraio 1967, n. 48, che modificò, nella denominazione e nei compiti, il vecchio Ministero del Bilancio istituito con d.l. C.p.s. del 4 giugno 1947, n. 407.
Il ministro per il Bilancio e la Programmazione Economica, sulla base delle leggi indicate e di altre emanate in seguito, in proprio e quale vice presidente del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (presidente è lo stesso presidente del Consiglio dei ministri), è il centro motore dell'attività di programmazione con funzioni di amministrazione attiva e di controllo. A tal fine, coadiuvato dal segretario generale per la programmazione economica, e, ove occorra, d'intesa con gli altri ministri competenti, in particolare con quello per il Tesoro, con quello per le Partecipazioni Statali e con quello per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, è investito di particolari attribuzioni per quanto riguarda: il bilancio di previsione dello Stato, alcune importanti leggi di entrata e di spesa dello Stato, i programmi di investimento, i maggiori progetti di investimento per la creazione di nuovi impianti industriali o di ampliamento di impianti preesistenti da parte di imprese private di maggiori dimensioni o a partecipazione statale, gli interventi ‛straordinari' nel Mezzogiorno.
L'attività di programmazione, che si incentra nel ministro e nel segretario generale, si avvale, oltre che degli organi burocratici (in particolare la direzione generale per l'attuazione del programma), di organi; consultivi quali lo stesso CIPE, il comitato tecnico scientifico e il comitato interregionale. Nè si può dimenticare l'esistenza dell'ISTAT (Istituto Centrale di Statistica), dell'ISPE (Istituto di Studi per la Programmazione Economica) e dell'ISCO (Istituto di Studi sulla Congiuntura), operanti nell'ambito del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica.
b) Caratteristiche dell'attività di programmazione
Una caratteristica della programmazione sta nel fatto che essa non limita i suoi orizzonti agli strumenti d'intervento dello Stato nell'economia. Anzi, il piano presenta tra le sue variabili il risparmio, i consumi e gli investimenti privati accanto a quelli pubblici, e non si limita ad accettarli come un dato imposto dal di fuori, ma ne prevede una dinamica influenzata e indirizzata.
L'origine della programmazione nei paesi occidentali è stata correttamente identificata nel ‟desideno di comprendere l'economia come un tutto" (Timbergen). Di qui l'evidenza data alle interdipendenze dei vari settori produttivi e dei vari fatti economici. Decisivi sono stati per la sua evoluzione e la sua espansione i progressi registrati dalla statistica, dalla contabilità nazionale e dalla econometria (impiego dei cosiddetti ‛modelli.').
Non meno decisivo nell'orientare l'opinione pubblica e i governi dei vari paesi verso la programmazione è stato il progresso tecnico dei mezzi produttivi: nei diversi rami dell'attività produttiva la complessità crescente delle ricerche, dell'apprestamento dei nuovi modi di produrre e quindi il crescente ammontare dei mezzi finanziari occorrenti impongono una previsione anticipata sull'entità della domanda, che può essere fatta solo in un quadro di previsioni globali, come del resto avevano chiaramente previsto il Pareto e il Barone.
È facile comprendere la quantità di problemi che una tale attività pone sul piano amministrativo e dei quali la recente esperienza italiana ci offre significativi esempi. Gli organi della programmazione si pongono al centro di una serie di rapporti che interessa non solo l'attività delle singole amministrazioni dello Stato, delle Regioni e delle Aziende autonome, ma altresì delle imprese alle quali il capitale pubblico partecipa più o meno ampiamente, come pure delle imprese private. Proprio per il carattere necessariamente ‛globale' della programmazione, anche se essa tende oggi a ripiegare su una formula di ‛programmazione per progetti' o per ‛obiettivi', l'attività di programmazione si imprime di una forte carica politica; il ministro titolare di questa attività necessariamente tende ad essere considerato come ‛sovraordinato' agli altri, il che pone problemi di carattere costituzionale, come osserva il Guarino, soprattutto nei confronti dell'attività di coordinamento che la Costituzione assegna al presidente del Consiglio (art. 95 della Costituzione). Le recenti difficoltà attraversate dal nostro paese e l'esperienza di paesi quali la Francia e la Repubblica Federale Tedesca, hanno portato taluni (e anche l'autore di questo articolo) a vagheggiare la nomina di un ‛ministro dell'economia'; ma tale soluzione varrebbe a risolvere taluni conflitti di competenza (ad es., organi della programmazione e tesoreria), ma non l'antinomia costituzionale di un ‛superministro' nei riguardi del presidente del Consiglio. Ove non si accetti la proposta del Guarino, che pensa a un ministro ‛senza portafoglio' delegato dal presidente del Consiglio a sovraintendere agli organi della programmazione, occorre riflettere su formule organizzatorie diverse.
Così non c'è dubbio che l'attività di programmazione, quando investa specifici campi di competenza di altre amministrazioni statali, chiede la partecipazione attiva e la collaborazione di queste amministrazioni, che dovranno poi essere responsabili esecutrici del programma economico, sulla base di appropriate ‛leggi di programma', ossia di leggi che traducano i principi e le direttive espressi nel piano in norme vincolanti l'attività delle amministrazioni stesse e dei privati (ciò implica, fra l'altro, riconoscere che fu un errore in Italia approvare con una legge formale del Parlamento il piano economico 1966-1970).
Ancora più delicato è il rapporto fra organi del programma e imprese private. Si premette che, per quanto riguarda le imprese a partecipazione statale, delle quali si parlerà meglio più avanti (v. §§ f, g), l'ordinamento del nostro paese prevede un sistema coordinato di poteri di intervento e di sfere di autonomia delle imprese. Per i privati, al di là dei dibattiti economici e delle valutazioni politiche sull'equilibrio fra la sfera dell'attività pubblica e quella dell'attività privata, si deve tener presente il precetto costituzionale che afferma il principio dell'iniziativa privata (art. 42).
Quindi la programmazione economica si trova davanti ad alcune alternative, quali, ad esempio, quella di procedere attraverso una serie di ‛premi' e di ‛remore' (o, come si dice usualmente, di ‛incentivi' e di ‛disincentivi'), in modo da creare condizioni di particolare favore o di sfavore nei riguardi dei privati imprenditori, quando si dedichino a determinate attività produttive, a seconda che le si voglia incoraggiare o no, lasciando, per altro, agli operatori libertà e responsabilità di decisione. È possibile, per contro, procedere secondo il metodo introdotto anche nella nostra legislazione, e imporre agli operatori obblighi particolari (ad es. l'obbligo di comunicazione preventiva di programmi e di progetti, quando essi abbiano determinate dimensioni) e, quindi, subordinare l'attività produttiva ad un sistema di autorizzazioni o di ‛visti di conformità', quando programmi e progetti siano in linea con la programmazione globale. In questo secondo caso, però, deve porsi particolare attenzione al limite costituzionale: cioè gli organi di programmazione, pur potendo limitare, e anche orientare, le scelte imprenditoriali, non possono mai sovrapporre le proprie a queste.
Non sembra che si possa parlare di un vero e proprio terzo metodo nel caso della cosiddetta ‛contrattazione programmata', sebbene di questa si faccia menzione proprio in norme di diritto positivo (legge 16 X 1971, n. 853) e, prima ancora, in una delibera del CIPE, sulla base della quale furono istituiti due comitati, uno a livello tecnico e uno a livello politico. In realtà, più che di una forma di ‛programmazione' o di ‛contrattazione', per quel tanto di applicazione che di essa è stata fatta, sembra si sia trattato piuttosto di una serie di comunicazioni, da parte degli imprenditori da un lato e degli organi programmatori dall'altro, rispettivamente di progetti relativi ad iniziative industriali (in particolare nelle regioni meridionali) e di agevolazioni concretamente concedibili per favorirne l'attuazione.
Le vicende congiunturali italiane non sono state certo favorevoli, anche per la rapidità con la quale, negli anni dal 1960 in poi, il quadro di riferimento si è modificato e addirittura capovolto, passando dal cosiddetto ‛miracolo italiano' all'angosciosa situazione del 1974. Ma come risulta anche dalle dichiarazioni rese dai protagonisti dell'esperienza, e pur se non si condividano le opinioni da taluno espresse sulle cause delle difficoltà incontrate, non giustamente imputate a generica ‛cattiva volontà' di altri organi o uffici della amministrazione pubblica, non vi è dubbio che il quadro organizzatorio della programmazione vada riveduto e forse ripensato, sulla base della stessa esperienza italiana e dei modelli stranieri.
c) L'amministrazione della spesa pubblica
È evidente che, accettato il principio che la programmazione economica generale debba porre nuove condizioni nel processo di formazione del bilancio dello Stato, la soluzione più concreta e realistica debba essere ricercata nella introduzione in Italia di nuovi metodi di formazione del bilancio: ad esempio (sebbene non necessariamente, né esclusivamente) nel cosiddetto P.P.B.S., Planning Programming Budgeting System, un sistema già studiato e sperimentato in altri paesi, e al quale anche gli organi della Comunità Economica Europea hanno dedicato grande attenzione.
Gli elementi nei quali si articola il sistema di programmazione di bilancio non sono consolidati in teoria, né sono previste per il suo funzionamento norme di diritto positivo. La struttura del sistema oggi nota è perciò essenzialmente quella che si desume dalle applicazioni che esso ha avuto negli Stati Uniti. Da tale esperienza si desume che questo nuovo sistema si concreta in un collegamento diretto con la programmazione, sia a livello nazionale sia con riferimento ai singoli settori dell'amministrazione, in modo da consentire un miglioramento dell'efficienza della spesa pubblica nelle fasi della decisione, dell'esecuzione e del controllo.
Una prima e fondamentale caratteristica della programmazione di bilancio, quale si desume dalle esperienze già fatte e da quelle ancora in corso, consiste nell'adozione sistematica e generalizzata delle tecniche di ‛analisi economica', ai fini dell'adozione delle decisioni in materia di spesa pubblica. Queste analisi possono svolgersi in forme varie, proprie dell'‛analisi operativa' e dell'‛analisi di sistemi'; tra queste ultime l'espressione più tipica è costituita dall'‛analisi costi-benefici'. A sua volta, quest'analisi è fondata su un principio concettualmente abbastanza semplice: nel compiere una scelta si debbono porre a confronto, determinandoli quantitativamente, tutti i sacrifici e tutti i vantaggi che derivano alla collettività in conseguenza di quella scelta.
Un secondo aspetto della programmazione di bilancio è rappresentato dalla formulazione delle richieste di bilancio con riferimento agli elementi che hanno suffragato la scelta, e cioè la stima degli oneri che l'amministrazione deve affrontare e dei costi che vanno a carico della collettività, raffrontati con i maggiori proventi che derivano all'amministrazione e con i benefici che derivano alla collettività per un certo intervallo di tempo, comunque non inferiore a cinque anni. Direttamente dal precedente aspetto scaturisce la terza caratteristica del sistema, consistente nella formulazione del ‛bilancio per programma' (un tentativo che sta facendo la Regione lombarda per il proprio bilancio). In sostanza, si tratta di raggruppare le spese in relazione ai singoli progetti, o programmi, e quindi con riferimento agli obiettivi dell'azione amministrativa. Ciò non richiede necessariamente l'abbandono della specificazione delle spese in rapporto ai suoi oggetti (stipendi, attrezzature, contributi, ecc.).
Infine, il metodo di programmazione di bilancio assume, anche ai fini del controllo, l'ottica della realizzazione degli obiettivi. La prospettiva dei controlli, cioè, si volge verso l'‛efficacia' e l'‛efficienza' dell'azione spiegata per il conseguimento degli obiettivi fissati dalla legge. Ecco perché, nel quadro delle iniziative volte a rafforzare i controlli sulla spesa pubblica, occorre fare ricorso a strumenti che consentano di stimare in che modo i mezzi impiegati sono proporzionati agli obiettivi che si perseguono (controllo di efficienza) e se l'amministrazione si rivela in grado di soddisfare le esigenze che l'hanno determinata (controllo di efficacia).
Beninteso, le nuove forme di controllo non possono sostituire, ma debbono piuttosto completare i controlli tradizionali. Questi, anzi, vanno nello stesso tempo snelliti e rafforzati, per assicurarsi che veramente le spese siano conformi ai precetti di legge, che i limiti fissati dalla legge di bilancio e le norme procedurali siano rispettati e che, in definitiva, tutto il maneggio del denaro pubblico si svolga in modo corretto.
Il conte Camillo Benso di Cavour, nella relazione al suo disegno di legge del 1852 sull'ordinamento dell'amministrazione centrale, avvertiva che ‟gli atti più importanti dei governi sono quelli che si riferiscono al pubblico tesoro e devono quindi dare ai contribuenti, che sacrificano parte dei loro averi a pro dello Stato, l'assicurazione che quei denari si riscuotono legalmente e ricevono la loro destinazione
Di qui, l'importanza dell'amministrazione finanziaria e, in particolare, di quella responsabile del bilancio statale (da noi la Ragioneria Generale), affermatasi anche nel variare delle concezioni politiche e nel perfezionamento delle conoscenze economiche sull'importanza e sulle conseguenze della spesa pubblica. Non è dubbio che l'amministrazione finanziaria debba continuamente migliorare e aggiornare metodi e procedure; ma non può nemmeno essere messo in dubbio che essa possa perdere di importanza.
d) Le tecniche di programmazione di bilancio
E stato osservato giustamente che nell'ambito della pubblica amministrazione si svolge per tutta la durata dell'anno fiscale, e puntualmente si riapre ad ogni nuovo esercizio, un vero dialogo fra sordi: la discussione fra le cosiddette ‛amministrazioni della spesa' e l'amministrazione responsabile del bilancio. Le prime sono intente ad avanzare elenchi di richieste di crescenti stanziamenti, a favore dei quali non mancano, quasi sempre, motivazioni serie e fondate (anche se l'ammontare della somma domandata è gonfiata dalla certezza che un eventuale assenso sarà sempre accompagnato da una drastica riduzione della cifra concessa), mentre l'amministrazione ‛finanziaria' è intesa a respingere le reiterate e pressanti istanze, sulla base delle limitate possibilità del bilancio e dei crescenti disavanzi.
I più esperti e smaliziati osservatori sanno bene quanta ‛accidentalità' o addirittura quanta ‛irrazionalità' domini le scelte di bilancio, sotto la spinta di pressioni, emozioni, ideologie, che poco o nulla hanno a che vedere con la fredda obiettività che dovrebbe invece presiedere alle decisioni finali, nè con le attente analisi che dovrebbero precederle.
In realtà nel dialogo che abbiamo ricordato, nel quale solo apparentemente la posizione più forte è quella di chi detiene i cordoni della borsa, l'unico discorso che non si fa è quello intorno alla comparativa utilità fra i diversi tipi di spesa e, quindi, fra i diversi risultati conseguibili, nonché quello, ancor più arduo, relativo ad una valutazione d'insieme, nella quale le singole voci di spesa dovrebbero essere inserite e valutate congiuntamente, anche per gli effetti economici legati alla spesa pubblica e al suo finanziamento. A questo confronto miravano i cultori di finanza, quando ponevano i problemi della spesa pubblica in termini di ‛utilità'.
Il problema, oggi come ai tempi di J. B. Say o di M. Pantaleoni, è proprio quello di attribuire le ‛utilità' alla soddisfazione dei bisogni pubblici. Queste ‛utilità' si configurano sempre meno come concetti generici e sempre più come concetti specifici, e quindi come ‛scelte'. La ‛scelta' tuttavia - si dice - nel mondo della realtà è sempre condizionata dall'incertezza; di ciò ci si fa un alibi, anche troppo comodo, per evitare ogni sforzo di riduzione di tale margine di incertezza.
Per questo, il vero difetto delle decisioni di spesa (non superabile, malgrado la migliore buona volontà, con i sistemi decisionali attualmente seguiti) è nella mancanza di un punto di riferimento preciso per la misurazione delle ‛utilità'. Da qui il vero aspetto della ‛antieconomicità' della spesa pubblica.
A tale riguardo, uno strumento, sul quale dovrà concentrarsi l'attenzione, è quello comunemente denominato ‛analisi costi-benefici', le cui applicazioni sono ormai numerose anche nel settore privato, ma che, in modo fondamentale, ha mostrato già in altri paesi la propria utilità nel settore pubblico. Quivi, in particolare, tale metodo impiega gli schemi concettuali della teoria economica per risolvere problemi nei quali la legge della domanda e dell'offerta e l'incentivo del profitto non forniscono più alcun riferimento per le scelte da fare. Questo strumento è stato applicato soprattutto nelle attività pubbliche che hanno più strette analogie con le attività economiche del settore privato (sfruttamento delle risorse idriche, costruzioni di autostrade, e così via), cioè in settori i cui prodotti possono essere, in alcuni casi, effettivamente venduti.
Deve rilevarsi che al rapido sviluppo di tali tecniche, specialmente all'estero, come abbiamo veduto, e specialmente negli anni più recenti, non hanno sempre corrisposto risultati pari alle attese. A parere dell'autore del presente articolo, questi parziali insuccessi non mettono in discussione nè i principi su cui l'analisi costi-benefici si fonda, nè la validità degli strumenti con cui questa viene tradotta in forme applicative. Piuttosto deve sottolinearsi la necessità di acquisire una maggiore esperienza e di affinare i metodi di valutazione dei fenomeni sui quali l'azione pubblica si esercita. Si richiede, a tale scopo, uno sforzo di ricerca, tendente ad ampliare i limiti applicativi della conoscenza della realtà sociale ed economica, e destinato a evitare che importanti decisioni siano prese esclusivamente sulla base dell'intuito personale.
In tal modo l'attività decisionale, che (non si deve dimenticarlo) rimane pur sempre affidata alla insostituibile capacità individuale, potrà essere esplicata ad un livello più elevato, in quanto i compiti di rilevazione, elaborazione e distribuzione delle necessarie informazioni siano stati opportunamente decentrati. L'atto finale del decidere ottiene così un supporto tecnico di informazione e di controllo e, alla fine, acquista maggiore credibilità ed autorità. I sistemi elettronici per il trattamento automatico dei dati costituiscono, dunque, pur nella loro funzione strumentale, un elemento indispensabile per la realizzazione di un più efficiente assetto organizzativo della pubblica amministrazione.
e) La cosiddetta crisis of accountability e le ‛agenzie'
Nel quadro istituzionale degli enti pubblici erogatori di spesa si va collocando, accanto all'amministrazione diretta dello Stato, con importanza crescente, e per la qualità delle funzioni svolte e per la quantità di mezzi finanziari amministrati, una serie di enti pubblici, enti territoriali, enti previdenziali ed enti ‛economici' destinatari di una crescente aliquota delle spese statali, sotto forma di ‛trasferimenti', sia di redditi che di capitali.
Questo crescente volume di trasferimenti agli enti rappresenta una conseguenza della specificazione qualitativa della spesa pubblica. Tale fenomeno si è accentuato, almeno nel nostro paese, soprattutto nel secondo dopoguerra, provocando un movimento centrifugo, che ha trasferito ad organismi pubblici la pratica attivazione di diversi compiti che lo Stato si è assunto e di cui sostiene, in maniera diretta o indiretta, l'onere finanziario. Avviene così che una parte grande e crescente della spesa pubblica è oggi amministrata da organismi che o prelevano quote di reddito a carico dei cittadini, in guise diverse, ovvero direttamente o indirettamente ricevono apporti finanziari dallo Stato.
Come è facilmente comprensibile, le gestioni di tali enti pongono problemi assai gravi di politica economica, nel contesto delle scelte da operare, affinché la spesa pubblica risponda a criteri di efficienza. Si tratta di organismi in cui, spesso, il problema di una efficiente condotta economica sovrasta quello, pure importante, del rapporto fra entrate e spese dell'esercizio. È appunto questa caratteristica che rende problematica l'organizzazione di un'adeguata supervisione centrale di tali organismi.
Nella letteratura finanziaria anglosassone si parla, a tale riguardo, addirittura di crisi of accountability, nascente dalla necessità di ricercare una nuova concezione di ‛responsabilità' per i funzionari operanti in un sistema di spesa tanto diverso da quello tradizionale; e soprattutto di predisporre strumenti atti a rendere effettiva e operante tale responsabilità. E infatti, nella creazione di un ente autonomo, occorre conciliare l'esigenza di assicurare l'osservanza delle direttive delle autorità centrali in materia di politica economica con quella di conferire agli organi dell'ente una sufficiente libertà di azione che consenta una gestione efficiente e flessibile. Ciò appare tanto più necessario nei casi in cui tali organismi debbono competere anche con altre imprese, sia pubbliche che private.
Sono note, d'altro canto, le ragioni per le quali i governi tendono sempre più a conferire ad enti a carattere autonomo la realizzazione di finalità proprie dello Stato. Tali ragioni derivano da una esigenza di decentramento dei compiti dello Stato, tanto più pressante a mano a mano che si sviluppa il processo di ampliamento di tali compiti. Derivano anche dall'esigenza che la nuova attività si svolga secondo procedure quanto più possibile spedite e semplici. Esiste, purtroppo, una patologia del fenomeno, una ricorrente eterogenesi dei fini: essa si rivela nella creazione di una miriade di enti superflui, ostinati a rimanere in vita anche quando le loro funzioni si sono esaurite, pronti ad assegnarsi nuovi compiti, spesso fittizi, pur di sopravvivere.
Si può dubitare dell'esistenza di soluzioni immediate e radicali al problema della soppressione degli enti parassitari. Una decisa volontà politica e una costante fermezza nell'azione amministrativa dovrebbero nondimeno portare a positivi risultati. Sarebbe opportuno, intanto, agire anche nel senso di non permettere la creazione di enti, la cui utilità appaia, ab initio, già dubbia. Si dovrebbe cioè cominciare ad imbrigliare il fiume a monte, per poter bene drenare la valle.
D'altra parte, nessuna forma di programmazione economica, come nessuna coraggiosa riforma nei metodi decisionali e nella strutturazione del bilancio possono conseguire i risultati attesi, se non si ridà efficienza alla pubblica amministrazione. Di questa vasta tematica è opportuno sottolineare un particolare aspetto.
Si tratta della lunghezza dei tempi di esecuzione della spesa pubblica e delle difficoltà, dovute a molteplici ragioni, che l'amministrazione pubblica incontra ad acquisire metodologie e procedimenti che consentano di realizzare i vari progetti con la snellezza e la celerità necessarie per rispondere sollecitamente alle crescenti richieste di impieghi sociali del reddito. Per superare questa incapacità (della quale è difficile dire quanta sia patologica e quanta, invece, fisiologica) dell'amministrazione ordinaria, è stata prospettata la possibilità di adottare modelli organizzativi funzionali di nuovo tipo. Gli organismi creati sulla base di tali modelli dovrebbero assumere i caratteri e le capacità realizzative proprie delle ‛agenzie', conformate sul modello anglosassone.
La proposta ha suscitato qualche difficoltà e qualche apprensione, motivate dalla considerazione che occorrerebbe anzitutto ridare la necessaria efficienza all'amministrazione ordinaria. Tuttavia la preoccupazione espressa non appare fondata, ove si rifletta che le ‛agenzie' non dovrebbero essere qualcosa di estraneo e al di fuori dell'amministrazione, ma rappresenterebbero, invece, un nuovo modo di organizzarsi della pubblica amministrazione. E cioè, tutte le volte che l'amministrazione è chiamata a svolgere compiti diversi da quelli tradizionali, giuridici, e ad occuparsi di attività nuove, e in particolare quando queste nuove forme di attività consentono o impongono una valutazione differenziale di costi e di ricavi, essa dovrebbe costituirsi in ‛agenzia' e, qualche volta, anche in ‛autorità'.
Le costituende agenzie non dovrebbero ricalcare, possibilimente, alcuno dei modelli preesistenti. Esse dovrebbero essere inquadrate nell'ambito dell'amministrazione centrale e, preferibilmente, nell'amministrazione regionale, in modo tale da lasciare all'autorità politica la determinazione dell'indirizzo generale e degli obiettivi da perseguire, attribuendo all'agenzia un elevato grado di autonomia esecutiva, in modo da avvicinarla al modello imprenditoriale. Dovrebbe perciò essere conferita ai nuovi organismi la scelta dei criteri e dei metodi da impiegare per l'efficiente perseguimento dei fini posti dal potere politico. I compiti affidati all'agenzia sarebbero, quindi, di progettazione e di esecuzione: anche a questo livello, perciò, la fase realizzativa dovrebbe essere preceduta dall'attività di scelta delle diverse alternative possibili per il raggiungimento, con la massima efficienza, degli obiettivi prefissati. Questo nuovo schema o modello organizzativo ha ancora bisogno, per una concreta realizzazione, di un ulteriore e particolareggiato studio, con riguardo soprattutto alla struttura degli organi di controllo, ai criteri per la loro nomina, al finanziamento.
Esistono già del resto nel nostro ordinamento forme organizzative le quali, con caratteri giuridici diversi, assolvono funzioni di pubblico interesse; queste vanno dalle aziende autonome, dotate di un certo grado di autonomia operativa, ma normalmente prive di personalità giuridica, agli enti pubblici istituzionali, aventi personalità giuridica e un più ampio grado di indipendenza, alle società a partecipazione statale, facenti capo ad enti di gestione di natura pubblica, ma strutturate ed operanti secondo le norme del diritto privato.
f) Il sistema delle ‛partecipazioni statali'
Lo sviluppo del sistema delle imprese a partecipazione statale - cioè delle imprese organizzate nella forma privatistica di società per azioni, ma a capitale pubblico - è fenomeno caratteristico dell'ordinamento italiano.
Proprio lo scadimento dell'efficienza amministrativa - collegato al numero sovrabbondante di addetti e ai frettolosi metodi di reclutamento - sia nello svolgimento dei compiti tradizionali, sia, e ancor più, nell'affrontare i nuovi e più difficili compiti che lo Stato era chiamato a svolgere all'indomani della prima guerra mondiale, ha dato origine allo sviluppo del sistema delle partecipazioni statali. In Italia, come anche altrove, si era venuta formando una particolare forma di demanio mobiliare, o azionariato di Stato, caratterizzato dalla presenza di imprese industriali o commerciali, ma anche agricole (come la ‛Maccarese'), costituite in forma di società per azioni, il cui capitale era posseduto, sin dalla costituzione, o per successivi trapassi, dallo Stato.
Fra la prima e la seconda guerra mondiale si era verificato un pesante immobilizzo di alcune grandi banche nei confronti di imprese industriali, cresciute fuor di misura durante la guerra e incapaci di riconvertirsi convenientemente ad attività non belliche. Mediante una complessa manovra finanziaria si procedette alla costituzione di un ente di diritto pubblico (l'Istituto per la Ricostruzione Industriale), il quale, rilevando i pacchetti azionari posseduti dalle banche e restituendo a queste la necessaria liquidità, divenne azionista delle imprese sovvenzionate e delle banche stesse. Nato in conseguenza di quest'operazione di risanamento bancario, che investiva lo stesso istituto di emissione, anch'esso impegnato a scontare grossi cambialoni delle imprese industriali, l'IRI divenne presto uno strumento di politica economica, trasformandosi da ente incaricato di risanare e liquidare le imprese rilevate, in ente incaricato di gestirle secondo direttive di politica economica, raggruppandole in ‛finanziarie' operanti in settori diversi, come l'armamento, la costruzione di navi, la siderurgia, la meccanica, e cosi via. Le finanziarie detenevano, in posizioni quasi sempre maggioritarie, i pacchetti delle imprese operative e a loro volta erano controllate dall'IRI, che ne era l'azionista di maggioranza.
Nel secondo dopoguerra fu costituito, secondo uno schema pressoché analogo, l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), azionista di società per azioni operanti nel settore degli idrocarburi liquidi e gassosi: AGIP, ANIC, ecc.
Sicché si venne a creare un insieme complesso costituito, in parte, da società le cui azioni erano direttamente nelle mani dello Stato, che le amministrava attraverso la direzione generale del Demanio (Ministero delle Finanze), in parte da tre gruppi di società facenti capo ad enti di diritto pubblico, quali l'IRI e l'ENI, a loro volta sottoposti alla vigilanza di due o più ministeri, nonché alle direttive di comitati di ministri.
Nel 1956, con la legge 22 dicembre, n. 1589 (ma v. anche la legge 27 febbraio 1967, n. 48, e il D.P.R. 14 giugno 1967, n. 554), venne istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali, il quale, a norma della legge istitutiva, si sostituiva a tutti gli altri nei compiti di guida e di vigilanza sulle imprese a partecipazione statale; queste dovevano essere, e in gran parte furono, raggruppate in ‛enti di gestione', operanti secondo criteri di economicità. Accanto all'IRI, ente di gestione diversificato, e all'ENI, che estendeva la sua attività in settori collaterali (meccanica, tessili), vennero via via costituiti l'Ente di gestione per le aziende termali, quello per le aziende cinematografiche, quello per le aziende minerarie, quello per il finanziamento delle aziende meccaniche. A questi enti - pochi dei quali, tuttavia, rispettarono il criterio della ‛omogeneità' prescritto dalle leggi - vennero ceduti, salvo poche eccezioni, i pacchetti azionari direttamente posseduti dallo Stato.
Si venne, in tal modo, delineando una struttura organizzativa che vede alla base le imprese, raggruppate o no in ‛finanziarie', costituite e operanti secondo le norme del diritto privato, sotto forma di società per azioni; al di sopra di queste società sono gli enti di gestione, enti di diritto pubblico ma operanti anch'essi secondo le norme del diritto privato e detentori, direttamente o indirettamente, di una parte (generalmente della maggioranza) delle azioni delle società controllate. Il ministro (e il ministero) delle Partecipazioni Statali esercita nei confronti degli enti di gestione potere di guida, di indirizzo e di vigilanza.
Il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica ha il potere di verificare la conformità dei programmi degli enti di gestione al programma economico nazionale, nonché di formulare ‟anche ai fini dell'ordine di priorità delle diverse iniziative, le direttive generali di particolare rilievo per l'attuazione dei programmi stessi" (v. sopra, § b).
I problemi che si pongono relativamente a questo ‛sistema' sono gravi e complessi. Anzitutto le imprese, le finanziarie e gli stessi enti di gestione sono tenuti, per legge, ad operare secondo ‛criteri di economicità'. Tale obbligo appare ancora più evidente per quelle imprese produttrici di beni e di servizi in regime di concorrenza, ovvero per quelle al cui capitale partecipano, in misura più o meno rilevante, azionisti privati. La ferrea legge dei costi e dei ricavi per queste imprese si pone come necessaria conseguenza del loro operare sul mercato. Ma anche le altre imprese, operanti in regime di monopolio, perché, ad esempio, concessionane di pubblici servizi e titolari di convenzioni con la pubblica amministrazione, sono tenute a rispettare il criterio di economicità. Si è molto discusso intorno al significato di questa espressione. Da taluni si assume che essa vada intesa non con riferimento al conseguimento di fini puramente aziendali, nel rispetto dell'equilibrio di costi e ricavi; da altri che essa indichi soltanto il razionale impiego di mezzi a disposizione nel conseguimento anche di fini extra-aziendali (occupazione e così via); inoltre si discute se il criterio stesso di economicità debba riferirsi alle imprese o si ponga piuttosto a livello di enti di gestione.
L'opinione che il criterio debba verificarsi a livello delle imprese sembra all'autore di questo articolo il più logico e il più coerente con la forma privatistica che queste assumono. Anche se il conseguimento di profitti non sia il fine dell'operatore pubblico, non è men vero che esso è il rivelatore di una gestione efficiente e perciò economica. Aziende costantemente in perdita, per lunghi periodi di tempo, denunciano la loro sostanziale antieconomicità, qualunque siano le ragioni di tali costanti passivi. Condizioni sfavorevoli del loro operare possono essere compensate con la erogazione di contributi a fondo perduto o a parziale copertura di oneri finanziari (come accade per le imprese pubbliche o private operanti nel Mezzogiorno), ovvero mediante la corresponsione di canoni per le imprese che assumono l'onere di svolgere pubblici servizi (società di navigazione marittima), ma la presenza di perdite continue e ripetute di esercizio in esercizio, da coprirsi solo con ripetute svalutazioni e ricostituzioni del capitale sociale, denunciano irrimediabilmente la non economicità della gestione. Così i continui aumenti del fondo di dotazione degli enti di gestione, quando non risultino giustificati da crescenti investimenti produttivi (immobilizzazioni tecniche), denunciano la condotta non economica delle aziende controllate.
Il Ministero delle Partecipazioni deve quindi esercitare una funzione di guida e di indirizzo, che fa capo al titolare del ministero o a comitati di ministri (come il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica: CIPE), deve approvare e controllare i programmi delle imprese e degli enti di gestione, deve esercitare la vigilanza sugli enti stessi, approvare il bilancio e nominare gli amministratori, ma non può non rispettare l'autonomia delle imprese, nella loro condotta operativa, e degli enti, nelle loro funzioni di controllo sulla gestione delle imprese e nella scelta delle persone chiamate a far parte degli organi sociali (consigli di amministrazione e collegi sindacali) delle società controllate.
In concreto (salvo i poteri spettanti al CIPE, di cui si è detto) spetta al ministro per le partecipazioni statali, in base alle norme sopra indicate, nonché a quelle contenute negli statuti degli enti: a) comunicare a questi ultimi le deliberazioni attinenti ai programmi e le direttive generali del CIPE e impartire le direttive necessarie per la loro attuazione; b) convocare i presidenti e i direttori generali degli enti, nonché gli amministratori responsabili delle società controllate, al fine di ottenere notizie sull'andamento delle gestioni; c) controllare l'attuazione dei programmi e delle direttive impartite, richiedendo a tal fine agli enti le necessarie informazioni e notizie; d) autorizzare, nei casi previsti dalle disposizioni vigenti e di concerto, ove richiesto, con il ministro per il Tesoro, l'assunzione di partecipazioni in nuove società e la cessione di partecipazioni azionarie.
g) La ‛Cassa del Mezzogiorno'
A conclusione di questa parte dedicata alle nuove formule organizzatorie dell'attività dello Stato e specialmente a quelle più propriamente imprenditoriali, sembra opportuno menzionare, per le sue peculiari caratteristiche, un altro tipo di ‛amministrazione straordinaria' sperimentata in Italia, e studiata anche all'estero: la ‛Cassa del Mezzogiorno'.
Fondata con legge 10 agosto 1950, n. 646 (più volte modificata in seguito), essa divenne lo strumento per gli ‛interventi straordinari' nel Mezzogiorno d'Italia. Qui importa notare che l'attività della Cassa si è svolta secondo regole particolari che ne hanno fatto, fino alla legge del 6 ottobre 1971, n. 853 (di cui si dirà in seguito), un'amministrazione ‛temporanea' (almeno negli intenti), ‛straordinaria' e ‛aggiuntiva'. In base alla legge istitutiva, la Cassa è stata l'organo esecutivo dei programmi elaborati dal comitato dei ministri per gli interventi straordinari, presieduto dal presidente del Consiglio dei ministri o da un ministro all'uopo designato dal Consiglio dei ministri. A grandi linee può dirsi che a tale comitato (poi fusosi nel CIPE) spettava la formulazione di un piano generale di interventi per l'esecuzione di opere straordinarie, dirette in modo specifico al progresso economico e sociale del Mezzogiorno, coordinandolo con i programmi di opere predisposti dalle amministrazioni pubbliche, nel quadro dei settori nei quali la Cassa è chiamata a operare. Il presidente del comitato dei ministri, indicato poi come ‛ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno', aveva la vigilanza sulla Cassa e assicurava che la sua attività e quella degli organismi a essa collegati si svolgessero in conformità ai piani pluriennali di coordinamento. In effetti, la Cassa realizzava in sé un organismo di peculiari caratteristiche. A prescindere dalla caratteristica della sua ‛temporaneità', i tratti che distinguevano la struttura e l'attività della Cassa, e che tuttora meritano di essere ricordati, sono i seguenti: a) pluralità dei settori di intervento, contrapposta alla differenziazione e specializzazione delle sfere di competenza, proprie delle diverse branche della pubblica amministrazione; appunto da questa competenza ‛plurisettoriale' è nata la possibilità di interferenze con l'attività delle diverse amministrazioni e la conseguente esigenza del coordinamento al centro e alla periferia; b) elasticità del bilancio: questa derivava dalla facoltà che la legge conferiva al comitato dei ministri di attribuire le spese per il settore delle opere pubbliche, mediante la specificazione degli obiettivi previsti e di ripartire i mezzi finanziari disponibili.
La legge del 1971, mentre ha soppresso il comitato dei ministri per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, le cui attribuzioni sono state trasferite al CIPE, ha invece rafforzato la figura del ministro per i suddetti interventi, attribuendogli, ovviamente, responsabilità diverse da quelle precedenti: in particolare i poteri di direttiva e di vigilanza.
La ‛contrattazione programmata' (v. sopra, § b), cui la legge del 1971 attribuisce particolare rilievo, non pare acquistare ancora la dignità di un metodo nuovo e diverso di programmazione.
Dove invece appaiono di notevole interesse le innovazioni di cui alla ricordata legge è nell'importanza che assumono le Regioni nell'attuazione della politica a favore del Mezzogiorno. Vengono soppressi i ‛piani di coordinamento', previsti dalla legge del 1967, il CIPE emana direttive per gli interventi già oggetto di tali piani ed è trasferita alle Regioni la responsabilità degli interventi nei settori di loro competenza fondamentale, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione. Quindi, soggetti della politica meridionalistica, secondo le direttive del CIPE, diventano le Regioni nell'ambito delle proprie competenze istituzionali. La Cassa diventa un'‛agenzia', cui è affidata (a parte i compiti di carattere transitono, intesi ad evitare soluzioni di continuità fra il vecchio e il nuovo regime) l'esecuzione dei cosiddetti ‛progetti speciali'. Questi vengono così definiti dalla legge: ‟I progetti speciali di interventi organici nelle regioni meridionali sono di carattere intersettoriale o di natura interregionale e hanno per oggetto la realizzazione di grandi infrastrutture generali o volte a facilitare lo sviluppo delle attività produttive e, in particolare, la localizzazione di quelle industriali; l'utilizzazione e la salvaguardia delle risorse naturali e dell'ambiente, anche con iniziative di alto interesse scientifico e tecnologico; l'attuazione di complessi organici di opere e servizi relativi all'attrezzatura di aree metropolitane e di nuove zone di sviluppo; la realizzazione di iniziative organiche per lo sviluppo di attività economiche in specifici territori o in settori produttivi. I progetti speciali debbono osservare le destinazioni del territorio stabilite dai piani urbanistici e, in mancanza, dalle direttive dei piani regionali di sviluppo". Insomma l'intervento straordinario che non attenga al settore dell'incentivazione deve realizzarsi essenzialmente attraverso la formula dei progetti speciali di interventi organici. ‟I progetti speciali costituiscono la prima applicazione normativa della formula di ‛amministrazione per progetti' indicata dal ‛Progetto 80" (Annesi).
3. Crisi della pubblica amministrazione e possibili rimedi
a) Le cause della crisi
Il discorso fin qui svolto sull'avvento della programmazione economica, sulla razionalizzazione delle scelte economiche e sul crescente intervento dello Stato nell'economia, non investe soltanto gli organi della programmazione e del bilancio, le ‛agenzie' e le imprese pubbliche, ma coinvolge l'intera amministrazione, chiamata a fronteggiare problemi sempre più complessi, in una fase di rapida trasformazione delle strutture e della realtà economica e sociale e, perciò stesso, in un periodo in cui si fa più acuta l'esigenza di una crescente quantità di conoscenze, da acquisire nel tempo più breve, per seguire e controllare questi processi.
Questi fenomeni costituiscono il fatto nuovo, che caratterizza, oggi, la vita economica e l'attività della pubblica amministrazione.
La disamina deve essere condotta, quindi, in una triplice direzione: a) estensione dei compiti affidati alla pubblica amministrazione, in sfere sempre più vaste di attività e in forme più moderne; b) standard sempre più elevato di istruzione professionale, che si richiede ai pubblici dipendenti, perché possano assolvere, in modo adeguato, i compiti nuovi ai quali sono chiamati; c) introduzione, su scala sempre più ampia (e però in modo coordinato e coerente) dei nuovi strumenti tecnologici, ormai disponibili, e largamente utilizzati nel settore privato.
Sul primo fattore, quello dell'insoddisfacente stato della situazione odierna, si è già discusso all'inizio di questo articolo, sicché è da ritenere che bastino solo alcuni cenni a completamento di quanto già detto. In particolare sembra necessario rilevare come sia sempre più acutamente avvertita, nei diversi paesi, la gravità dei problemi posti dal crescente distacco esistente fra le richieste del corpo sociale, ormai da tempo stabilito su più elevati livelli di vita civile e sociale, e tanto più preoccupato di non perdere le posizioni raggiunte a causa delle difficoltà economiche che ovunque si delineano, e una struttura burocratica, ancora in gran parte racchiusa in un'armatura difensiva e che crea impaccio, di origine troppo lontana nel tempo.
La denuncia di questa situazione insoddisfacente, addirittura paradossale (tale da creare un profondo solco - colmo di critiche e di risentimenti - fra amministrati e amministratori) è, ormai un po' dappertutto, ma particolarmente in Italia, dilagante. Però, se tutti sono d'accordo nell'indicare i mali (lentezza, contraddittorietà, insufficienza dell'azione amministrativa), la confusione più grande regna, salvo pochissime eccezioni, nell'indicazione dei rimedi, non appena si lascino i generici appelli allo snellimento dei quadri e delle procedure, alla semplificazione delle competenze e degli uffici. Una malefica magia sembra obnubilare le menti e ostacolare l'azione dei riformatori.
Non solo giova ricordare che in tutti i paesi industrializzati la pubblica amministrazione costituisce, nel suo insieme, il più ampio settore dell'attività economica e che di fatto, la sua buona (o cattiva) organizzazione e il suo buono (o cattivo) funzionamento possono costituire un contributo positivo (o negativo) alla politica economica, ma è da prevedere che ove si acuissero, in tutto il mondo, le attuali difficoltà economiche, dappertutto i pubblici poteri, e quindi l'amministrazione pubblica, sarebbero chiamati ad un nuovo sforzo e ad un più vasto impegno per combattere le conseguenze della recessione o, comunque, per meglio adattare alle esigenze sociali dei vari gruppi, specie di quelli che meritano maggior protezione, le conseguenze delle trasformazioni economiche in atto.
Ne consegue che nel prossimo avvenire dovrà essere intensificato, piuttosto che allentato, lo sforzo concreto che debbono porre in essere quanti sono preposti alla direzione di vaste branche dell'amministrazione pubblica, e quanti all'interno di essa comunque operano, nell'ambito dei principi generali sanciti dall'ordinamento giuridico costituzionale. Si tratta di uno sforzo di accresciuta efficienza, sul piano dell'organizzazione e dell'azione, tale da assicurare, anche in circostanze prevedibilmente avverse, il migliore conseguimento degli obiettivi fondamentali di una società che voglia mantenersi libera e giusta, contro il pericolo di sovvertimenti, acuito dalla difficoltà e dall'incertezza della situazione economica.
Ricerca, credito, agricoltura, opere pubbliche, sviluppo urbanistico, assistenza sociale, struttura regionale, sicurezza sociale, commercio estero, prelievi fiscali, sono alcuni campi dove è sentita in modo urgente la necessità di un rafforzamento e di un miglioramento, a livello centrale e a livello locale, delle strutture amministrative. Se si aggiunge alla dimensione dei fenomeni, e al numero delle variabili in gioco, la crescente dinamica che caratterizza i moderni assetti sociali ed economici, e che modifica continuamente i rapporti di interdipendenza strutturale fra i singoli settori e pone necessità sempre nuove di integrazione e di coordinamento, si comprendono ancor più le cause della presente crisi strutturale.
È utile ricordare il Rapporto Fulton (qui citato perché è uno dei più recenti esami critici del problema e perché riguarda una delle migliori burocrazie del nostro continente). Le critiche che esso muove all'apparato burocratico inglese non sono poche, ma alcune assumono rilievo ai nostri fini: per esempio quella della sorpassata visione del burocrate come di un ‛dilettante', in grado di svolgere qualsiasi compito, senza una particolare preparazione specifica; la prevalenza di quelle che il rapporto chiama le ‛classi amministrative' sui tecnici; la inadeguata capacità direttiva dei funzionari; l'isolamento della burocrazia dalla vita del paese, dalle università, dal mondo degli operatori economici. Le grandi linee di questa indifferibile azione sono troppo note per essere nuovamente esaminate, ma occorre ricordare alcuni punti fondamentali, che nelle discussioni degli ultimi anni sono stati più volte richiamati.
Anzitutto, va sottolineata la sempre più chiara e urgente necessità di evitare la sclerotizzazione delle strutture burocratiche.
Il feticismo del titolo di studio (dove esiste) deve cedere il passo al riconoscimento della preparazione tecnica adeguata alle mansioni che il pubblico dipendente è chiamato a svolgere.
La possibilità continua di ricambio deve essere accettata e sollecitata, affrontando i connessi problemi di un livello di produttività - e quindi di prestazioni - e di un livello retributivo globale (tenuto conto delle varie componenti) allineati a quelli dei settori privati.
Le forme di incentivazione, i metodi di selezione dei migliori debbono essere accuratamente riveduti e ammodernati, sulla base dei noti procedimenti di job evaluation. I quadri, le carriere, le procedure di avanzamento vanno riveduti in modo da assicurare un'effettiva e quasi spontanea gerarchia di valori, nell'interesse della stessa amministrazione, pur assicurando ai dipendenti adeguati miglioramenti nel trattamento economico. Non tutti i paesi hanno la fortuna di avere grandi corpi generali dell'amministrazione come il Civil Service inglese, o l'Inspectorat Général des Finances francese. Ma è opportuno che quelli che ne sono privi riflettano su queste progredite esperienze per adattane alle proprie strutture e alle proprie esigenze.
In questa linea evolutiva è possibile cogliere alcune tendenze di fondo, un generale movimento verso assetti più moderni e democratici, in contrasto con il vecchio assetto rigorosamente autoritario della pubblica amministrazione. In particolare aumenta il numero e l'importanza degli organi collegiali, nei quali è spesso presente la rappresentanza dei sindacati del personale; acquista rilievo crescente il ‛procedimento', cioè il momento preparatorio degli atti; si riconosce per le qualifiche direttive una sfera di autonomia e di responsabilità, e quindi viene crescendo il ruolo delle ‛direttive'.
b) La preparazione dei pubblici funzionari
Una tendenza comune circa la formazione dei funzionari va delineandosi nell'ultimo decennio: l'esigenza di assicurare alla pubblica amministrazione funzionari capaci di assolvere appieno i crescenti e sempre più impegnativi compiti dello Stato contemporaneo è stata ovunque avvertita e, di conseguenza, in pressoché tutti i paesi, sia pure con diverse accentuazioni, si è posto il problema dei metodi da seguire e degli strumenti da utilizzare per conferire ai funzionari pubblici una preparazione professionale adeguata a tali compiti. Le esperienze avutesi al riguardo nei singoli paesi mentre presentano, per certi aspetti, talune somiglianze, per altri aspetti - i più numerosi e forse i più importanti - appaiono senza dubbio nettamente differenziate. Nè, d'altronde, avrebbe potuto essere altrimenti, considerato che esse si sono progressivamente realizzate, in ciascun paese, in situazioni storiche e ambientali assai dissimili, sia per quanto concerne la struttura dell'apparato amministrativo, sia per ciò che riguarda la natura e l'entità dei compiti affidati alla pubblica amministrazione.
Si tratta, tuttavia, in ogni caso di esperienze ispirate da un'esigenza comune, e quindi il loro raffronto presenta estremo interesse dottrinale e si palesa di grande utilità pratica, soprattutto per quei paesi, come l'Italia, che soltanto in epoca relativamente recente hanno cominciato ad affrontare in modo concreto il problema della formazione professionale dei pubblici dipendenti.
Preso atto di questa diffusa attenzione ai problemi della formazione e del perfezionamento dei pubblici dipendenti, occorre porsi una serie di interrogativi; occorre, cioè, ricercare le ragioni e la fondatezza di questo atteggiamento, relativamente recente. Occorre domandarsi, in particolare, se alla base di esso non si riscontri il convincimento - giusto o ingiusto che sia - che la preparazione di coloro che entrano nella pubblica amministrazione non sia ancora completa. Occorre anche riflettere sulle cause per le quali si ritiene necessario che questi funzionari ‛perfezionino' e ‛aggiornino' la loro preparazione professionale. Il fenomeno ha qualche analogia, ma non si identifica con quanto avviene nel settore privato, dove pure le aziende dispiegano tanta solerzia per la formazione, il perfezionamento e l'aggiornamento dei propri quadri, dirigenti o intermedi.
È opportuno avvertire infine che - salvo esplicito riferimento di volta in volta - il discorso che segue riguarda prevalentemente o esclusivamente i funzionari amministrativi e in particolare quelli direttivi, e, quindi, non si occupa dei corpi propriamente tecnici (ingegneri, sanitari) e della magistratura.
Così inquadrato il problema, sembra possibile individuare i fattori che maggiormente rendono attuale l'esigenza di un'ulteriore e specifica preparazione professionale dei funzionari direttivi. Tali fattori vanno ricercati, da una parte, nell'accelerazione del tasso di progresso e di avanzamento nel campo delle conoscenze in genere e nel campo delle tecnologie operative e di ricerca, dall'altra nel diffuso stato di arretratezza delle strutture scolastiche e di quelle universitarie. Il problema dell'amministrazione si collega così al problema della scuola.
Questo, a sua volta, nel contesto della trasformazione, dovunque in atto, delle strutture sociali e degli schemi tradizionali che a tali strutture si erano adattati, è così vasto e complesso da rendere assai arduo il tentativo di toccare l'argomento in maniera sintetica. E se qui se ne fa cenno, pur nella consapevolezza dell'insufficienza dello spazio e dell'approfondimento necessari, è per la semplice ragione che sarebbe impossibile ignorarlo, posto com'è alla base di tutto il problema della formazione dei pubblici funzionari, e non soltanto di essi.
Non è compito di questo articolo entrare nei particolari problemi della riforma scolastica e universitaria, nemmeno quando essi toccano da vicino alcuni problemi relativi al funzionamento e alla organizzazione delle scuole che sono dedicate alla preparazione dei pubblici dipendenti.
Non è nemmeno possibile, dovendo trattare il tema solo di sfuggita, e con viva deferenza per coloro che nella scuola vivono e operano e soffrono, esprimere giudizi che possano apparire avventati. Ma non vi è dubbio che un'amplissima letteratura da lungo tempo si affatica ad identificare i mali della scuola e le cause di essi. Ci si affida dunque a tale letteratura, per ricavarne alcuni giudizi sui quali i consensi sembrano convergere unanimemente. E ci sembra, in tal modo, di non commettere peccato di presunzione, nè di mancare di riguardo alle autorità accademiche, ai valorosi professori. Possiamo, allora, rilevare una singolare antinomia che risulta dalle ampie discussioni in corso.
Si dice che la scuola è rimasta immobile nelle sue strutture ottocentesche, ormai arretrate, e che ciò nonostante - o a causa di ciò - ha perduto la sua vocazione di essere guida nel mondo del sapere e della conoscenza, o di prestare l'‛orientamento' necessario ai giovani per affrontare i problemi della vita. Perduta tale nobile missione, si dice ancora, la scuola si è lasciata ‛strumentalizzare' e ‛finalizzare' secondo le esigenze di una società industriale e consumatrice. La scuola, in sostanza, produrrebbe soltanto, a tutti i livelli, le capacità tecniche per le esigenze produttive del nostro mondo moderno. D'altra parte, si lamenta l'incapacità della scuola di fornire in ogni suo ordine e grado la necessaria preparazione professionale.
Stabilite così le ragioni che spingono la pubblica amministrazione, da qualche tempo a questa parte, a curare in modo sistematico la formazione delle giovani leve, si deve sottolineare l'alto fine morale che la scuola ha, accanto a quello puramente tecnico e professionale, creando nei giovani funzionari la consapevolezza dei compiti ai quali negli anni a venire saranno chiamati, e la responsabilità che da ciò deriva. Inoltre, la scuola favorisce una selezione spontanea, e quindi meglio accettata, dei valori.
L'organizzazione della scuola (con riferimento particolare a quella destinata al personale amministrativo propriamente detto), e le soluzioni che si possono immaginare, sono in funzione: a) per un verso, della riorganizzazione degli studi universitari (problema che non riguarda solo il nostro paese) e, quindi, dei titoli o diplomi che l'università rilascerà a diversi livelli di preparazione; b) per un altro verso, del titolo di studio richiesto come base per l'ammissione nei quadri del personale amministrativo (o direttivo).
Risulta che esiste, per molti paesi, il problema del coordinamento fra la scuola generale per l'amministrazione e alcune scuole od istituzioni eventualmente già funzionanti presso le singole amministrazioni. Ci si domanda se tali istituti o scuole non debbano essere considerati come corpi staccati o sezioni specializzate della scuola nazionale, comune a tutta l'amministrazione. L'esame comparato dei sistemi di formazione dei funzionari dello Stato quale risulta dai dati disponibili, non può risultare completo ed esauriente come sarebbe auspicabile; pur tuttavia è già sufficiente ad offrire interessanti elementi di confronto e lo spunto per alcune considerazioni di fondo.
Si è prima accennato come tutti o quasi tutti i paesi che hanno raggiunto determinati livelli di sviluppo economico e sociale, abbiano avvertito negli ultimi decenni l'esigenza di disporre di funzionari pubblici dotati di una preparazione culturale e tecnica adeguata ai complessi compiti e alle crescenti responsabilità inerenti alle loro funzioni. Le vie percorse, però, per la realizzazione di tale obiettivo, presentano, accanto a qualche punto comune, molti aspetti nettamente differenziati.
Due elementi comuni appaiono subito evidenti: 1) anzitutto la presenza, pressoché costante, nei diversi programmi d'insegnamento, di quattro componenti: la giuridica (comprendente la gestione contabile), l'organizzativa (scienza dell'amministrazione e tecniche applicative), l'economica e la sociologica. Le differenze fra i diversi sistemi d'insegnamento vanno individuate principalmente nel dosaggio con il quale le suddette componenti concorrono alla formazione dei piani di studio; 2) in secondo luogo, la preoccupazione, anch'essa ovunque chiaramente avvertibile, di approntare un complesso di insegnamenti che siano in grado di offrire ai giovani funzionari orientamenti e cognizioni circa i compiti proprî della funzione direttiva, senza costituire ripetizione, che apparirebbe superflua, degli insegnamenti già impartiti nei corsi universitari.
Né del resto - nelle condizioni attuali la durata, generalmente breve, dei corsi di formazione consentirebbe di approfondire in modo adeguato le materie dell'insegnamento superiore attinenti alle funzioni che i giovani destinati a compiti direttivi saranno chiamati a svolgere nell'ambito delle singole amministrazioni.
Ed è, d'altro canto, da supporre che il giovane impiegato non sia ‟ben disposto a ricevere un insegnamento teorico complementare nel momento in cui il suo diploma, conseguito dopo lunghi anni di studio, è coronato dall'ingresso nella vita attiva". Gli è necessario anzitutto ‟scoprire le proprie lacune a contatto con i problemi che le sue funzioni gli presentano. Gli è necessario anche un quadro di riferimento per poter ricordare in maniera diversa da un vano lavoro di memoria le teorie che lo guideranno durante la sua futura carriera" (rapporto della delegazione Brega al Congresso delle scuole europee delle amministrazioni pubbliche, Caserta 28-31 ottobre 1968. Atti non pubblicati).
Tranne, dunque, taluni casi eccezionali, come in Francia (dove la lunghezza dei corsi - orientati come si vedrà verso la formazione degli alti funzionari consente di svolgere anche insegnamenti intesi ad approfondire materie teoriche di estrazione universitaria), tali insegnamenti, là dove sono previsti, hanno generalmente un carattere complementare dell'insegnamento universitario.
Quasi dovunque i piani didattici si basano su materie, o meglio, su cicli di lezioni - condotte, come si dirà più oltre, con i metodi più vari - che si propongono di offrire ai giovani funzionari una visione concreta della pubblica amministrazione, quale essa si pone nel contesto sociale, dei suoi obiettivi, dei mezzi di cui può disporre e dell'ambiente nel quale essa è chiamata ad agire. In definitiva, l'oggetto essenziale, costante, degli insegnamenti previsti nei singoli corsi di formazione dei giovani funzionari dello Stato appare essere sempre la stessa pubblica amministrazione nei suoi tre aspetti - soggettivo, finalistico e strumentale - che concernono gli organi, gli obiettivi e i mezzi visti in una visione unitaria.
Appare, peraltro, evidente che la strutturazione dei programmi non è in sé sufficiente ad offrire un'idea compiuta della razionalità e dell'efficacia dei singoli corsi, i quali appaiono condizionati da due fondamentali elementi: dai sistemi metodologici attraverso i quali i programmi stessi trovano applicazione e dal fattore umano che si manifesta nell'insegnamento e nella personalità dei docenti. Quanto ai sistemi metodologici, elemento generalmente riscontrabile nelle esperienze dei singoli paesi (tranne casi particolari) sembra essere quello della ‛indifferenziazione' dei corsi nei confronti dei funzionari appartenenti o destinati ad appartenere ad amministrazioni diverse. Questa indifferenziazione trova la sua giustificazione non solo nell'intenzione di eliminare forme anacronistiche di gerarchia fra le differenti branche dell'amministrazione dello Stato, ma anche, e soprattutto, nella visione unitaria della formazione, quale orientamento attitudinale per l'attuazione del mandato direttivo.
L'arte del dirigere, che si concreta nella piena conoscenza dell'ambiente, dei mezzi di lavoro, dei modi migliori sui quali impostare i rapporti interni con il personale e quelli esterni con i destinatari dell'azione amministrativa, è necessariamente unica, qualunque sia l'amministrazione di appartenenza dei singoli funzionari. Di qui, l'opportunità di raggruppare in corsi unici funzionari di diversa provenienza o destinazione ministeriale, con il preciso intento di evitare ogni deformazione mentale di tipo settoriale nella comune preparazione. Da ciò ancora la necessità di sistemi didattici prevalentemente imperniati sulla ‛formazione', che non abbiano, cioè, soltanto carattere informativo o addestrativo, né siano esclusivamente diretti a quella ‛specializzazione scientifica' destinata ai servizi propri di ciascuna carriera e che più utilmente può essere completata attraverso corsi specifici di qualificazione tecnica.
In conclusione, quanto ai metodi, sembra opportuno avvertire che, se nelle stesse facoltà universitarie si tende ad abolire o, quanto meno, a limitare la lezione cattedratica per sostituirla con i seminari, i colloqui, le esercitazioni, tanto più queste indicazioni valgono per la scuola dell'amministrazione.
Qui dovrebbe valere soprattutto il metodo dei ‛casi' e, possibilmente, il metodo degli uffici modello, con la riproduzione, nella scuola, dello stesso ambiente di lavoro e con l'esame e la discussione di problemi concreti della vita professionale, con dibattiti che portino all'approfondimento dei principi generali.
I programmi, poi, dovrebbero essere sfoltiti della parte giuridica e di scienza dell'amministrazione, non perché siano materie superflue o meno importanti, ma perché, a parere di chi scrive, esse sono eccessivamente presenti nei programmi attuali. Viceversa si dovrebbe fare largo posto alle materie economiche e tecniche: economia e politica economica, econometria, studio dei modelli econometrici, contabilità nazionale, statistica, economia aziendale e anche la tanto maltrattata contabilità generale.
Scuola e corsi, dunque, sempre più aderenti alla trasformazione della nostra società e sempre più adeguati all'importanza che nella vita moderna vanno acquistando i fenomeni di ordine economico (v. anche scuola).
c) Una rivoluzione tecnica: l'informatica
Una rivoluzione tecnica come l'avvento dei calcolatori elettronici, se bene utilizzata, può dare l'avvio a un profondo ammodernamento della pubblica amministrazione. La domanda di informazioni, sempre meglio definite nei loro contenuti, in quantità e in qualità, cresce smisuratamente, a mano a mano che la produzione informativa migliora nel suo livello di fedeltà e di precisione, nonché nelle quantità assolute messe a disposizione. Quindi, la domanda di informazioni, per un verso, è originata da un fenomeno già ricordato in precedenza: la mutevolezza e il dinamismo della realtà socio-economica nella quale la pubblica amministrazione è calata, e con la quale interagisce; per un altro verso, tale domanda viene ulteriormente sollecitata, proprio per il fatto che la massa delle informazioni disponibili è progressivamente crescente e la loro qualità, via via, migliore.
Le stesse critiche che recentemente sono state mosse a talune elaborazioni di dati, e le polemiche seguitene, mostrano il miglioramento continuo delle nostre conoscenze, che ci consente, ormai, di rivolgere la nostra attenzione alla qualità dei dati forniti, oltre che ai dati in sé, per non parlare di talune sofisticate elaborazioni, tanto sofisticate da farci ricercare, talora, la cruda significatività del dato grezzo. In simili discorsi occorre evitare più di uno scoglio.
Anzitutto, occorre guardarsi da certe forme, più o meno consapevoli, di ‛luddismo' e di lotta al progresso, non dissimili da quella dei battellieri del Tamigi. Schermaglie di questo tipo continuano a manifestarsi nei confronti di un progresso tecnico inarrestabile.
Ugualmente, occorre resistere all'indubbio fascino esercitato da quello che viene definito l'hardware della tecnologia, dai misteriosi e poderosi congegni elettronici: le memorie, gli elaboratori, e così via. Tale fascino, a sua volta, in modo quasi irrazionale, ha concorso alla creazione di un mito di efficienza sul piano operativo e organizzativo. Più importante è tentare di rimuovere le cause che hanno generato il timore di assistere alla formazione di una società tecnocratica, la quale, ricorrendo all'ausilio dei potenti strumenti tecnici oggi disponibili, sarebbe in grado di minacciare il diritto alla libertà e alla privacy del cittadino.
In questa sede non si cercherà di discutere in quale misura la tecnologia diventi sempre più fattore determinante dell'evoluzione sociale, mutando consuetudini, strutture e modi di operare. Si cercherà, invece, di definire, sotto il profilo metodologico, gli obiettivi da perseguire per il rinnovamento della pubblica amministrazione, tenendo presenti gli strumenti tecnici che oggi possono essere impiegati. Prima, però, di sviluppare queste considerazioni, sembra necessario esaminare, dal punto di vista operativo, le attività che debbono essere eseguite per dare inizio ad un' azione riformatrice che, realisticamente, voglia gettare le basi per fare della pubblica amministrazione un organismo moderno ed efficiente.
Per affrontare una sostanziale ristrutturazione della pubblica amministrazione, in senso moderno e non puramente nominalistico e formale, occorre por mente alle possibilità offerte dall'impiego delle moderne tecnologie, nonché agli adattamenti anche sul piano normativo - che tale impiego esige rispetto ai metodi tradizionali.
Quando si parla di moderne tecnologie non si allude solo all'impiego degli elaboratori elettronici, dell'ultima generazione, ma all'intero hardware: telecomunicazioni, con le più disparate unità terminali; macchinari in grado di rendere più rapida e più efficiente l'attività operativa di tipo amministrativo; strumenti di comunicazione e di registrazione indispensabili per dare facilità di coordinamento e di partecipazione al lavoro di gruppo. A ciò va aggiunto l'inderogabile ricorso agli strumenti di tipo software, nel cui ambito, oltre allo sviluppo di precisi programmi applicativi sul piano della gestione, vanno considerati i modelli di comportamento, di simulazione e di previsione.
Tuttavia, riconosciuto il carattere pur sempre strumentale della tecnologia, è necessaria, in primo luogo, sotto il profilo metodologico, un'attenta analisi dell'intero sistema costituente la pubblica amministrazione, allo scopo di definire i limiti di competenza e di responsabilità sul piano operativo, funzionale e organizzativo, in rapporto agli enti esterni, con i quali in vario modo interagisce. Infatti, solo l'esatta collocazione del sistema a livello globale permette di enucleare, con il massimo di chiarezza, i compiti fonda- mentali a livello decisionale e a livello operativo, ponendo in evidenza le aree di comunicazione con l'ambiente esterno, secondo procedure ben definite nella loro collocazione spaziale e temporale.
Esaurita questa fase preliminare sarà possibile, secondo l'impostazione che comunemente prende il nome di analisi dei sistemi, procedere all'esame delle strutture organizzative e funzionali esistenti all'interno della pubblica amministrazione. Questa analisi, che dovrà essere condotta per fasi successive tendenti ad esercitare un controllo di controreazione sulla bontà delle scelte e degli assetti prefigurati, sarà sviluppata per sottosistemi. Infatti, risulta ormai consolidato l'indirizzo che consiste nel procedere, all'interno del sistema totale, mediante l'identificazione di talune aree, o sottosistemi, corrispondenti a gruppi di obiettivi ben definiti e, nello stesso tempo, caratterizzate da minimi collegamenti con altre parti del sistema.
Questo tipo di analisi, oltre a definire con precisione le finalità che si intendono perseguire nell'ambito di ciascun sottosistema, attraverso un numero di attività ben identificate nel tipo e nelle modalità operative, rende anche possibile organizzare un'azione di coordinamento e di sintesi fra più sottosistemi, secondo le necessità dei livelli direzionali più elevati. Ogni sottosistema risulta, quindi, una parte del sistema totale, e presenta ben individuati e localizzati elementi di comunicazione con le altre parti. La suddivisione in sottosistemi riflette, da un lato, le necessità di specializzazione e, dall'altro, le esigenze di una struttura organizzativa chiamata a raggiungere obiettivi precisi, nell'ambito di limiti operativi consolidati e mediante modi di procedere che si adeguino con efficienza alle effettive necessità.
È chiaro, dalla definizione data, che non necessariamente il sottosistema dovrà trovare identificazione con un preesistente settore della pubblica amministrazione, ma logicamente potrà corrispondere in alcuni casi a settori apparentemente diversificati e in altri a frazioni di questi opportunamente combinate.
Infatti, molto spesso i singoli sottosistemi operano associando, secondo rapporti di varia natura, le attività di competenza di più ministeri; evidentemente in tali casi sorgono alcune difficoltà di natura giuridica attinenti allo strumento o alla autorità decisionale chiamata a regolare la struttura e l'attività di un sottosistema. Tenuto conto dell'interazione esistente in alcuni casi con gli organi ausiliari dello Stato, si pongono delicati problemi decisionali riguardanti il coordinamento, che andranno, di volta in volta, posti nella sede opportuna. Quest'ultimo aspetto non è trascurabile.
Nell'ambito di ciascun sottosistema, lo sforzo dovrà essere orientato verso soluzioni che assicurino contemporaneamente l'espletamento di un servizio più efficiente, l'adempimento dei controlli richiesti e, infine, l'acquisizione e la sistemazione di tutti gli elementi informativi necessari per operare le elaborazioni ai diversi livelli di sintesi richiesti dall'attività direzionale.
Quest'ultimo aspetto (quello dell'acquisizione e della elaborazione dei dati, occorrenti per una sempre migliore attività decisionale) richiede attrezzature speciali e pone problemi particolari, come quello che va sotto il nome di real time.
Un disegno di tale ampiezza può essere associato a parametri di efficienza di valore numerico variabile in un certo campo e a cui vengono associati, correlativamente, costi di sviluppo e di gestione differenziati. Coloro che ne hanno la responsabilità debbono operare il giusto compromesso fra la qualità dei parametri caratterizzanti le attività del sistema e il costo che ciascuno di essi comporta. Per questa via sarà possibile accelerare l'iter burocratico del controllo e dell'autorizzazione; sarà possibile venire incontro alla crescente domanda proveniente dal mondo del lavoro, ed espressa dai sindacati, di ottenere servizi più completi, meglio organizzati e più rapidi. Sarà possibile, inoltre, ai fini di una crescente razionalizzazione delle scelte e di un miglioramento delle decisioni, rendere disponibili contenuti informativi sempre più ricchi e aggiornati.
d) Ancora sui problemi dell'‛informatica'
A questo punto vanno presi in considerazione gli aspetti organizzativi e tecnici che condizionano un'azione di riforma, tendente a raggiungere l'efficienza auspicata.
Ci si trova, allora, di fronte ad attività contraddistinte da un accentuato carattere di interdisciplinarietà; un'attività che spazia dal campo strettamente giuridico a quello amministrativo, da quello economico a quello che comunemente viene indicato con il termine (in realtà ‛barbaro') di informatica. Si tratta, infatti, di procedere all'analisi del sistema costituito dalla pubblica amministrazione, di identificare, conseguentemente, gli obiettivi da raggiungere, e di predisporre un piano di sviluppo che realisticamente, e tenendo conto della situazione attuale, definisca le linee di raccordo, sul piano tecnico e su quello organizzativo, per conseguire una maggiore efficienza a tutti i livelli.
In questo complesso di attività, l'elaborazione elettronica dell'informazione nel campo più vasto dell'automazione è il settore che oggi, per portata applicativa, sovrasta di gran lunga gli altri pur ragguardevoli, già ricordati poco fa: la tecnologia educativa, le telecomunicazioni e l'impiego di tutto il macchinario oggi disponibile al servizio dell'attività amministrativa. È comune convinzione che alcuni principi generali di logica costituiscano il presupposto indispensabile per una scelta innovatrice sul piano organizzativo. Tali principi non riguardano soltanto il funzionamento dell'elaboratore elettronico in sé, ma la struttura informativa che con l'elaboratore è possibile archiviare, elaborare e distribuire ai vari livelli di utenza. Si pone quindi con evidenza la necessità di predisporre un gruppo di coordinamento che contempli e riassuma le varie competenze richieste per la concessione e lo sviluppo di un sistema capace di rispondere alle necessità di integrazione intersettoriale nell'ambito di un organismo, in cui coesistono, sul piano operativo e direzionale, le attività più disparate.
Sulla scorta dell'esperienza fatta negli altri paesi a noi vicini anche per la struttura del loro ordinamento amministrativo, si può affermare, ormai, che condizione necessaria per promuovere con successo un'azione riformatrice è che l'attività di analisi, di pianificazione e di realizzazione sia concentrata in un gruppo di lavoro al massimo livello di responsabilità. Il compito da assegnare a tale gruppo è quello di portare avanti, in modo sistematico, un piano di attività che copra tutto il sistema nella sua globalità, ai diversi livelli operativi e decisionali. Tale piano, a sua volta, deve porsi due obiettivi essenziali: il primo concerne la formulazione di precise proposte di natura legislativa atte a rimuovere impedimenti normativi preesistenti; il secondo, che risulta intimamente connesso al precedente, riguarda la ricerca di un nuovo assetto organizzativo, tecnico e funzionale per le varie parti del sistema.
Per quanto concerne il primo obiettivo, è chiaro che la necessità di nuovi provvedimenti legislativi si pone con particolare urgenza nel nostro paese, ove risulta ormai di lontana origine l'ordinamento amministrativo, in particolare per quanto concerne le procedure dell'entrata e della spesa pubblica, nonché l'espletamento dei controlli e delle approvazioni previste da parte degli organi competenti. I nuovi compiti, oggi assegnati alla pubblica amministrazione, richiedono con crescente urgenza un adeguamento delle norme legislative esistenti. Questo problema investe, di conseguenza, gli aspetti riguardanti un nuovo inquadramento del personale e nuovi criteri di scelta dei mezzi tecnici e delle prestazioni esterne, delle quali si può criticare l'abuso, ma delle quali l'amministrazione della cosa pubblica oggi realmente necessita nel quadro di una obsolescenza tecnica degli impianti e di un ancora tardivo aggiornamento professionale: veri nodi critici ai fini della realizzazione di un sistema efficiente.
Per quanto concerne il secondo obiettivo, alcuni punti meritano qui di essere sottolineati. In primo luogo occorre garantire ai singoli settori costituenti la pubblica amministrazione le condizioni di coerenza, sul piano operativo e informativo, richieste per una gestione integrata della cosa pubblica. A questo scopo si rende necessario assegnare, secondo valutazioni globali di convenienza, compiti ben precisi nella rilevazione dei contenuti informativi elementari necessari per le molteplici finalità, secondo livelli di aggregazione e di trattamento statistico rispondenti ai bisogni prevedibili.
A tale proposito, oltre all'evidente opportunità di eliminare duplicazioni e distorsioni originate da un'azione di coordinamento non adeguata, si pone il problema della definizione di chiavi di identificazione dell'informazione, archiviata secondo le moderne tecniche di trattamento automatico dei dati. Infatti, garantite le condizioni di efficienza nella fase di creazione e gestione di questi archivi, comunemente chiamati anche ‛banche dei dati', e definite le competenze specifiche dei settori della pubblica amministrazione, che possono concorrere in modo differenziato alla costruzione e all'impiego di questi sistemi, non possono essere tralasciati alcuni aspetti di natura sociale, che vanno acquistando crescente importanza. Alla base dell'organizzazione logica e fisica di questi archivi si ritrova un contenuto informativo elementare identificato da un codice numerico, alfabetico o di tipo misto, che porta univocamente all'individuazione dell'entità irriducibile di riferimento.
Molto spesso - e un analogo problema si verifica nel campo assicurativo, in quello bancario, in quello medico e in altri ancora - la chiave di identificazione è correlata in modo biunivoco ad un preciso cittadino. Evidentemente, a sostegno di queste iniziative, vengono addotti vantaggi facilmente dimostrabili sul piano dell'assistenza sociale, della prevenzione del crimine, della giustizia tributaria, ecc.
In verità, è difficile disconoscere che la società industriale, non soltanto nella sfera della pubblica amministrazione, pone oggi la necessità di una serie di rilevazioni puntuali, indispensabili per fornire una migliore conoscenza di una realtà pluralistica che richiede, in ogni campo, un ventaglio di iniziative e di interventi.
Il sorgere, a ritmo serrato, di applicazioni di questo genere, immediatamente puntualizzate e diffuse sul piano internazionale, ha imposto un problema di natura sociale nei confronti del quale si è alla ricerca di soluzioni adeguate: trattasi degli aspetti inerenti alla salvaguardia di tutto quanto concerne la vita privata del cittadino. In linea di principio si manifesta aperta disposizione per un tipo di progresso tecnologico incentrato sull'organizzazione di banche dei dati e per le conseguenze positive che ne possono scaturire per l'uomo. Tuttavia, di fronte alla crescente utilizzazione di tali ‛banche', sempre maggiore attenzione si pone su alcuni effetti negativi già riscontrabili in alcuni paesi, consistenti nella minaccia al diritto di privacy dell'individuo.
Un secondo aspetto riguarda il tema molto dibattuto dell'accentramento e del decentramento. Senza affrontare in questa sede un argomento così ampio, è possibile affermare che, indipendentemente dalle necessità di decentramento, alle quali si va dando con l'ordinamento regionale una risposta di grande portata storica, la trasformazione organizzativa auspicata debba incentrarsi su una forma di gestione integrata che soddisfi una duplice esigenza. È possibile, infatti, accogliere sia le istanze di partecipazione che la periferia va giustamente ponendo, consapevole di poter contribuire alla conoscenza e alla soluzione di certi problemi, sia le richieste di una visione globale dei molteplici aspetti, possibile solo centralmente. Anche da questo punto di vista, l'informazione risulta uno strumento indispensabile per garantire la complementarietà dei ruoli assegnati alla periferia e al centro. Le attività tecniche di tele-elaborazione non possono essere ignorate nel momento in cui si voglia rendere operativa un'azione di riforma che armonizzi, ponendole in sincronia, le competenze decentrate in rapporto a quelle che rimangono centralizzate. Questa è l'unica via per consentire una visione globale e sintetica dei molteplici fenomeni che oggi interessano la cosa pubblica e sui quali l'amministrazione è chiamata ad intervenire con azioni di grande portata, quali quelle che competono ad uno Stato moderno.
Un terzo aspetto, che risulta senz'altro critico nelle condizioni attuali, è quello del personale della pubblica amministrazione. Trattasi, all'incirca, del 10% delle forze lavorative del nostro paese, e costituisce un problema di difficile soluzione. Evidentemente si tratta di un discorso da affrontare nei molteplici aspetti giuridici, economici e di qualificazione, affinché possano essere raggiunti i livelli di efficienza che una pubblica amministrazione deve fornire.
Il discorso ritorna così al problema, che abbiamo già discusso nel corso di questo articolo, della preparazione del personale.
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