Amministrazione pubblica
In scienza dell'amministrazione si descrivono come 'amministrazioni' gli apparati aventi il ruolo dell'amministrare. Accogliendo in linea generale la distinzione economicistica fra attività primarie, secondarie e terziarie, si rileva che esistono apparati per lo svolgimento di attività primarie (l'azienda agricola, la fabbrica industriale), secondarie (l'azienda commerciale, di trasporti) e terziarie. Le amministrazioni appartengono a questo terzo gruppo; ma, come tutti gli apparati, anch'esse sono complessi di servizi, di persone, di beni, di macchine, ordinati secondo un 'disegno organizzativo' unitario, volti a produrre servizi determinati allo svolgimento di attività primarie e secondarie, così come ogni attività terziaria.Sempre in scienza dell'amministrazione si osserva che le attività primarie e secondarie di modesta dimensione sono svolte da persone singole o associate, al massimo con delle prestazioni d'opera fornite da familiari, aiuti, stipendiati. Ma non appena superano una dimensione, che varia per attività, tempo e spazio (non è cioè determinabile secondo regole generali), per essere disimpegnate con profitto esse richiedono prestazioni interne di servizi amministrativi. Il piccolo artigiano, il coltivatore diretto, il commerciante, il 'padroncino' di un camion, possono operare individualmente, o con associati o con aiuti; ma non appena si passa all'imprenditore industriale medio, alla grande azienda agraria, all'impresa di trasporti operante sul piano anche solo interregionale, occorre che gli imprenditori si servano dell'opera di direttori, dirigenti di settore, segretari, contabili, tecnici di macchinari, cioè di servizi amministrativi.
Di regola essi fanno parte dell'impresa e la organizzano. Ciò mostra che gli apparati amministrativi si dividono fondamentalmente in due categorie: gli apparati che servono altri apparati per attività primarie e secondarie, e gli apparati autonomi, adibiti cioè solo al disimpegno di attività amministrative (per esempio l'apparato di un ente previdenziale o di un'amministrazione di polizia). Ma mostra altresì che tra le funzioni primarie di ogni apparato amministrativo, anche servente, vi è l'attività dell'organizzare: ossia un apparato amministrativo serve a organizzare altri apparati concernenti attività primarie e secondarie, e organizza quindi anche se stesso; più aumenta la dimensione dell'apparato amministrativo, più aumenta la rilevanza dell'attività autorganizzativa.
Si vedrà in seguito come queste precisazioni nozionali siano solo apparentemente teoriche: nel mondo moderno, infatti, i pubblici poteri svolgono anche attività primarie e, soprattutto, secondarie. Basti considerare, per avere subito un referente, ciò che è, in Italia, l'Ente Nazionale per l'Energia Elettrica, ENEL. Comunque è possibile procedere subito a una constatazione: che figure soggettive aventi una 'amministrazione' non sono solo quelle che 'amministrano', ma anche quelle che svolgono altre attività, produttive, di intermediazione, di servizi.Ciò premesso, è subito percepibile che 'amministrazioni pubbliche' si dicono tutti gli apparati amministrativi di pubblici poteri. A questi fini identificatori è indifferente che la figura soggettiva costituente il pubblico potere sia, per le qualificazioni giuridiche che gli attribuisce la normazione di un ordinamento giuridico positivo, un ente pubblico o privato, riconosciuto o non riconosciuto, un organo, un munus, un'associazione, un aggregato. Ha rilievo solo il dato, di fatto, che esso possieda un apparato amministrativo e che sia un pubblico potere.
Si intende quindi come le amministrazioni pubbliche esistano da quando esiste un minimo di organizzazione delle società civili. Se quindi una tribù amazzonica neppure oggi possiede una propria amministrazione così come non la possedevano le tribù ariane al momento in cui invasero l'Europa, si può dire che queste stesse tribù se la costituirono quando, una volta stanziatesi su territori definiti, ebbero bisogno di autorità che si occupassero dei culti, dell'organizzazione militare, dell'assegnazione delle terre.L'ipotesi di coloro i quali ritengono che le amministrazioni pubbliche sorsero quando per popoli stanziati su grandi fiumi si pose l'esigenza di regolare in modo lesto e disciplinato la distribuzione delle acque (Wittvogel) è accettabile solo in parte. Non v'è dubbio che le amministrazioni pubbliche per regolare l'uso delle acque del Nilo, dell'Eufrate, dello Yangtze Kiang, furono le prime amministrazioni che raggiunsero ragguardevoli dimensioni, ma occorre aver presente che accanto a queste attività ve ne erano altre parimenti rilevanti, come quelle che oggi diremmo dell'organizzazione costituzionale, dell'organizzazione militare, della sicurezza degli scambi.
D'altra parte non è neppur accettabile la tesi di coloro che negano che siffatte organizzazioni pubbliche fossero amministrazioni, dicendo che erano semplici apparati serventi alle dipendenze dei sovrani. Anche se ciò può essere vero - non si possiedono dati sicuri in proposito -, siamo già a una qualificazione strettamente giuridica, che potrà anche avere grande interesse, ma non incide sulla vicenda dell'esserci consistenti apparati organizzati, volti a erogare un servizio: quindi amministrazioni pubbliche nel senso sinora individuato.Il punto è che le qualificazioni giuridiche non necessariamente coincidono con quelle della scienza dell'amministrazione. Un esempio vistoso lo si ha nelle organizzazioni delle confessioni religiose (in particolare della Chiesa cattolica), le quali dal punto di vista della scienza dell'amministrazione sono delle organizzazioni amministrative pubbliche, se si vuole di carattere particolare, mentre da quello giuridico non sono nulla di ciò, nel senso che sono complessi disaggregati di uffici serventi di enti o di munera. Né è sostenibile che si possa prescindere dalle qualificazioni giuridiche, poiché, se le organizzazioni amministrative sono chiamate a operare nelle società civili, la conformazione che esse ricevono dalla normazione giuridica necessariamente diviene dominante per qualificare le attività che esse pongono in essere, gli effetti degli atti, le responsabilità.
Del resto anche oggi è così. A parte l'esempio delle confessioni religiose, si consideri il caso delle grandi imprese multinazionali: esse possono avere organizzazioni amministrative gigantesche, maggiori perfino di quelle di un piccolo Stato. Tuttavia sono e restano amministrazioni di grande impresa privata, e non esercitano, né possono esercitare, alcuna potestà pubblica, come invece accade per l'amministrazione del più minuscolo Stato o ente pubblico.La conclusione di questo breve discorso è perciò che le amministrazioni pubbliche sono amministrazioni nel senso lato della nozione propria della scienza dell'amministrazione, ma aventi conformazioni giuridiche proprie, disposte dalle norme degli ordinamenti giuridici in cui sono operanti. Queste norme hanno cambiato profondamente il loro contenuto nel tempo; con più precisione, le norme regolatrici di apparati amministrativi pubblici come tali sono dell'età moderna, successive al XVI secolo; prima vi sono norme sulle strutture costituzionali pubbliche, dalle quali si desumono norme sugli apparati amministrativi.Va posto in evidenza che quanto si è testé detto rappresenta la concezione moderna in materia.
Nel secolo scorso sia la scienza giuridica che la scienza politica erano convinte di aver fissato degli ordini concettuali di valore universale, validi senza condizioni nel tempo e nello spazio. Per cui gli elaborati concernenti le amministrazioni pubbliche sortirono l'effetto di far ritenere che quanto si veniva producendo nella scienza del diritto amministrativo o in altre scienze si potesse applicare agli ordinamenti giuridici del mondo antico e medievale, d'Europa e d'Asia, monarchici e democratici, onde si scrisse di un diritto amministrativo degli Assiri e dei Romani, dell'Impero carolingio e dell'Impero cinese. Per pervenire a un convincimento diffuso della storicità degli istituti politico-giuridici occorrerà circa un secolo, ma ancor oggi sussistono alcuni residui di quella concezione.
Così oggi è convincimento diffuso che il mondo antico non avesse amministrazioni pubbliche di carattere generale, bensì tanti apparati amministrativi separati tra loro, ciascuno facente capo a un ufficio pubblico, e strettamente adibito al servizio di questo. Onde, per esempio, l'ordinamento romano repubblicano che pure costituì, sotto l'aspetto costituzionale, un ordinamento molto complesso e molto sapiente per l'articolazione degli istituti che lo componevano, fu giuridicamente un ordinamento per munera pubblici: il concetto di organo, oggi addirittura di uso comune anche fuori del campo giuridico, era ignoto; vi erano munera pubblici, il cui titolare poteva avere piccoli o grandi apparati serventi, spesso composti di persone che neppure erano a carico dell'aerarium, ma a suo carico personale, e talora aventi la condizione di schiavi (servi aerari).Gli studi più recenti sulla costituzione romana (De Martino) danno notizia della varietà, e se si vuole, della poca consistenza istituzionale di tali apparati serventi. Occorrerà arrivare all'epoca imperiale per trovare strutture più vicine a quelle oggi proprie degli uffici.
Questo modo di conformare le organizzazioni delle strutture pubbliche, e gli uffici serventi addetti, in Europa giunge fino all'età comunale, salvo periodi - come quello carolingio e feudale - in cui si tentarono ordinamenti diversi, sui quali non ci si intrattiene non essendo questa una sede di storia delle istituzioni. Nell'età comunale si ha un'innovazione, che consiste nel fatto che nel frattempo l'inventiva giuridica ha introdotto la persona giuridica e l'ente giuridico senza personalità; applicandosi tali istituti al comune, vengono fuori degli enti permanenti i quali possono permettersi apparati amministrativi pur essi permanenti, al servizio non più delle persone ma dell'ente.Una volta introdotta l'istituzione, poiché la si trova utile, la si diffonde. Per cui anche le Corone, nel significato di organi monocratici (quindi non solo re, ma anche principi, duchi, ecc., capi di ordinamenti territoriali) cominciano a munirsi di apparati amministrativi permanenti.
Quando tali apparati vanno a comporsi di 'professionali', sorgono gli Stati. La tesi che gli Stati siano ordinamenti generali caratterizzati dalla formazione di burocrazie professionali, e perciò permanenti, è - come è noto - di Max Weber. Ha ricevuto molte critiche e proposte di integrazioni, ma sin'oggi non ne è stata avanzata altra più convincente. A ogni modo è con il formarsi degli Stati che sorgono consistenti amministrazioni pubbliche, sia come istituzioni giuridiche sia come realtà politiche.
A questo proposito va anche ricordato che lo Stato non costituisce un tipo strutturale degli ordinamenti giuridici generali esistente da sempre, come - ancora una volta - si pensava nello scorso secolo. È anch'esso un'istituzione storicamente datata, che nasce nel XVI secolo nell'Europa occidentale. Invero si discute se si possa definire Stato l'ordinamento della Cina, in cui sin dal periodo Ch'in è introdotta una burocrazia professionale, per di più scelta mediante pubblici concorsi; non vi sono dati sicuri per una risposta affermativa, ma quand'anche lo fosse, mancherebbero gli sviluppi che l'istituto ha ricevuto successivamente in Europa e che hanno portato alle problematiche del XIX secolo.
Le vicende delle amministrazioni pubbliche dopo la formazione degli Stati si possono dividere in tre periodi: le amministrazioni della Corona, sino a tutto il XVIII secolo; le amministrazioni dello Stato borghese dopo il XVIII secolo; le amministrazioni contemporanee.'Amministrazioni della Corona' è locuzione convenzionale, derivante dal fatto che l'assoluta maggioranza degli Stati, dopo il XVI secolo, sono regni e principati. Peraltro anche nelle poche repubbliche esistenti le strutture sono le medesime: organi e uffici che giuridicamente vengono considerati apparati serventi del - diremmo con terminologia moderna - capo dello Stato. Si consideri che da noi, pur dopo la diversa esperienza del secolo scorso, nelle denominazioni ufficiali si riscontravano ancora residui di questa più antica condizione: regia marina, regie poste, regio prefetto, e simili. In realtà erano meri nomi, perché non si avevano più uffici della Corona.
Le amministrazioni della Corona comprendevano organi centrali (viene ripresa la parola bizantina di 'ministero') e organi locali (i più noti e studiati sono gli intendenti nel regno di Francia). In seguito si è discusso se tali istanze potessero esattamente essere dette organi, o non fossero piuttosto dei meri uffici di un apparato, essendo dubbia l'esistenza di un 'ente' a cui i supposti organi potessero imputare i propri atti. Peraltro forse nel porsi queste problematiche si pretendeva troppo, in quanto lo Stato dei secoli iniziali non aveva quel rigore di partizioni giuridiche che si è avuto invece nel secolo scorso come conseguenza di precisi principî costituzionali.
In molti degli Stati del periodo, accanto alle strutture costituzionali-amministrative, esisteva un'organizzazione con personalità giuridica, che era detta il 'fisco'. Si trattava di un ente privato che gestiva tutti i rapporti dello Stato che avessero un contenuto patrimoniale: percezione dei tributi, amministrazione dei consistenti patrimoni immobiliari della Corona, locazioni di immobili pubblici, appalti e forniture, ecc.; godeva ovunque di numerosi privilegi, tanto che in alcuni paesi si formò una nuova disciplina giuridica, che fu lo jus fisci. In tal modo si era trovato un accorgimento che permetteva di dare una certa unità alla gestione finanziaria dello Stato e faceva risolvere con strumenti di diritto privato questioni che altrimenti non avrebbero trovato soluzioni.In questi Stati, oltre alla Corona con tutto il suo apparato civile e militare, e oltre al fisco, esistevano peraltro una quantità di altri pubblici poteri, territoriali e professionali.
Per quanto attiene all'Europa continentale, gli storici (Astuti, Paradisi) hanno posto molto bene in rilievo come i poteri pubblici territoriali avessero di regola dei regimi fondati su 'carte di privilegio', cioè su atti delle Corone con i quali venivano riconosciuti ai poteri medesimi (spesso entificati, ma non sempre) delle potestà pubbliche, dei diritti, delle attribuzioni riservate. Per cui essi non costituivano quasi mai figure determinabili in modi unitari, come invece avverrà nel secolo successivo; solo nel XVIII secolo in taluni Stati si tenteranno delle legislazioni unitarie (in Italia, il Granducato di Toscana). Quanto agli enti professionali, che dallo scorso secolo si usa raggruppare nella denominazione generica di 'corporazioni', si era in presenza di eredità di regimi dei secoli precedenti, e in nessuno Stato vi fu mai forza politica sufficiente per intervenire e regolare i molti privilegi di cui essi fruivano.
Apparati della Corona, enti territoriali vari, corporazioni, costituivano le amministrazioni pubbliche. Si noti come altri enti, che poi diverranno soggetti pubblici, erano allora enti privati: le istituzioni di beneficenza e le università erano fondazioni di diritto comune, gli enti bancari, anche centrali come il Banco di Napoli o il Monte dei Paschi, erano enti privati imprenditoriali. Anche le amministrazioni pubbliche usavano le normazioni del diritto privato nella loro attività e nei loro rapporti (v. § 2d).Quanto sinora si è esposto costituisce ciò che potrebbe dirsi il nucleo centrale uniforme dell'esperienza giuridico-politica dei diversi paesi costituenti l'Europa, ed è, come si può constatare, alquanto poco. Ciò perché mai come in questo periodo ogni paese seguì propri itinerari. Vi sono delle identità dovute a cause politiche e di vicinato territoriale, come per esempio regno di Francia-regno di Sardegna, ma anche paesi con strutture e tradizioni comuni, come quelli scandinavi, che seguiranno vie diverse nelle riforme che intraprenderanno nel Settecento.
Di tali esperienze diversificate deve dirsi di due: l'Inghilterra e l'Austria.
L'Inghilterra si presenta subito come ordinamento diverso da quelli dell'Europa continentale per due elementi: la presenza di un Parlamento attivo e il sistema dei poteri locali, cui si aggiunge la generalizzazione dell'istituto della rappresentanza politica. Invero di parlamenti se ne sono avuti anche in altri paesi dell'Europa, ma quello inglese si caratterizzò subito per essere espressione di forze politiche proprie, agenti secondo linee alternative rispetto a quelle della Corona, anche se, pur esse, forze centrali all'interno dell'ordinamento generale. La storia costituzionale inglese è ben nota, ed è noto quindi quali conflitti, anche sanguinosi, si ebbero tra Corona, Parlamento e altre forze politiche emergenti, anche - e anzi specie - nel periodo di formazione degli Stati. Comunque, con gli sviluppi della 'gloriosa rivoluzione' del 1688 la situazione si assesta e l'Inghilterra si organizza, per l'aspetto costituzionale, nel primo Stato parlamentare della storia, ordinato al centro in Parlamento bicamerale, governo responsabile di fronte al Parlamento e alla Corona, e localmente in borghi e contee, intesi come organi dello Stato in regime di autoamministrazione, e quindi rappresentativi delle stesse forze politiche che sono rappresentate al centro nella Camera dei comuni, cioè, in sostanza, proprietari terrieri e borghesia imprenditoriale (ciò che poi si dirà l'establishment di comando).
Questa serie di eventi particolari dell'Inghilterra fa sì che essa vada a costituire un modello proprio di Stato, completamente distinto dagli altri Stati dell'Europa, sia per le istituzioni giuridiche che per il gioco delle forze politiche. In esso non vi sono organi locali del potere centrale, in quanto le contee e i borghi sono già essi stessi organi dello Stato, ed esiste una netta divisione di attribuzioni tra i poteri centrali e i poteri locali: i primi si occupano solo di amministrare la marina militare, l'esercito, la diplomazia, le giurisdizioni centrali, e hanno potestà tributarie limitate a talune imposizioni (dogane, excises); tutte le altre attribuzioni pubbliche, compresa la polizia, sono dei borghi e delle contee.
Va appena ricordato che il modello inglese, già nel XVIII secolo, fu considerato il più evoluto esistente e fornì la base per la teorizzazione del principio della tutela delle libertà, per quello della rappresentanza popolare, per quello della divisione dei poteri, per quello del decentramento - meglio, della razionale distribuzione tra centro e periferia delle attribuzioni dello Stato -, per quello della responsabilità politica del governo dinanzi al parlamento, e di altri minori. Sicché esso costituì l'esperienza sulla quale si elaborò la teoria politica dello Stato borghese dell'Ottocento; già nel secolo precedente, dapprima con la 'scoperta' che ne fecero Hobbes e specie Locke, poi con la teorizzazione che, per la parte più propriamente giuridica, ne fece Montesquieu, e infine con l'assidua popolarizzazione che ne fece l'intero movimento dell'illuminismo, ne era nota la dignità di modello costituzionale e amministrativo dello, per allora, Stato moderno.L'esperienza dell'Austria non ebbe le valenze costituzionali di quella inglese, ma ne ebbe di amministrative, in quanto costituì la prima amministrazione pubblica moderna. Anch'essa si sviluppò nel XVIII secolo, con Maria Teresa e i suoi successori, e si concretò nell'introduzione di nuovi istituti o nella rifondazione di istituti già esistenti: i ministeri, gli organi di amministrazione finanziaria, il catasto, l'imposizione diretta, gli arsenali pubblici, lo stato civile, l'annona, gli enti di beneficenza pubblica, gli enti di promozione dell'industria e del commercio, gli enti di ausilio della cultura e delle arti; praticamente tutti gli istituti amministrativi furono coinvolti dall'azione riformatrice, e molta attenzione fu anche dedicata ai problemi del personale pubblico: reclutamento, addestramento nell'ufficio, selezione e carriera; anche se il personale aveva stato giuridico di diritto comune, si introdussero istituti e regole che poi sarebbero passati nel repertorio delle normative che in tempi successivi avrebbero introdotto lo stato giuridico pubblico.Il successo delle riforme austriache fu grandissimo e investì quasi tutta l'Europa continentale; esse furono imitate non solo dagli Stati legati all'Austria da vincoli dinastici (come la Toscana), ma da tanti altri, come i vari paesi germanici, le Due Sicilie, la Spagna, il Portogallo, la Danimarca, ecc.
Nei paesi germanici sorse una nuova disciplina giuridica, che ebbe il nome di 'diritto della polizia' (Polizeirecht), ove Polizei era l'antica 'politeia', il governare e l'amministrare. Così come sorsero la 'cameralistica' e la 'scienza della legislazione': la prima, nata per lo studio dell'attività delle 'camere', cioè, in termini moderni, delle amministrazioni del tesoro, annoverò pensatori notevoli se si considerano personalità come Sonnenfels e Justi (il quale anticipò idee come quella della programmazione economica), e nel secolo successivo si trasformò nella scienza delle finanze; la seconda, nata come disciplina di studio dell'attività politica dei governi degli Stati, alla fine del secolo successivo confluì nella scienza politica.
È indiscutibile, comunque, che nel XVIII secolo per le amministrazioni pubbliche si verifica un salto di qualità: da uffici serventi, anche importanti, delle Corone e degli enti pubblici minori allora esistenti, quali erano nei precedenti secoli di formazione degli Stati, esse balzano al livello di organizzazioni a sé stanti, di rilevanza politica: sia per gli aspetti organizzativi sia per quelli sociali, consistenti nel formarsi di una borghesia burocratica, giusta la moderna espressione degli storiografi inglesi. Anche se giuridicamente esse sono legate ancora strettamente alle Corone, ai ministri delle Corone, agli amministratori degli enti, ai quali competono sempre i poteri decisionali supremi, in concreto vi sono delle attività che si dispiegano oramai interamente nell'ambito degli uffici delle amministrazioni pubbliche, e di molte di esse rimane anche oggi presenza: bonifiche di terreni paludosi, rettificazione di fiumi e apertura di canali navigabili, città rinnovate, nuovi porti, trasformazione di colture agrarie, e così via. Nei paesi germanici si dà un nome a queste nuove realtà, quello di Stato del benessere (Wohlfahrtstaat): i teorici del Polizeirecht si sforzano di elaborare Wohlfahrtstheorien per dire come lo Stato deve provvedere alla sicurezza, al benessere e alla prosperità dei suoi cittadini, e per studiare forme nuove o più efficienti per l'attività delle amministrazioni pubbliche.
Per diversità di ideologia politica il secolo successivo cancellerà quasi completamente questi elaborati teorici, che solo oggi stanno, se non riprendendo validità, almeno riattirando l'attenzione storica.Diversamente da quanto talora si è detto, il carattere saliente di questi Stati della fine del XVIII secolo è proprio l'essere Stati del benessere. Anche Stati che si affacciano al concerto degli Stati europei, come la Russia, coltivano quest'immagine e quantomeno adottano riforme radicali. Al limite è meno importante l'altro carattere, che pur si dice proprio di tali Stati, ossia l'essere 'Stati assoluti'. A parte il fatto che esso è predicabile per gli Stati dell'Europa continentale e non per l'Inghilterra o per i nascenti Stati Uniti d'America, con Stato assoluto, assolutismo, età dell'assolutismo si identificano due tratti di rilievo solo costituzionale: l'assenza, in tali Stati, di riconoscimenti giuridici delle libertà civili e politiche, e l'assenza di controlli dell'esercizio delle potestà pubbliche che competono alle Corone e agli altri titolari dei poteri sovrani. Ma questi due tratti caratterizzanti, sui quali si tornerà tra poco nel trattare della formazione dello Stato borghese, per quanto determinanti sotto gli aspetti costituzionalistici, non possono obliterare il fatto che nel frattempo le amministrazioni pubbliche sono venute alla ribalta della storia come organizzazioni di primo piano.Resta solo da dire che la locuzione di 'Stato di polizia', che i teorici del XIX secolo attribuiranno agli Stati settecenteschi, con intenzione spregiativa, non dice nulla di più di quanto già non sia compreso nella locuzione di 'Stato assoluto'. Qui 'polizia' non è più la 'politeia', del Polizeirecht, ma è la polizia nel senso, moderno per quel tempo, di amministrazione della polizia, attività allora essenzialmente limitativa e coercitiva.
Le rivoluzioni d'America e di Francia produssero un effetto di rottura nella situazione delle amministrazioni pubbliche come conseguenza della mutazione del tipo di Stato che da esse sorse.
Anche le vicende di ambedue le rivoluzioni sono note e, per quanto qui interessa, basta ricordare che da ambedue vennero fuori Stati che accoglievano il principio della rappresentanza popolare, della divisione dei poteri, del riconoscimento delle libertà civili e politiche (dichiarazioni dei diritti). Questo in linee di somma sintesi, poiché la Costituzione americana impiegò oltre dieci anni per essere adottata (1776, Dichiarazione d'indipendenza; 1787, adozione della Carta costituzionale; 1788, entrata in vigore con le ratifiche di nove Stati) e solo poi si completò con la Dichiarazione dei diritti.
Mentre in Francia, fra costituzioni e dichiarazioni dei diritti nel solo periodo rivoluzionario se ne ebbero cinque, cui seguì la costituzione napoleonica, e dopo quelle della Restaurazione. Sicché quando si parla di effetti delle due rivoluzioni, più che a carte costituzionali si fa riferimento a nuove realtà sociali, fermamente appoggiate al sostegno di un forte e convinto pensiero dottrinario che emerse nel XIX secolo indipendentemente da vicende politiche e istituzionali formali.Non senza ragione perfino l'ultima delle costituzioni del periodo rivoluzionario francese (1795) sarà poi chiamata costituzione 'borghese'. E infatti sia negli Stati Uniti che in Francia sarà la borghesia a detenere il potere politico, attraverso uno strumento giuridico molto preciso: la limitazione dell'elettorato attivo a chi avesse un censo, determinato nella misura dalla norma. Nell'ultima Costituente francese rivoluzionaria si discuterà a lungo circa questa norma ma alla fine essa passerà con solo tre voti contrari.
Poiché, per regola universalmente accettata, fra elettorato attivo ed elettorato passivo vi è piena corrispondenza, ne conseguiva che i possibili titolari di uffici pubblici elettivi erano poche centinaia di migliaia di persone; in astratto (dato che, in concreto, assai meno erano coloro che si interessavano alla vita politica), fra poco più di 300.000 persone si sceglievano i reggitori della Francia. Sicché si avevano, nella realtà, delle oligarchie aperte (non esistendo alcuno sbarramento per l'accesso alla ricchezza) padrone della cosa pubblica, le quali spesso amavano autodefinirsi 'democratiche', ma facendo ogni sforzo per opporsi all'allargamento delle maglie delle leggi elettorali, almeno fino a che la domanda delle classi popolari fosse resistibile.
Anche per questa vicenda, ogni paese segue le proprie strade. Gli Stati Uniti d'America saranno i primi, fra i grandi Stati, ad adottare il suffragio universale maschile, col XV emendamento del 30 marzo 1870 (mentre arriveranno al suffragio universale anche femminile solo nel 1920, col XIX emendamento, quando ormai sarà già in corso il cambiamento del tipo di Stato). È anche da tener presente che sul comportamento dei corpi elettorali allargati inciderà anche il cosiddetto 'sistema' dei partiti politici, sì che la maggiore o minore ampiezza dei corpi medesimi costituirà solo uno degli elementi del gioco politico di risultanza.A ogni modo la rappresentanza politica a base censitaria, cioè a suffragio limitato, si adotta prima o poi in tutti i paesi dell'Europa. Si aggiunge l'intera America, man mano che i suoi paesi diverranno indipendenti, anche se per questi il modello rimarrà sempre quello nordamericano. Questo fa sì che gli Stati del XIX secolo siano molto più simili tra loro di quanto non fossero quelli anche solo del secolo precedente, e che perciò tendano a costituirsi i medesimi istituti giuridici.Il che è immediatamente percepibile proprio per le amministrazioni pubbliche: esse vengono infatti subito intese come amministrazioni dello Stato o controllate da amministrazioni dello Stato. È un modo d'intendere su cui neppure più si discute, né in Francia (cfr., per esempio, Cormenin), né in Italia (Garelli), né in Germania (Gerber). Il fatto che la marina militare sia sempre detta 'regia marina' sta solo a significare, per gli autori, che lo Stato di cui essa è apparato amministrativo ha veste formale di monarchia: è un'espressione solo protocollare.
Nell'essere amministrazioni dello Stato, si dice, le amministrazioni pubbliche vengono rese più indipendenti, perché non sottostanno più al possibile capriccio di un singolo, ma vengono inserite in un meccanismo di decisione che vede sempre la partecipazione di più organi costituzionali: anche se ciò in fatto può non essere sempre vero, si tratta di patologie dei rotismi istituzionali, poiché là dove questi funzionano (e ancor una volta è l'Inghilterra il punto di riferimento) ciò non accade.Ma a che devono provvedere le amministrazioni dello Stato? La risposta della dottrina è ancora una volta unitaria: all'esercizio delle funzioni pubbliche. E le funzioni pubbliche sono innanzitutto la gestione della spesa pubblica e l'imposizione tributaria, come funzioni strumentali primarie; indi i rapporti internazionali, la difesa militare, la polizia. Quest'ultima non è più, come nello Stato del benessere, l'attività volta alla felicità dei cittadini: nello Stato borghese questa categoria va totalmente perduta, poiché si ritiene che la felicità sia un fatto privato, che ciascuno si procura con le proprie capacità e i propri mezzi. La polizia si scinde in due: la polizia di sicurezza, volta a mantenere l'ordine pubblico, e la polizia amministrativa, volta a prevenire e a reprimere frodi e adulterazioni nelle attività che riguardano l'agricoltura, l'industria, il commercio, i trasporti; vi sono leggi che stabiliscono i pesi e le misure; compete agli organi della polizia amministrativa vigilare a che non si usino apparecchi di peso e di misura non rispondenti alle norme, e quindi controllare e reprimere le eventuali trasgressioni.
Le cinque funzioni sopra elencate sono quelle necessarie e indispensabili per uno Stato. Può accadere che una normazione positiva ne conosca anche delle altre, ma è raro, poiché la funzione della polizia amministrativa, così come era concepita, era talmente indeterminata da poter virtualmente comprendere qualsiasi cosa: l'uso delle acque, l'arruolamento degli equipaggi marittimi, la messa in circolazione di sostanze pericolose (come i veleni) o deteriorabili (come il pesce), il controllo dell'alcolismo, le vaccinazioni obbligatorie, e così via per qualsiasi comportamento che potesse arrecare danni o comportare rischi per la collettività se non tenuto o erogato secondo rettitudine. Ordini concettuali se si vuole generici, ma appunto per ciò passibili di applicazioni svariatissime, tenute insieme però dalle nozioni - che più volte si tentò di elaborare in modo scientificamente accettabile - di lotta alle malattie sociali (come la povertà) o alle sregolatezze sociali (come la sofisticazione di prodotti), ecc. Quest'ordine di concetti già esisteva nello Stato del benessere; adesso viene ripreso, inserito in categorie precise, portato avanti con molta maggior decisione in quanto affidato ad apparati amministrativi molto spesso specializzati.
Quanto invece alle attività di interesse generale ma non comportanti l'esercizio di una funzione, cioè quelle che più tardi saranno dette pubblici servizi, lo Stato borghese professa di non doverne rendere: spettano ai privati, se necessario sotto il controllo della polizia amministrativa (com'è per i trasporti di linea, l'assistenza ospedaliera, ecc.). Si ammettono due sole eccezioni, ma più apparenti che autentiche. La prima è data dai servizi che non sono appetiti da imprenditori privati perché troppo costosi rispetto al rendimento, o addirittura senza rendimento: tali le opere pubbliche di certe dimensioni. Un privato non ha interesse a costruire strade, ponti, porti, opere idrauliche, in quanto non gli rendono nulla, non potendo imporre, perché in contrasto col principio costituzionale di eguaglianza, pedaggi o pagamenti di diritti d'uso per le opere stesse; nella maggioranza dei casi inoltre non avrebbe neppure capitali adeguati; di conseguenza costruzione e manutenzione delle opere pubbliche è servizio che può spettare a pubblici poteri: lo Stato o gli enti locali. Simili sono i servizi igienici, come la nettezza urbana (il ritiro dei rifiuti solidi urbani) che si affida ai comuni.
La seconda eccezione è data dai servizi per i quali vi è, se non la necessità, quantomeno una opportunità pronunciata di tutelare delle libertà costituzionalmente garantite. Fu questa la ragione ufficialmente fornita per statizzare i servizi postali, gestiti da imprese private: certamente da parte di queste vi erano stati casi di turbativa della libertà di corrispondenza e di non recapito di lettere e di pacchi, ma interessante fu che si ritenne non sufficiente un controllo della polizia amministrativa sull'imprenditore di posta e si preferì statizzare un servizio, oltretutto complesso e costoso come quello postale.
Si è visto come alcuni dei servizi pubblici siano di attribuzione dei comuni e delle province, cioè di enti pubblici 'minori', i soli enti riconosciuti come pubblici in questo periodo, beninteso negli Stati dell'Europa continentale. Le opere pubbliche d'interesse locale e i servizi igienici sono i principali, ma tali enti esercitano anche pubbliche funzioni, in particolare di polizia amministrativa, nella specie di controlli sulle attività produttive (agricoltura e industria, 'arti e mestieri') e d'intermediazione (commercio). Per questa ragione, essenzialmente politica, gli enti minori con le loro amministrazioni - sempre nell'Europa continentale - sono intesi quasi come delle appendici locali dello Stato e da questo ferreamente controllati. In Italia, in Francia e in altri paesi i sindaci sono capi elettivi delle amministrazioni comunali, ma sono altresì 'ufficiali del governo' nominati dal re e prendono ordini e direttive, da noi e in Francia, dagli organi locali generali dello Stato costituiti dai prefetti.
Quel che allo Stato borghese fu vietato di assumere furono le attività imprenditoriali e di gestione patrimoniale. Le amministrazioni delle Corone gestivano una quantità di 'manifatture' - secondo la denominazione in uso -, non solo di armi e di navi, ma anche di metallurgia, prodotti tessili, oggetti d'arte.
Le origini di queste manifatture erano varie: iniziative di signori locali, delle stesse Corone, di imprenditori privati. Gli Stati borghesi le alienarono tutte all'imprenditoria privata, salvo quelle pochissime che trasformarono in stabilimenti militari (arsenali) e in fabbriche di Stato (come, per ragioni culturali, le porcellane di Sèvres). Inoltre, le medesime amministrazioni possedevano enormi proprietà fondiarie, una volta appetite dalle amministrazioni medesime in quanto fonti di reddito. Anch'esse furono dismesse, quasi sempre a prezzo vile; la narrativa del secolo scorso è piena di personaggi arricchitisi con la speculazione su terre già 'demaniali' (ove demaniali significava quasi sempre solo pubbliche).Astensionismo economico è il nome che fu dato all'indirizzo di politica economica che raccomandava di non intervenire in attività primarie e secondarie e di non svolgere attività terziarie che potessero risolversi in un ausilio economico a favore di una qualche categoria di imprenditori. Sia la borghesia al potere che la dottrina dell'economia politica tenevano a che tale indirizzo fosse rigorosamente osservato, salvo il caso, ovviamente, in cui l'intera imprenditoria o un gruppo divenuto in essa dominante non avesse un interesse contrario.
A questo proposito, la letteratura dei più importanti economisti del tempo è piena di critiche contro l'abbandono degli indirizzi politici del liberismo, soprattutto per quelle che essi ritenevano le manifestazioni più clamorose, attinenti ai rapporti economici internazionali.
Lo Stato borghese sorse nel momento del decollo della rivoluzione industriale, e in ciò è una delle principali ragioni del suo successo. Se si facesse un'analisi comparata fra Stati borghesi nei quali la rivoluzione industriale aveva già avuto inizio (per esempio l'Inghilterra) e Stati borghesi nei quali questa era in ritardo (per esempio i paesi germanici) o non era ancora iniziata (per esempio la Spagna), si potrebbe riscontrare come i primi si posero immediatamente come Stati-guida nel campo politico-economico.
Anche qui va scontata la diversità degli itinerari storici seguiti: è chiaro che là dove, come in Inghilterra o in Olanda, la borghesia era ormai da tempo al potere, il perfezionamento o l'adozione del modello istituzionale dello Stato borghese ebbero solo valore di convalida consolidativa. Ma ciò che ha rilevanza è considerare che, con l'adozione del modello, altri paesi si allinearono rapidamente ai primi se la loro borghesia seppe prendere effettivamente il potere economico. Non meno significativo è il caso del complesso degli Stati tedeschi, nei quali l'industrializzazione fu tardiva (oltre la metà del secolo), ma essendo stata incentivata da leggi di protezione (quindi non liberiste) portò a fine secolo la Germania unita al rango di potenza mondiale.I fasti dello Stato borghese sono noti: tutte le tecniche, tutte le scienze, tutte le arti furono rinnovate a fondo; se ne vedrà subito un caso per le scienze che ci interessano, quelle giuridiche, ma è noto come, con l'applicazione delle nuove tecniche di ingegneria, gli Stati borghesi abbiano potuto realizzare opere pubbliche che in tempi precedenti nessuno avrebbe immaginato possibili, così come, con l'adozione delle nuove tecniche dell'informazione, fu possibile provocare in tempi brevi vasti movimenti d'idee e di opinioni.
Di tutti questi processi le amministrazioni pubbliche, centrali e locali, furono parti attive. Quindi nessun confronto è possibile con le amministrazioni dei tempi precedenti: i dirigenti delle amministrazioni dello Stato borghese fanno parte ovunque dei ceti di comando, della classe elitaria, secondo la terminologia che sarà introdotta in questo secolo, e di molti di loro ancora si conserva memoria. D'altra parte il limitato ambito di attività delle amministrazioni permetteva di operare selezioni, nel loro complesso abbastanza sicure, sia nelle carriere dette amministrative sia nelle carriere dette tecniche, per cui l'ingegnere dell'amministrazione dei ponts et chaussées di Francia aveva la medesima rispettabilità dell'ingegnere di una grande impresa privata.
Lo Stato borghese recava però in sé due elementi che lo corrodevano all'interno. Il primo era il principio di eguaglianza, proclamato in modo solenne da tutte le costituzioni emanate ed esistente pacificamente nelle costituzioni non scritte. L'art. 24 del nostro Statuto albertino era chiarissimo in materia, in quanto, dopo aver enunciato che tutti i "regnicoli", di ogni "titolo e grado", sono eguali dinanzi la legge, soggiungeva che tutti "godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessi alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi". La norma sull'elezione a deputato (art. 40) non conteneva alcuna "eccezione", ma solo voleva che il deputato riunisse "in sé gli altri requisiti voluti dalla legge".Dunque la statuizione costituzionale non conteneva alcuna limitazione al diritto politico di eleggere ed essere eletti (deputati o altro). Queste si trovavano tutte nelle leggi elettorali relative alle camere rappresentative e alle amministrazioni locali, ossia in testi di atti normativi subordinati ai principî enunciati nelle costituzioni; era qui che si disponeva che l'elettorato attivo spettava a chi avesse un determinato censo o un determinato titolo di studio, spiegando gli autori dell'epoca che solo a queste condizioni si poteva essere effettivamente 'liberi' e quindi capaci di giudizio politico.
Questa spiegazione non garbava per niente a coloro che non avevano né censo né titolo di studio, onde si aprirono discussioni a non finire, e si determinò una divisione sempre più accentuata tra liberalismo conservatore e liberalismo 'democratico', o di sinistra. Negli Stati Uniti, come si diceva, si arriva al suffragio universale nel 1870, per naturale evoluzione del sistema. In Francia vi si arriverà in via traumatica, dopo la Comune di Parigi. Altrove si ebbero progressivi allargamenti del corpo elettorale, come in Italia, ove si perverrà al suffragio generale maschile nel 1912.Il secondo elemento di corrosione era la presenza di classi subalterne ferocemente sfruttate, e perciò in posizioni antagonistiche. Le teorie politologiche individuarono le classi medesime in quella operaia e in quella contadina; la classe media, secondo i teorici, esisteva, ma era troppo poco consistente per avere peso. Si discute molto su quel che furono queste classi e sul perché si formarono; la spiegazione oggi più diffusa è quella storicistica, ossia che la borghesia per timore dei 'rivoluzionari' si chiuse in se stessa mediante leggi e che le altre classi si formarono di conseguenza come reazione verso le leggi, o le non leggi, della borghesia, assistite oltretutto da una memoria storica (Z. Bauman).
La legislazione dello Stato borghese aveva soppresso tutte le corporazioni dei precedenti periodi sostenendo, e giustamente per il punto di vista da cui si partiva, che costituivano turbative della libera concorrenza, quando addirittura non erano enti di privilegio. Non restava allora che ricorrere alla costituzione di associazioni volontarie; ma la libertà di associazione, pur garantita in sede costituzionale, incontrava ovunque un limite nell'ordine pubblico, onde era tranquilla operazione per le polizie allora esistenti far passare una 'lega' operaia o contadina come 'sovversiva' e intervenire repressivamente. La cronistoria di tutti i paesi, dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti ai paesi dell'Europa continentale, è piena sino a oltre la metà del secolo di proibizioni, in via amministrativa, di leghe; questo anche in Inghilterra, dove, dopo il 1824, le Trade unions erano state, se non riconosciute, tollerate.Per molte ragioni, tutte studiate e note, la politica dei divieti cominciò a cedere, e nell'ultimo quarto del secolo sorsero i partiti politici laburisti, socialisti, cattolici, radicali, e simili, i quali organizzarono le classi subalterne.
Quando i due elementi di corrosione dello Stato borghese giunsero a ottenere risultati consistenti, iniziò il declino di questo tipo di Stato. Declino che fu, nei maggiori paesi d'Europa e d'America, molto lento ma ininterrotto.Per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche, la fase di declino ebbe una sua rilevanza in vari sensi.In primo luogo l'affermarsi del 'potere municipale', ossia, detto in termini tecnici, un più ampio riconoscimento del principio autonomistico per gli enti locali; questo anche là dove - come in Inghilterra e in tutti i paesi, ormai non più marginali, che avevano seguito il modello inglese di amministrazione pubblica - vigeva il sistema dell'autogoverno. Si consideri che già alla metà del secolo in Inghilterra era stato consentito ai comuni di municipalizzare taluni servizi pubblici essenziali, tra i quali il più significativo era quello dell'elettricità. Seguirono quasi tutti gli Stati tedeschi più importanti, l'Austria, il Belgio, e così via. Da noi le municipalizzazioni si ebbero se e in quanto i prefetti le lasciarono passare, e solo nel 1903 Giolitti pensò le si dovesse disciplinare con legge dello Stato. Però anche in Italia i comuni, spesso retti da amministrazioni liberaldemocratiche, iniziarono a usare con maggior consapevolezza gli strumenti dell'autonomia e introdussero istituti che poi dovevano essere recepiti e generalizzati in leggi dello Stato; basti ricordare i piani regolatori urbanistici, i beni culturali e gli ambienti d'interesse storico, le case popolari, la tutela del lavoro, le industrie insalubri e pericolose, i vivai e semenzai comunali, l'istruzione tecnica e le figure più svariate di istituzioni di assistenza.In secondo luogo sorsero nuovi enti pubblici, quindi nuove amministrazioni pubbliche non statali: nel tempo, furono dichiarati enti pubblici le università degli studi, alcuni istituti bancari (le casse di risparmio), gli enti di bonifica, le camere di commercio, gli istituti locali di assistenza e beneficenza (IPAB), i consorzi locali per la lotta contro malattie sociali (pellagra, malaria), e simili altri (le situazioni variavano molto da Stato a Stato).
La vicenda si svolse tutta sul piano locale, ma ebbe grossa rilevanza, in quanto si ammise che potessero esservi enti pubblici diversi dagli enti locali territoriali, e che perciò esistessero altri interessi pubblici, oltre quelli dello Stato e degli enti locali, ai quali si potesse dare un ente esponenziale. Alla fine del secolo questi enti pubblici locali avevano raggiunto un numero ragguardevole (con l'eccezione dei paesi del modello inglese, ove questi enti sorsero egualmente, ma come enti privati).Ancora resta da dire dei servizi pubblici. Nel paragrafo precedente si è detto come e perché si statizzò il servizio postale. Nell'Europa continentale si statizzarono anche altri importanti servizi, due già nella prima metà del secolo: le ferrovie e l'istruzione pubblica.La statizzazione delle ferrovie ebbe una ragione militare - il rapido spostamento di truppe da una zona all'altra del paese - anche se ufficialmente di ragioni se ne addussero molte altre. Ancor oggi è possibile rilevare che in alcuni paesi dell'Europa continentale lungo i confini corrono grossi fasci di linee ferroviarie. Questo quanto alla costruzione, a cui provvidero le amministrazioni statali dei lavori pubblici, mentre la gestione fu talora affidata a imprese concessionarie. Era una statizzazione in pieno contrasto con il principio dell'astensionismo economico, ma dettata da un interesse politico dominante, tant'è vero che, ove questo non esisteva, le ferrovie rimasero private (Inghilterra, perché le invasioni si ritenevano impossibili; Stati Uniti, perché non v'erano potenziali aggressori).
La statizzazione della pubblica istruzione riguardò dapprima quella che oggi diciamo scuola dell'obbligo, allora istruzione primaria o elementare; lentamente si estese ad altre scuole - secondarie, professionali - e in alcuni paesi raggiunse un elevato livello di qualità.Le ragioni qui furono molte: non era un servizio a contenuto economico e giovava agli imprenditori, anzi all'intera classe dirigente, in quanto forniva persone con un minimo di cultura, quindi preferibili in sede lavorativa; contribuiva in modo fondamentale a eliminare l'analfabetismo, allora altissimo, ritenuto un male sociale gravissimo; dava maggiore spazio ai mezzi di comunicazione di massa, onde diminuiva grandemente l'incidenza di assoggettamenti di persone, tale considerandosi allora la propaganda dei movimenti operai (non esistevano ancora i partiti di sinistra, ma va notato che Bismarck, alcuni decenni dopo, esporrà la stessa idea a proposito delle leggi a tutela del lavoro, affermando che esse avrebbero attenuato la presa del partito socialdemocratico sulla classe operaia).
Né vanno sottaciute le ragioni portate avanti dagli idealisti (secondo cui spettava allo Stato contribuire all'elevazione della persona umana, specie se incolpevole) e dai liberali (i quali ritenevano che l'istruzione fosse in prevalenza in mano a istituzioni ecclesiastiche, sotto nessun aspetto affidabili).Per questo complesso di ragioni l'istruzione pubblica non solo fu statizzata, ma divenne un servizio di tale rilevanza per i giovani degli Stati monoclasse che a una sua privatizzazione non si pensò più, neanche in seguito.
Le ferrovie statizzate introdussero una nuova figura giuridica, quella dell'impresa-organo di amministrazione; se date in concessione segnavano una nuova esperienza nel genere, già noto, dei servizi pubblici in senso soggettivo (in quanto per legge spettanti a una pubblica amministrazione) dati in concessione all'imprenditoria privata.
Fu introdotta ancora un'altra specie di impresa pubblica, molto discussa in sede politica, economica e anche giuridica: quella dei monopoli, per lo più monopoli di Stato, detti anche monopoli fiscali in quanto l'istituto consiste nel riservare, per legge, allo Stato (o ad altri enti pubblici) la produzione di determinati beni incorporandosi, nel prezzo, un'imposta. Secondo l'opinione prevalente tra gli economisti si avrebbe un'imposta di fabbricazione accompagnata a una potestà tariffaria dello Stato riguardante la determinazione globale del prezzo.
Oggetto di monopolio fiscale in Italia sono stati, nel tempo, il sale, il chinino, i tabacchi in tutte le loro varietà merceologiche, le cartine per sigarette. È stato rilevato dai politologi come il monopolio del sale e quello del chinino avessero, accanto a finalità fiscali, finalità sociali (il sale essendo merce povera non sempre si trovava in abitati fuori mano, mentre per il chinino occorreva evitare speculazioni su un medicinale base nella lotta antimalarica). Oggi il monopolio è ridotto, quanto agli oggetti e quanto all'attività, a opera di norme comunitarie e internazionali, ma seguita a far capo alla direzione generale dei monopoli di Stato, del Ministero delle Finanze, e ha fabbriche sparse in tutto il territorio.I progressi delle scienze mediche portarono a introdurre altri servizi pubblici, come quelli relativi alla lotta contro le malattie sociali (pellagra, malaria, tubercolosi) e quelli relativi all'assistenza malattie, questi ultimi soprattutto mediante la declaratoria di ente pubblico delle ex opere pie, tutte dichiarate enti pubblici con la denominazione di istituzioni provinciali di assistenza e beneficenza; moltissime di esse erano semplicemente degli stabilimenti ospedalieri.
Ma con questi nuovi enti siamo già alle soglie dell'avvento del nuovo tipo di Stato.Infine resterebbe da dire dell'aumento dei servizi pubblici provinciali o comunali. La vicenda è generale: riguarda sia i paesi del modello inglese che i paesi del modello eurocontinentale. Ma è forse più opportuno dirne in rapporto allo Stato contemporaneo, anche se, come già detto, essa ebbe inizio, almeno in Inghilterra, già a metà secolo.In conclusione, il periodo di declino dello Stato borghese è caratterizzabile per le seguenti vicende: 1) si comincia a riconoscere il vantaggio che certe attività di rilievo pubblico siano svolte da amministrazioni dei poteri locali, più legati alle esigenze delle popolazioni e meno burocratizzati; 2) comincia la storia delle amministrazioni pubbliche costituite da enti non aventi carattere territoriale o, altrimenti detto, nascono gli enti pubblici funzionali, in un primo tempo locali; 3) i servizi pubblici, statali e locali, acquistano piena cittadinanza nel quadro delle attività delle amministrazioni pubbliche e tendono a espandersi; 4) l'impresa pubblica, cacciata con furia nella prima fase dello Stato borghese, riappare, sia pure con motivazioni di eccezione.
Molti dei maggiori giuristi e politologi contemporanei, anche fra i più provveduti, interpretarono l'intero accadimento come un rafforzamento del pubblico potere amministrativo, quindi dello Stato, potere pubblico per eccellenza e 'fonte' di ogni potere pubblico.Letture più attente vennero solo da sociologi, ma per intenderne la portata giova considerare ciò che accadrà poi.
Un fatto di così grande impegno e di così grandi risultati come lo Stato borghese non poteva non trovare attenzione nelle scienze dell'uomo. Difatti la scienza politica elaborò nuove teorie dello Stato, e, più tardi, altrettanto farà la sociologia. Delle amministrazioni pubbliche in quanto apparati si occuperà solo la sociologia, ma molto tardi, nella fase di declino dello Stato borghese, mettendo a fuoco specialmente la problematica del potere e quella della burocrazia. Sicché delle amministrazioni pubbliche si occuperà soprattutto la scienza giuridica, e la ragione è evidente: le amministrazioni pubbliche erano titolari di potestà il cui esercizio incideva sui beni giuridici essenziali del privato: vita, patrimonio, attività, onore. Vi era poi l'aspetto più propriamente organizzativo: il fatto che gli apparati pubblici avevano consistenze finanziarie molto grandi e, svolgendo la propria attività, dislocavano ricchezze, tanto in sede di entrata quanto in sede di spesa pubblica
Nel periodo delle amministrazioni della Corona, per il secondo aspetto, sorse nei paesi tedeschi la cameralistica; altrove se ne occuparono gli economisti, analizzando le questioni della finanza pubblica. Nell'Ottocento, dal confluire delle due correnti di ricerca, nascerà la scienza delle finanze, da allora rimasta scienza autonoma fra le discipline economicistiche. Per il primo aspetto si è già detto come, sempre nei paesi tedeschi, fosse sorto il diritto di polizia, ma ovunque esisteva il 'diritto del fisco', oltre che l'ormai tramontante 'diritto feudale'. Per comprendere ciò che accadrà nell'Ottocento, importa rilevare che la materia dello jus fisci era concepita come disciplina speciale nel seno della scienza giuridica per definizione, cioè la scienza del diritto privato: si era nello stesso ordine di logiche del diritto di famiglia e del diritto commerciale, rami particolari del diritto privato. Questo costituiva, secondo una diffusa concezione, uno jus commune per tutti i rapporti giuridici che avessero un contenuto patrimoniale, anche se di origine autoritativa, perché, secondo il costrutto teorico, si utilizzava, sulla scorta della romanistica, lo jussus come fatto costitutivo (fonte) di obbligazioni.
Quindi là dove dall'atto dell'autorità nascessero obblighi patrimoniali a carico del privato, singolo o persona giuridica che esso fosse, era lo stesso diritto romano, o meglio lo jus commune, a fornire la chiave esplicativa. In questo modo erano costruite, per esempio, l'espropriazione per pubblica utilità (jussus da cui consegue una vendita coattiva), la chiamata alle armi (jussus da cui consegue una locatio operarum coattiva), l'imposizione tributaria (jussus da cui nasce un'obbligazione di dare), e così via.Con siffatta concezione, il problema dell'agire autoritativo degli organi amministrativi pubblici si riduceva all'ambito dei rapporti non patrimoniali, quindi a un ambito quantitativamente ristretto. A questo proposito va richiamato quanto si è detto, che la locuzione 'amministrazione pubblica', seppure già in uso quantomeno in Austria e in Francia dopo le grandi riforme del XVIII secolo, non aveva un contenuto giuridico proprio.
La nozione giuridica che si usava per inquadrare l'agire autoritativo non avente contenuto patrimoniale dei pubblici poteri era quella, antichissima anch'essa, di jurisdictio, che del resto allora, prima della teorizzazione del principio della divisione dei poteri, era in regime, diremmo oggi, di indistinzione rispetto alle altre attività del pubblico potere. Indistinzione non tanto teorica quanto soprattutto pratica; la Corona, e per essa suoi organi, adottavano atti che potevano essere indifferentemente, secondo l'ordine concettuale successivo, atti normativi, giurisdizionali e amministrativi. Questi ultimi però erano, allora, comunque compresi nella jurisdictio, unica categoria nota alla dottrina e alla prassi di atti dei pubblici poteri diversi dagli atti 'legislativi'. D'altra parte anche la normativa allora esistente sovente configurava l'attività degli organi amministrativi come attività che oggi diremmo mista: giurisdizionale e amministrativa insieme. Sì che parlare di jurisdictio poteva non apparire arbitrario anche a chi in ordine alla giurisdizione potesse avere categorizzazioni più precise.
Anche quando, nella seconda metà del secolo, gli organi delle amministrazioni pubbliche vanno a gestire attività che sempre meno possiedono caratteri giurisdizionali in senso moderno, l'ordine concettuale che si seguita a utilizzare in dottrina non cambia. L'atto dell'autorità che dispone circa l'assegnazione della funzione di riscossione di tributi a un privato o quello che dispone la chiusura di una fabbrica in quanto svolga attività vietate, sono detti di jurisdictio, non della jurisdictio del giudice, ma di altra autorità, non essendo affatto detto che solo il primo abbia la relativa potestas. L'esperienza del Polizeirecht dei paesi germanici avrebbe potuto cambiare il quadro, per poco che avesse avuto consapevolezze teoriche generali che invece non ebbe, rimanendo una disciplina descrittiva. Come del resto osserverà giustamente la dottrina giuspubblicistica del secolo successivo, quell'esperienza storica non avrebbe neanche potuto avere tali consapevolezze poiché le mancava la nozione-base: quella di costituzione.
È quando cambia lo scenario dei pubblici poteri che può cambiare l'ordine delle categorie concettuali; più esattamente si affacciano concetti nuovi, che sono quelli, appunto, di costituzione e di amministrazione pubblica. La dottrina, già alla fine del XVIII secolo, si impadronisce subito del primo e lo elabora in un senso storicamente contingente. La nozione di costituzione come organica della normativa base di un ordinamento giuridico apparirà molto più tardi, quale elaborato della pandettistica; per ora costituzione significa modo di ordinare la divisione dei poteri, i controlli fra organi costituzionali, la rappresentanza politica, il riconoscimento e la tutela delle libertà civili e politiche. Nelle teorie che si affacciano già nei primi decenni dell'Ottocento anche in Italia (Romagnosi), sono questi i materiali con cui si riempie la nozione di costituzione, sia in sede giuridica che in sede politologica (e difatti sono essi che stanno al fondamento di ogni richiesta di costituzioni, che si avrà ovunque, lungo il corso del secolo, sino a dopo il primo conflitto mondiale).
È su questo ordine nozionale che avviene, per le amministrazioni pubbliche, la divisione di fondo della modellistica, tra il modello inglese e quello eurocontinentale. Nel primo modello la parte autoritativa non patrimoniale dell'azione delle amministrazioni pubbliche è parte del nuovo diritto costituzionale, in quanto attiene, si dice, semplicemente all'aspetto autoritativo dell'attività del potere esecutivo. In parole diverse la vecchia jurisdictio degli organi amministrativi non è più jurisdictio, ma azione del potere esecutivo. La rimanente parte, avente contenuto patrimoniale, rimane quello che era prima: jus commune. L'organo amministrativo, si dice, così come ogni altro operatore giuridico, deve osservare la legge, e lo fa attenendosi alle regole di questo diritto unitario degli operatori giuridici, pubblici o privati che essi siano.Nel modello eurocontinentale si reputa invece che proprio dalla costituzione, intesa nel senso storico che si è esposto, derivi che l'attività dei poteri pubblici di carattere autoritativo sia divenuta talmente consistente e talmente incidente nelle libertà civili e politiche da dar corpo a una nuova nozione, quella di amministrazione pubblica, con una normativa propria a base pubblicistica in quanto avente come oggetto la regolazione di potestà pubbliche che spettano agli operatori costituenti le amministrazioni pubbliche; la nuova normativa dà vita a un nuovo ramo del diritto, che è il diritto amministrativo.Il paese in cui appare per la prima volta il diritto amministrativo è la Francia. Già in periodo napoleonico appaiono le voci 'atto amministrativo', 'funzione pubblica', 'pubblico ufficiale', ecc. nei repertori di giurisprudenza.
Le prime trattazioni di diritto amministrativo sono del 1814 (Romagnosi) e del 1820 (De Gérando). Non infrequentemente le trattazioni sono di 'diritto pubblico e amministrativo', a significare l'unione tra diritto della costituzione e diritto dell'amministrazione pubblica. La Restaurazione interromperà lo sviluppo dell'attore 'costituzione', ma non quello dell'attore 'amministrazione', e questo riprende con le rivoluzioni liberali e anche indipendentemente da queste (per esempio ove non hanno esito positivo, come in Germania) in quanto le normazioni amministrative si sviluppano ovunque ormai indipendentemente da quelle costituzionali.
È superfluo dire che quanto si è esposto circa i caratteri dei due modelli attiene agli esiti consolidati dei modelli stessi. Nello svolgimento storico è impossibile stabilire il momento in cui si formano l'uno e l'altro, così come è impossibile fissare i momenti in cui la speculazione teorica ne acquista consapevolezza. La tesi sostenuta dai giuristi francesi secondo cui il diritto amministrativo sarebbe nato con la legge 28 piovoso VIII (1800), la quale per la prima volta dette all'amministrazione dello Stato un'organizzazione definita, appare alquanto ingenua. Sia in Romagnosi che in De Gérando le nozioni di amministrazione pubblica stanno nell'indeterminatezza dell'ambiguità nozionale, e occorrerà attendere la metà del secolo per cominciare ad avere qualcosa di più preciso, anche se, come istituzioni, già nel terzo decennio del secolo le amministrazioni pubbliche sono figure soggettive di rilevante consistenza.Il punto di partenza, in ambedue i modelli, è che le amministrazioni pubbliche statali sono parte del potere esecutivo e quelle degli enti non statali sono tutte subordinate allo Stato. Potere esecutivo quindi esecuzione della legge, almeno secondo l'iniziale concezione della teoria; ma nel giro di un secolo si arriverà, dopo accanite discussioni, a un diverso modo d'intendere: attuazione dei fini pubblici dello Stato sulla base della legge (S. Romano). Comunque nel modello inglese la 'base della legge' è intesa come finalizzazione, in quello eurocontinentale come supporto dell'azione dell'amministrazione.
Il modello inglese vale, all'inizio, per due soli paesi: l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America, ma via via che si formeranno i nuovi Stati nell'ambito dell'Impero inglese, il modello sarà da essi adottato. Mentre però la posizione dei giuristi inglesi è sempre stata chiara (è noto il giudizio di Dicey, secondo cui il diritto amministrativo è estraneo al sistema di diritto inglese), lo è stata meno quella degli americani, i quali a fine secolo si chiesero se ormai anche negli Stati Uniti non si fosse formato un diritto amministrativo, e vi fu chi si propose di esporlo (Goodnow). La tesi riapparve negli anni venti finché ci si accordò nel sostenere che nel panorama della legislazione positiva può dirsi diritto amministrativo il complesso della normazione che concerne le amministrazioni pubbliche, quindi un 'diritto' non nel senso del diritto pubblico formante elemento di sistema, com'è nell'altro modello, ma in senso oggettuale, cioè di parte della normazione avente come oggetto le amministrazioni pubbliche, comprensiva di diritto comune e diritto della costituzione. Tale concezione si afferma, in questo secolo, anche in Inghilterra. Nella riflessione sullo Stato contemporaneo, di cui si dirà, emergono ancora, comunque, altri punti di vista.Il modello eurocontinentale si diffonde in tutti i paesi dell'Europa continentale, man mano che la normativa si modernizza, non avendo rilievo il regime politico dei diversi paesi; passa ai paesi dell'America Latina, man mano che questi acquistano l'indipendenza. Nominalmente entra anche nei paesi dell'Asia (anche se le realtà positive, secondo diffuse opinioni, sarebbero diverse). A differenza dell'altro, non subì recessioni, e anzi si perfezionò - se così può dirsi - continuamente nel proprio interno. Questo fu conseguenza di tre fattori: la legislazione positiva che costantemente conservò carattere autoritativo alla materia intera, e in certi periodi l'accentuò; l'interpretazione della giurisprudenza, la quale introdusse dei costrutti istituzionali, talora perfino in contrasto con la dottrina, fortemente tipizzati e anch'essi nettamente autoritativi; infine lo sviluppo di un'interpretazione della dottrina, che inserì i nuovi diritti costituzionale e amministrativo nel sistema delle scienze giuridiche come diritti aventi caratteri propri ed esclusivi.
Qui interessa soprattutto il terzo di questi fattori, quello dottrinale, in quanto i primi due riguardano precipuamente le vicende istituzionali.
Le due nuove scienze seguirono, nello scorso secolo, la vicenda generale delle scienze giuridiche. Vi fu una fase iniziale, del tutto propria, che potrebbe essere detta politica; poi una fase di esegesi della normativa, poi una fase di elaborazione di grandi costrutti teorici. In ogni paese la disciplina si articolò negli indirizzi e nelle correnti delle scienze giuridiche al paese medesimo particolari, onde percorse indirizzi diversi ed ebbe toni diversi. Con la metà del secolo, nei paesi germanici, subì quel radicale rinnovamento che quivi avevano avuto tutte le scienze giuridiche con la corrente che poi fu chiamata della pandettistica.Sorta per lo studio del diritto romano, ed estesasi via via a tutte le scienze giuridiche, tale corrente si pose anzitutto come rinnovatrice del metodo di studio: metodo giuridico valeva come espunzione di ogni ordine nozionale pertinente ad altre scienze, metodo puro, come si dirà poi. In secondo luogo la corrente riteneva che i concetti giuridici si dovessero dedurre dalla norma positiva mediante rigorose applicazioni della logica, e che essi dovessero avere valore assoluto; per cui concetti come quelli di norma, diritto soggettivo, obbligazione, contratto, ecc. dovessero essere, ovunque, identici dal XL secolo avanti Cristo a oggi, sicché fosse possibile costruire delle teorie generali dei diversi istituti giuridici, con delle varianti solo nei diritti positivi.
La pandettistica si applicò allo studio del diritto pubblico a metà secolo (Gerber, Laband) e in pochi decenni produsse tal copia di teorizzazioni da comprendere tutto. Passò poi in Italia (con V.E. Orlando) a fine secolo, e anche qui divenne dominante; passò poi in altri paesi, e anche in Francia, che le opponeva una propria scuola giuridica ricca di ingegni, finì con l'esportare quantomeno alcuni suoi elaborati di base.
Salvo pochissime personalità (Gierke, Gneist) la pandettistica fu tutta un'esaltazione dello Stato: con ciò corrispondendo in pieno all'ideologia borghese dominante. Lo Stato fonte del diritto, lo Stato signore di tutti gli organismi pubblici, lo Stato unico titolare del potere sovrano, della potestà punitiva, della potestà coercitiva, della potestà impositiva, e via di questo passo; l'esercizio di tutte queste potestà spettava alle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche se la legge - e solo la legge - poteva assegnarne piccole parti definite ad altre amministrazioni pubbliche di enti minori (come per esempio le potestà impositiva e coercitiva). Il limite alle potestà dello Stato era nel principio di legalità: non si potevano adottare atti che incidessero nell'autonomia dei privati, e in particolare negli ambiti delle libertà costituzionalmente garantite, se non sulla base di una norma di legge.
Le amministrazioni pubbliche non avevano 'libertà' di agire come ritenessero opportuno per realizzare i loro fini; occorreva sempre una legge che ne legittimasse l'azione, e al massimo la legge poteva lasciare dei margini di discrezionalità all'autorità amministrativa operante.L'insieme di questi vari istituti e di queste varie nozioni si componeva in un 'sistema' del diritto costituzionale e del diritto amministrativo, la cui organicità la stessa dottrina si era in ogni modo sforzata di costruire. In effetti mai la scienza giuridica aveva raggiunto risultati di tale compattezza nei propri prodotti, trovando completa rispondenza nella pratica degli operatori giuridici e, più tardi, anche nelle pronunce della giurisprudenza. Da rilevare - ed è molto importante - che tali concezioni si prolungano per circa mezzo secolo oltre la fine dello Stato borghese (praticamente, in Italia, sino agli anni cinquanta di questo secolo).
Gli ordinamenti generali contemporanei hanno ancora, come organizzazioni reggenti, le organizzazioni degli Stati, ma differiscono da quelli del periodo dello Stato borghese per due tratti: 1) che lo Stato-ente non è più governato dalla sola classe borghese, ma da tutte le classi; 2) che lo Stato-ente non è più il solo pubblico potere, dominante su una serie di enti minori diretti e controllati, ma è uno dei pubblici poteri esistenti, condizionato - per ora si usa un termine generico - da altri pubblici poteri, alcuni di livello superstatale, altri di livello interno.Sicché quando politologi, politici, giuristi seguitano a levare inni allo Stato, nello stesso atteggiamento che sino alla cessazione del primo conflitto mondiale avevano tenuto i loro padri, non si accorgono di inneggiare a un organismo non più esistente, quantomeno nelle caratteristiche che essi gli attribuiscono. Sviluppando infatti partitamente i due punti, è da dire che quando la borghesia era saldamente al comando, non senza ragione si mostrava contraria a ogni allargamento del suffragio, in quanto aveva la chiara percezione della propria impossibilità di indirizzare il voto dei nuovi elettori; quando allargò il suffragio, cercò di introdurre, in Europa, politiche indirizzate alla possibile raccolta dei nuovi voti (esemplari, in proposito, i casi di Bismarck e di Giolitti).
Negli Stati Uniti d'America il fatto che si giunga al suffragio universale già nel 1870 si spiega in parte per quell'assoluto sentire democratico che differenziava questo paese da quelli europei (Tocqueville), in parte perché le élites politiche avevano organizzato un sistema a due partiti, che appariva sicuro al punto da non poter ricevere effettive modificazioni (e infatti non ne ricevette, essendosi insabbiati tutti i tentativi di dar vita a partiti di tipo socialista o laburista).Quando, sotto la spinta di forze politiche, magari anche della stessa borghesia, si giunge all'allargamento dei suffragi, e poi, col tempo, ai suffragi universali in senso proprio - cioè maschile e femminile insieme - il privilegio della borghesia di essere l'unico detentore del potere politico è rimosso definitivamente anche per l'aspetto istituzionale. Va precisato appunto 'per l'aspetto istituzionale', in quanto per l'aspetto storico la fine del monopolio borghese del potere in taluni paesi si ebbe anche prima, allorché i partiti politici detti generalmente popolari, ottenendo consistenti rappresentanze politiche negli organi legislativi, erano riusciti a promuovere riforme a favore delle classi allora dette subalterne. Viceversa in altri paesi si ebbe l'introduzione del suffragio universale senza la cessazione del potere della borghesia, il che si spiega per due ragioni: collegi uninominali, che favoriscono le coalizioni di movimenti politici borghesi, e inesistenza di organizzazioni politiche delle classi subalterne (così in Germania - suffragio maschile 1871; in Francia - suffragio maschile 1875; in Svizzera - suffragio maschile 1879; ecc.). L'introduzione dei suffragi universali segna la fine formale di un monopolio del potere politico. Il potere politico, non più della borghesia, non è più nemmeno, per essa, dell'apparato amministrativo statale.
Con i suffragi universali si ha l'avvento di quello che è stato chiamato 'Stato pluriclasse', nel senso che il potere politico si estende a tutte le classi che compongono la comunità degli Stati e non più a una sola di esse. Solo che, mentre lo Stato monoclasse, borghese, è caratterizzabile anche per la presenza di quei tratti sostanziali di cui si è detto ai § § 2b e 2c, lo Stato pluriclasse non è caratterizzabile, quantomeno in linea generale, se non per l'elemento strutturale della distribuzione reale del potere politico fra tutte le classi. Troppo poco per individuare un tipo sostanziale di Stato.Tanto più che, con l'avvento dello Stato pluriclasse, lentamente cade anche la distinzione delle classi che esisteva con lo Stato monoclasse borghese. Il rilievo è stato fatto da molti sociologi e si concreta in ciò: mentre Marx aveva potuto formulare un'ipotesi compiuta della struttura delle comunità degli Stati del proprio tempo, in quanto esistevano effettivamente la classe borghese al comando e le classi subalterne sfruttate, con il declino del regime borghese prende corpo la classe 'media', che assume ovunque ruoli e dimensioni ragguardevoli, specie con l'inaspettato - per allora - sviluppo delle attività terziarie, e le classi già subalterne, man mano che accedono all'effettività del potere pubblico, chiedono e ottengono strumenti istituzionali a propria tutela, sì che in tempi brevi - pochi decenni - viene meno lo sfruttamento economico che sussisteva nel periodo dello Stato borghese. Come si mostrerà più avanti, questo accadimento è evidente in tutti i paesi importanti, in quanto si esprime in precisi istituti, parte gestiti dallo stesso Stato (cosa che sarebbe stata considerata mostruosa nello Stato borghese), parte da altri pubblici poteri.
Ancora non ci sono stati sociologi che abbiano riletto in termini accettabili le problematiche relative alle classi negli ordinamenti generali contemporanei. Dalle correnti neomarxiste escono solo delle considerazioni sul 'neocapitalismo maturo', sulle 'multinazionali', sui 'monopoli' e sui cartelli, come gruppi di comando, economico e politico. Il che in certi paesi, come il Giappone o gli Stati Uniti d'America, è anche vero, ma insufficiente. Le teorie di Marx avevano il pregio della completezza delle analisi e della coerenza delle soluzioni, onde poterono fissare linee d'azione politica per le classi allora subalterne; queste, invece, sono solo fotografie di pezzi della realtà contemporanea. Ma tutto ciò serve qui a rilevare che mentre le amministrazioni pubbliche dello Stato borghese agivano sotto un'unità di comando (le turbative potendo provenire da discordie interne della borghesia al potere), in quelle dello Stato pluriclasse si è perduto questo elemento unificante. Chi vi è al suo posto? Questo è uno dei problemi centrali dello Stato pluriclasse. Tanto più incombente in quanto - e con ciò si passa al secondo punto - lo Stato non è più l'ente quasi solitariamente imperante nelle comunità generali. Anche qui sono presenti due fattori: l'internazionalizzazione delle attività pubbliche e l'articolazione delle società civili, o comunità generali, al livello infrastatale (cosiddetto pluralismo).
Quanto al primo, il numero sempre crescente di organizzazioni internazionali ha fortemente ridotto quella che una volta si considerava la sovranità degli Stati. Ormai molte decisioni, nei campi più diversi, sono passate alle organizzazioni internazionali e gli Stati le subiscono. Là dove esistono figure come le comunità internazionali - per esempio la CEE - avviene che consistenti settori, già amministrati dagli Stati, passino ad autorità comunitarie: tale è il caso, per l'Europa, della produzione agricola, delle posizioni imprenditoriali dominanti, della circolazione dei lavoratori e dei professionisti, dell'attività di intermediazione creditizia e in parte anche finanziaria, e così via, secondo un andamento costantemente crescente.
La conseguenza concreta è che intere amministrazioni già statali hanno perso l'oggetto del proprio amministrare, o sono regredite ad amministrazioni di sola esecuzione.Quanto al secondo, la fine del secolo scorso vede lentamente rimossi i divieti di associazione che vigevano in precedenza, onde si costituiscono associazioni delle più varie specie; tra esse hanno rilevanza per le pubbliche amministrazioni le associazioni di imprenditori, locali e centrali, le quali ben presto reclamano una propria presenza nello studio di questioni di economia e nell'istruttoria di procedimenti amministrativi, presenza che si dovrà, sia pur a fatica, riconoscere, per gli apporti tecnici che possono pervenire alle amministrazioni statali e locali.Ma il periodo è soprattutto importante perché si formano i partiti politici in senso moderno (nello Stato ottocentesco quelli che si dicono 'partiti' sono organizzazioni di gruppi elettorali) e i sindacati, sia di lavoratori che di imprenditori. I due enti associativi introducono nella vita delle comunità nuovi centri operativi, che prima o poi divengono centri di potere, e più tardi dei pubblici poteri in senso proprio, in quanto leggi dello Stato attribuiscono loro funzioni pubbliche: designazione di candidati a uffici pubblici, partecipazioni a procedimenti, costituzione di gruppi all'interno di organi collegiali, negoziazione e conclusione di contratti collettivi, di accordi operativi con pubbliche amministrazioni, e così via.
Successivamente ancora si costituiscono in molti paesi enti territoriali di vasta area, le regioni, o in quanto enti esponenziali di gruppi territoriali di vasta area (Stati regionali: Germania, Austria, Italia, Spagna, ecc.), o in quanto enti esponenziali di gruppi territoriali particolari (URSS, Cina), o in quanto enti di sviluppo economico di aree territoriali definite (Stati Uniti d'America, Venezuela, Brasile, Argentina, ecc.).
A queste vicende occorre aggiungerne un'altra di rilievo fondamentale, quella che è stata detta in Francia della progressiva giurisdizionalizzazione, e che consiste nel fatto che mentre nel secolo scorso le amministrazioni pubbliche partono con atti - gli atti amministrativi - che si assumono insindacabili dal giudice, in questo secolo vale la regola opposta: si assume che tutti gli atti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche siano giustiziabili. Significative le tappe dello sviluppo nei paesi del modello inglese: il giudice conosce degli atti che l'amministrazione pubblica adotta come soggetto di diritto comune; conosce anche degli atti autoritativi ma non può sindacare l'esercizio del potere discrezionale; può sindacare l'esercizio del potere discrezionale se vengono lese situazioni soggettive del soggetto amministrato. In Italia lo svolgimento storico è diverso, ma l'esito ultimo è quasi il medesimo: la Costituzione repubblicana stabilisce che non possano esistere provvedimenti dell'amministrazione pubblica non impugnabili o limitatamente impugnabili in sede giurisdizionale.
Se si considerano insieme questi e altri eventi importanti accaduti nella società mondiale contemporanea (due soprattutto: la seconda rivoluzione industriale e l'internazionalizzazione dell'economia) si dovrebbe comprendere agevolmente come siano totalmente scomparse le amministrazioni pubbliche tipiche dello Stato borghese, così imperative e autoritarie. Usiamo il condizionale 'si dovrebbe' perché nella realtà in seno alle dottrine delle varie scienze, sovente anche in esponenti di rilievo, si trovano dei rimpianti, delle espressioni come 'crisi dello Stato', o 'recessione dei pubblici poteri', e simili, da cui si è indotti a ritenere che costoro diano per presupposto scontato che lo Stato debba essere un padrone, quantomeno nel proprio interno. Ma questo non è accettabile: lo Stato è un istituto inventato dagli uomini, ha una sua nascita, ha una sua evoluzione divisibile in periodi, insomma ha una sua storicità. Che ora sia in una fase nuova significa solo che ha diverse funzioni e che quindi ha mutato strutture. Non servono rimpianti, ma analisi per cercare d'intendere come si evolverà la fase di transizione che stiamo attraversando.
Oltre ai pubblici poteri operanti sopra lo Stato o all'interno della comunità dello Stato, la spinta degli interessi, di ogni provenienza, ha portato ulteriori complicazioni delle strutture.Si diceva dell'incremento subito dai poteri municipali nell'ultimo periodo dello Stato monoclasse. Nello Stato contemporaneo si sono verificati altri due accadimenti a livello locale: la formazione di autorità delle aree metropolitane, la formazione di enti associativi comunali con funzioni proprie.Quanto al primo, regimi speciali per città come New York, Londra e Parigi si introdussero già nello scorso secolo. Per Londra si inventò la figura, che poi fu generalizzata in Inghilterra, del borgo-contea. Oggi in quasi tutti i paesi esiste una qualche figura, codificata nella normativa sui poteri locali, per le aree metropolitane o per le conurbazioni: di solito un ente composto di comuni federati, avente poteri unitari propri.
In ragione della dimensione demografica raggiunta e dell'importanza che possono avere nella vita amministrativa, o economica, o culturale, le autorità di area metropolitana sono divenute enti di grande peso anche politico all'interno dei paesi in cui operano in certo modo fuori del tessuto dei poteri locali.Quanto agli enti associativi comunali, altri paesi europei, come la Germania, ne hanno varietà numerose. In Italia gli unici che hanno avuto un seguito sono quelli delle comunità montane e delle associazioni socio-sanitarie. Le prime sono autorità intercomunali con compiti specifici di programmazione dell'intero proprio territorio, le seconde sono associazioni per l'unificazione e la gestione unitaria dei servizi sociali e dei servizi sanitari dei comuni associati, e hanno la qualifica di unità sanitarie (o sociosanitarie) locali. Non vi è dubbio che l'associazionismo comunale è, in prospettiva, uno degli strumenti utilizzabili per superare l'inefficienza amministrativa dei piccoli e medi comuni.
Al livello nazionale si è avuta invece una vicenda che ha dato origine a impegnati dibattiti politici, giuridici ed economici: la costituzione degli enti pubblici nazionali (o centrali, o parastatali: i termini si equivalgono).
L'Italia è stato uno dei paesi di più fertile inventiva in questo campo, dando vita a quelle che alcuni autori hanno chiamato le amministrazioni parallele. A partire dall'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), del 1913, furono istituiti fino al 1923 circa 50 enti pubblici; nel periodo fascista furono dichiarati pubblici tutti i sindacati, di lavoratori e di imprenditori, il Partito Nazionale Fascista e tutti gli enti a questo legati, e in più si ebbe la nascita di una quantità di enti con attribuzioni nel campo della previdenza, dell'assistenza, dell'economia: dopo il 1936, fino al 1942, quasi ogni anno furono istituiti una ventina di enti pubblici, soprattutto per il governo dell'economia. Nel 1943-1944 scomparvero gli enti pubblici sindacali e politici, ma in compenso si ricominciò, dopo il 1947, con l'istituzione di altri enti, ancora per il settore dell'economia.
La confusione arrivò al massimo, anche perché nel 1926 era stato stabilito legislativamente che gli 'enti pubblici economici' avessero rapporti di impiego e di lavoro di diritto privato (laddove una delle prime conseguenze della declaratoria della natura pubblica di un ente era che i rapporti d'impiego e di lavoro tra l'ente e i di lui dipendenti acquistassero natura pubblica). Per cui dopo il 1947 iniziò una disputa tra giudici ordinari e giudici amministrativi per stabilire se gli enti pubblici economici esistessero ancora. La disputa si chiuse nel senso sostenuto dalla Corte di Cassazione, ossia che tali enti sussistessero, ma ciò non fece che accrescere le incertezze. Tanto che, dopo vari tentativi di leggi per la soppressione degli enti 'inutili', nel 1975 con la legge n. 70 si fece un po' di pulizia: si stabilì un elenco degli enti pubblici non economici riconosciuti; gli enti non compresi nell'elenco dovevano sottoporsi all'esame di un'apposita commissione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri; se riconosciuti 'utili' erano conservati, se riconosciuti non di natura pubblica erano dichiarati privati; se riconosciuti inutili erano messi in liquidazione. Va aggiunto che altre categorie di enti pubblici furono soppresse dalla normativa di completamento dell'ordinamento regionale (legge 1976 n. 616) e dalla riforma sanitaria (legge 1978 n. 833).
In questo modo si è ottenuta una certa chiarezza quantomeno di quadro normativo: non completa perché ogni tanto la giurisprudenza di cassazione dichiara pubblico qualche altro ente o, viceversa, ne disconosce la natura pubblica.Gli enti pubblici nazionali, in così ampia misura, sono propri dell'ordinamento italiano; altrove sono assai meno, poiché a molti degli enti esistenti in Italia corrispondono società in mano pubblica o agenzie (di cui al § 3b). Inizialmente molti enti pubblici furono istituiti, in luogo di amministrazioni dello Stato o di altri enti territoriali, allo scopo di evitare l'applicazione della pesante normativa della contabilità pubblica; oggi neanche questa ragione ha più valore, in quanto prima la Corte dei Conti (in applicazione della legge 1958 n. 259, che sottopone a suo controllo gli enti pubblici sovvenzionati dallo Stato o aventi poteri di imposizione), poi la legge 1975 n. 70, indi il D.P.R. 1979 n. 696 hanno unificato la contabilità del 'settore pubblico allargato' con quella dello Stato. L'istituzione degli enti pubblici nazionali risponde così a una regola puramente tecnica, quella della specializzazione dei quadri e della burocrazia: quando si è ritenuto che lo Stato non avesse, o non potesse o non dovesse avere burocrazie specializzate, come quelle che si richiedevano per svolgere una data attività, si è istituito un ente pubblico.Gli enti pubblici in questione si dicono anche 'funzionali', per distinguerli da quelli territoriali e in quanto sono assegnatari, per le leggi istitutive, di funzioni pubbliche (ove 'funzione' ha un significato assolutamente generico, poiché in realtà questi enti svolgono tutti servizi pubblici). Essi sottostanno tutti a 'vigilanza' di uno o più ministeri che hanno poteri di direttiva, di controllo e, di regola, di nomina e revoca degli amministratori.
Non si sono sinora costituite tipizzazioni tra quelli di essi che non siano enti pubblici economici; la legge n. 70 adotta il criterio dei raggruppamenti (enti di previdenza, di assistenza, di promozione economica, di servizi di pubblico interesse, sportivi, turistici e di tempo libero, di ricerca, di promozione artistica), che però non è una classificazione giuridicamente rilevante (degli enti elencati alcuni sono stati poi soppressi).La dottrina si è chiesta se esista un 'sistema' degli enti pubblici, e se uno Stato contornato da enti pubblici funzionali sia connotabile per un qualche suo carattere. Ma ad ambedue i quesiti è da dare risposta negativa; non può esistere un sistema quando il complesso normativo annovera enti pubblici che sono imprese (v. sotto), altri che sono strutturalmente corrispondenti ad amministrazioni dello Stato (come gli enti di previdenza), altri che in nulla differiscono da enti privati e sono pubblici solo perché lo dice la legge (come gli enti di ricerca). Quanto al valore generale della presenza di enti pubblici, si è già detto della configurazione dottrinale come amministrazioni parallele: è, più che un carattere, un fatto strutturale che, come ora si vedrà, può riguardare anche enti non pubblici.In taluni ordinamenti positivi (per esempio in Francia) esistono enti 'di pubblico interesse', categoria intermedia tra enti pubblici ed enti privati. Nell'ordinamento italiano gli enti di pubblico interesse in senso proprio non esistono: quelli che così vengono indicati sono enti privati fruenti di alcuni benefici e sottoposti a controlli particolari (cooperative, banche d'interesse nazionale, ecc.).
È invece figura generale esistente in tutti gli ordinamenti giuridici quella dell'impresa pubblica. Si è già avvertito che lo Stato borghese si è disfatto di tutti gli stabilimenti e le fabbriche nelle mani dei pubblici poteri, ritenendoli istituti di turbativa della libertà d'iniziativa economica. Si fece eccezione, in taluni paesi, per le ferrovie dello Stato, amministrazione statale che si evitò peraltro con ogni cura di qualificare come impresa: in Francia fu detta servizio pubblico in forma industriale e commerciale; anche per le fabbriche dei monopoli di Stato si ebbe lo stesso pudore, e così per le casse depositi e prestiti, istituite poco dopo; così ancora le ormai numerose attività svolte dai comuni, le quali in mano privata sarebbero state imprese elettriche, di trasporti, di fabbriche di concimi, di ghiaccio, ecc., furono coperte con la denominazione di 'aziende municipali'.Occorrerà arrivare a questo secolo per ammettere che queste organizzazioni sono organi-imprese: producono beni o erogano servizi dietro retribuzione, concludono contratti di diritto comune, rispondono secondo le norme del codice civile, ormai senza più neppure quei privilegi che si avevano al tempo delle imprese pubbliche del Settecento. Certo che la dottrina, privatistica in particolare, solleverà dei dubbi: osserverà che non è raffigurabile in modo sicuro un rischio dell'imprenditore, che mancano il fallimento, l'amministrazione giudiziaria e altri istituti della responsabilità imprenditoriale, che privilegi negati in diritto restano in fatto. Ma tutto ciò, si replica, si spiega perché non si tratta di imprese di diritto comune, ma appunto di imprese-organo.
Un ulteriore passo si fece quando si istituirono gli enti pubblici-imprese. Il ricordato Istituto Nazionale delle Assicurazioni, istituito in Italia, era un'impresa di assicurazioni come tutte le altre. Le Casse di risparmio, che seguirono poco dopo e che la giurisprudenza qualificò come enti pubblici, erano imprese bancarie, sia pure con divieto di svolgere talune operazioni. Gli Istituti per le case popolari erano imprese immobiliari, che costruivano alloggi per darli in affitto, sia pur a prezzi non speculativi. Dopo il 1930 gli enti pubblici-imprese dilagarono in ogni settore: si istituirono enti finanziari, enti bancari, enti di produzione (minerari, energia elettrica, petroliferi, metallurgici, ecc.), enti di intermediazione commerciale, enti di gestione di servizi: risultò così che ogni ramo di attività economica poteva ammettere imprenditori-enti pubblici.Si è già avvertito che in Italia, fin dal periodo fascista, questi enti pubblici economici ebbero configurazione separata nella categoria degli enti pubblici, essendo del tutto analoghi alle imprese private dei rami corrispondenti per le strutture tecniche, le attività svolte e le leggi base regolative del loro esistere. In realtà differenze con le imprese private sussistono, in quanto tali enti sono sempre sotto la vigilanza di un'amministrazione pubblica territoriale (Stato, regione, provincia o comune), e hanno amministratori nominati dall'amministrazione di vigilanza, talora anche mediante procedimenti complicati. Anche per essi il rischio dell'imprenditore non si presenta nei modi con i quali si presenta per l'imprenditore privato (anche se è maggiore che per l'impresa-organo), e mancano il fallimento e le amministrazioni straordinarie. Però esistono altri istituti, come misure coattive, in luogo di questi.L'ente pubblico-impresa ha una storia ricca di vicissitudini, di cui si occupano i molti che hanno studiato la materia. L'ultimo in ordine di tempo di questi enti, in Italia, è l'ENEL.
Particolare diffusione ha avuto la terza specie di impresa pubblica, che è l'impresa in partecipazione pubblica. Questa è un'impresa avente la figura della società di capitali, che resta società privata sotto ogni aspetto, le cui azioni - o quote - sono detenute da un ente pubblico sia di carattere generale che di carattere speciale. Le prime figure di società in partecipazione pubblica si ebbero nello scorso secolo, in Inghilterra e in altri paesi, ma solo quando enti locali, di regola comuni, preferirono costituire società di capitali in partecipazione maggioritaria propria anziché aziende municipali.Lo sviluppo delle partecipazioni pubbliche è soprattutto di questo secolo e ha motivazioni politiche: salvataggio di grandi imprese rilevanti nel mercato, opportunità militari, forti pressioni politiche per nazionalizzare imprese, svolgimento di attività imprenditoriali attinenti a servizi di pubblico interesse o perfino pubblici, e così via, sino a situazioni-limite quali si ebbero in Francia dopo il 1946, quando passarono in mano pubblica imprese che avevano collaborato con l'invasore tedesco. La varietà delle motivazioni non permette quindi teorizzazioni generali.In Italia le partecipazioni statali sono state portate a un particolare livello di compiutezza - tanto che si parla di un 'sistema' delle partecipazioni statali - che è stato seguito anche in altri paesi. La materia forma oggetto di amplissima letteratura.
Tralasciando esperimenti precedenti, le origini del sistema stanno nella crisi economica mondiale del 1929, che colpì in profondità le banche in quanto detentrici di consistenti pacchetti azionari di società, in maggioranza società industriali. Un gruppo di economisti illuminati (Beneduce, Menichella, Saraceno, ecc.) suggerì che i pacchetti azionari fossero passati autoritativamente a un apposito ente pubblico, facendosi divieto assoluto alle banche di detenere azioni di imprese. Si costituì così l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, IRI, a cui si assegnarono i pacchetti azionari con il compito di risanare le imprese alle quali le azioni - o quote - si riferissero, restituendole all'imprenditoria privata. L'IRI eseguì quanto gli era commesso fino al 1937, quando, per ragioni soprattutto belliche, il governo decise che esso si 'stabilizzasse' con tutti i pacchetti azionari che ancora deteneva, divenendo un 'ente di gestione', ente pubblico economico. L'IRI costituì delle holdings per le diverse specie di società delle quali deteneva pacchetti azionari (le 'finanziarie IRI': Finsider, Finmeccanica, Finelettrica, ecc.), divenendo il maggior gruppo economico del paese.
Finito il secondo conflitto mondiale, si pose il problema del suo mantenimento: prevalse la tesi favorevole, appoggiata dalla maggioranza dei partiti politici, intendendosi l'IRI come stabilizzatore del mercato e sostentatore pubblico di settori industriali sempre in difficili situazioni (metallurgia, chimica, meccanica). Si costituirono anzi altri enti di gestione: l'Ente Nazionale Idrocarburi, ENI, che rilevò le esistenti imprese societarie del settore petrolifero, ne costituì di nuove, e le raggruppò in cinque gruppi; più tardi si costituì l'Ente Fondo Industrie Meccaniche, EFIM, che rilevò alcune imprese societarie del settore dell'industria meccanica e fu poi autorizzato a operare anche nel settore alimentare. Altri enti di gestione furono ancora istituiti e poi disciolti, per lo più per insuperabili crisi dei settori.A coronamento fu istituito, nel 1956, un molto discusso Ministero per le Partecipazioni Statali, come amministrazione statale per la vigilanza sugli enti di gestione e quindi con poteri di direttiva e di controllo, anche se, più tardi, la grande direttiva passò al CIPI (Comitato Interministeriale per la Politica Industriale). Gli enti di gestione, come azionisti diretti o indiretti (tramite le finanziarie o le capogruppo), conservano peraltro una loro rilevante autonomia, onde non si può propriamente dire che lo Stato sia azionista di un cospicuo gruppo di società di capitali; però tramite la catena delle direttive ha poteri di comando, se le azioni detenute dagli enti di gestione nelle società costituiscono pacchetti di comando.
Peraltro, nel seno delle società in partecipazione degli enti di gestione sono avvenuti fatti che hanno dato molto da discutere agli economisti. Alcune infatti sono divenute delle multinazionali; altre sono in posizioni dominanti, altre ancora sono divenute gestori dichiarati e riconosciuti di pubblici servizi. Queste ultime in particolare si trovano così sottoposte a due serie di direttive: quelle dell'ente di gestione-ministero-CIPI, e quelle dell'amministrazione concedente.È da aggiungere che, sulla scia di quanto operato dallo Stato, le regioni si sono costituite proprie società in partecipazione: alcune finanziarie, le quali sono strumenti in mano alle regioni per le incentivazioni economiche a imprese tutelate direttamente da leggi regionali; altre per la gestione di servizi o la realizzazione di opere pubbliche. Anche alcuni comuni hanno istituito società in partecipazione, per fini particolari.Mentre con il sistema delle partecipazioni statali si realizza un settore pubblico dell'economia, che sarà più o meno consistente, ovvero più o meno tipico quanto a contenuti o oggetti, con l'azionariato regionale o comunale si è in presenza di una vicenda diversa, non discosta da quella delle società in partecipazione statale gestori di servizi pubblici, che è l'uso a fini pubblici dell'impresa privata, o 'amministrazione per imprese'.
Negli Stati eurocontinentali per tutte le amministrazioni pubbliche, sia dello Stato che di altri enti pubblici, questa costituisce una delle più interessanti innovazioni della prassi del secolo, in quanto in essa il pubblico potere consapevolmente rinuncia ad avvalersi di istituti di diritto amministrativo per utilizzare istituti di diritto privato, nella specie di imprese societarie (non si conoscono casi di utilizzazione di imprese di altra forma anche se, in termini puramente teorici, sarebbero possibili). Può quindi accadere che il pubblico potere costituisca direttamente la società di cui diviene azionista di comando, oppure che acquisti partecipazioni in società già esistenti. Al limite però non è neppure necessario un suo intervento nei pacchetti azionari; può infatti utilizzare una società già esistente, con azioni tutte in mano di privati, persone o enti, conferendole un incarico pubblico. Il conferimento dell'incarico potrà avere la forma della concessione o dell'affidamento pubblicistico (se la figura è conosciuta nel diritto positivo), ma può essere anche sufficiente un contratto non costituente né contratto di concessione né contratto di affidamento, bensì contratto di diritto comune.
Anche in Italia vi sono casi di amministrazione per imprese dello Stato: la REL, Ristrutturazione elettronica s.p.a., e la RIES, Risanamento agro-industriale zuccheri s.p.a., sono società nelle quali ministeri dello Stato sono azionisti di maggioranza; enti come la Cassa del Mezzogiorno erano azionisti in banche, enti di intervento operativo, enti di studio; leggi sui lavori pubblici contemplano, in misura sempre maggiore e sempre più libera, concessioni di costruzione di opere pubbliche assentite direttamente a società private; per gli impianti di smaltimento dei rifiuti altre leggi prevedono affidamenti diretti a imprese private, e così via.Con l'amministrazione per imprese, da porre in parallelo con l'amministrazione per contratti, le amministrazioni pubbliche eurocontinentali si sono singolarmente avvicinate a quelle del modello inglese. Queste infatti, non avendo strutture qualificabili specificamente come pubbliche, non hanno enti pubblici funzionali e quindi sono esenti dai tanti problemi, esegetici e dogmatici, che questi pongono; non hanno imprese-ente pubblico, né tantomeno imprese-organo. Gli enti che si istituiscono sono enti di natura privata, che agiscono usando il diritto comune; se necessario si adotta una qualche legge speciale (cioè si ricorre allo statute law).
Anche il modello inglese è ormai entrato nello Stato pluriclasse. Ma ciò ha comportato solo un aumento dello statute law, per regolare i nuovi servizi pubblici che si andavano a istituire, e un aumento del numero degli enti privati con attribuzioni pubbliche, se si vuole, ma nella loro attività retti da normative privatistiche, di diritto comune.Non senza ragione una figura molto usata in questo modello, specie nell'esperienza statunitense, è quella dell'agenzia (agency). Ma l'agency non è una curiosità o una particolarità di tale ordinamento: è solo l'agenzia figura giuridica esistente come istituzione e come contratto anche nei diritti positivi dei paesi eurocontinentali. Se si vuole, è una forma stabilizzata dell'amministrazione per imprese, nel senso che l'agenzia diviene una figura soggettiva permanente per l'esercizio di attività organicamente amministrative. Le amministrazioni del modello inglese hanno sempre utilizzato e sempre più largamente utilizzano organizzazioni private per propri fini: enti finanziari, banche, imprese di servizi di ogni genere.
Non si è detto, sinora, che anche associazioni private possono agire come ausiliarie dello Stato. In Italia un esempio vistoso è dato dalle associazioni ambientalistiche. Altrove l'arco delle associazioni ausiliarie può essere molto più ampio, specie là dove esse sono sempre e comunque enti privati, a differenza di quanto accade nei paesi eurocontinentali, nei quali si danno svariate figure di enti pubblici associativi.
Dunque, in sintesi, lo Stato è oggi uno dei tanti poteri pubblici; le amministrazioni dello Stato si sono costituite attorno una moltitudine di amministrazioni parallele, in teoria dirette e controllate, in pratica controllate solo su fatti marginali, poiché le amministrazioni dello Stato non hanno quadri idonei; inoltre gli enti esponenziali di gruppi territoriali sono sempre più importanti e agguerriti; infine le amministrazioni dello Stato sono obbligate, per la forza delle cose, a utilizzare sempre più ampiamente organizzazioni imprenditoriali, o comunque non pubbliche, esterne.
Il cambiamento della struttura dei pubblici poteri, le amministrazioni parallele, il peso degli enti esponenziali di gruppi territoriali, le imprese pubbliche o sotto l'impero di pubblici poteri sono tutti indicatori della vicenda che lo stesso Stato, nel proprio essere, si è profondamente modificato per le funzioni e le strutture rispetto allo Stato del periodo precedente.Anche questo cambiamento è avvenuto nell'arco di un mezzo secolo, tanto che non infrequentemente è passato inavvertito alla costituzionalistica e alla politologia. Tuttavia è oggi chiaro come allorché si istituirono, verso la fine dello scorso secolo, le amministrazioni statali del lavoro, il principio di fondo dello Stato monoclasse di non intervento nell'economia -anzi, politicamente, di neutralità dello Stato nei confronti delle classi e della libera iniziativa - venisse a ricevere un grave vulnus: solo alcuni economisti più rigoristi delle teorie liberiste se ne avvidero, senza peraltro aver consapevolezza di ciò che l'evento significava.
Tali amministrazioni infatti si occupavano della sicurezza nel lavoro, dell'igiene e della sanità nei posti di lavoro, della disoccupazione in sé (uffici di collocamento) e della disoccupazione involontaria (si arriverà alle casse integrazione guadagni), ossia il pubblico potere (statale) si ergeva a tutore diretto di interessi di classi operaie e contadine.Ma non meno vulnerativa dei principî fu la pratica, iniziata di lì a poco, degli incentivi all'industria e all'agricoltura. Invero lo Stato borghese conosceva già la pratica dei dazi doganali protettivi; ma ogni volta che i parlamenti li deliberavano, allo scandalo degli economisti si rispondeva trattarsi di disposizioni transeunti, congiunturali, e si prometteva un ritorno ai principî liberistici non appena possibile. Il fatto è che, specie per i dazi protettivi della produzione agricola, più volte accadde che il 'non appena possibile' non si avverò mai, e anzi vi furono paesi, come la Germania imperiale, che si eressero vere barriere di dazi protettivi. Peraltro, anche se questi dazi erano misure di tutela di produttori particolari, nel periodo dello Stato 'liberale' non si arrivò a corrispondere alle imprese agricole e industriali sovvenzioni, premi, sgravi. Si ricordi che in Italia la liquidazione della Banca Romana (1893) passò in Parlamento - questioni politiche a parte - solo perché si prese in considerazione precipua l'interesse dei risparmiatori.
Dall'esame delle due evenienze risulta allora che nello Stato contemporaneo vi sono innanzitutto radicali trasformazioni strutturali, che si possono così sintetizzare: che lo Stato di pubbliche funzioni è passato a essere Stato di pubblici servizi. Nelle realtà positive la situazione è molto più complicata di quanto sia significato dall'enunciato di sintesi; le funzioni pubbliche non sono scomparse: restano, talora rafforzate, talora attenuate. Ma chi consideri, poniamo, la polizia o le forze armate, riscontra che allo svolgimento delle funzioni si sono aggiunti dei servizi importanti (assistenza sociale, assistenza minorile, impiego in ausilio di popolazioni colpite da catastrofi, ecc.). Il numero dei servizi pubblici, invece, è cresciuto sino a superare ampiamente quello delle funzioni: vi sono amministrazioni, come quelle del lavoro, dell'industria, dell'agricoltura, dei lavori pubblici, dei trasporti, della marina mercantile, della protezione civile, ecc., che prestano in prevalenza assoluta servizi pubblici. Ma il tratto più interessante è che ormai attività di funzione pubblica e attività di servizio pubblico si sono compenetrate tra loro, sì da conservare valori puramente teorici: gli ispettorati per l'igiene sul lavoro prestano servizio pubblico allorché ispezionano e consigliano l'imprenditore circa le attrezzature di cui dotare la fabbrica, ma quando ordinano di sostituire un'attrezzatura inidonea esercitano una funzione pubblica anche sanzionata penalmente; eguale constatazione si può fare per servizi più tradizionali, come l'istruzione, l'assistenza ospedaliera (che non è competenza dello Stato), e così via. Sicché le amministrazioni dello Stato - e con esse quelle degli enti pubblici, sia territoriali che funzionali, che abbiano preso a modello le amministrazioni dello Stato - svolgono delle 'attività amministrative' spesso in regime di indistinzione, per l'aspetto strutturale, tra funzione e servizio.
La distinzione potrà rimanere per il profilo funzionale in quei paesi, come per esempio l'Italia o la Francia, nei quali il giudice dell'atto autoritativo è diverso dal giudice dell'atto non autoritativo (in Italia per il primo vi è il giudice amministrativo). Il fatto dell'indistinzione costituisce un altro tratto di avvicinamento fra i modelli eurocontinentale e inglese, salvo il profilo giurisdizionale (che peraltro costituisce, nei primi, un'inutile e anacronistica complicazione).Una seconda modificazione consiste nel fatto che lo Stato è divenuto un ente aperto a tutte le istanze che si pongono nella collettività. In Italia il governo Cavour aveva sette ministeri; oggi solo dalla fine del secondo conflitto mondiale sono state costituite undici nuove amministrazioni centrali (Presidenza del Consiglio, Lavoro, Marina mercantile, Sanità, Partecipazioni statali, Ricerca, Funzione pubblica, Comunità europea, Protezione civile, Ambiente, Casa), con tendenza all'aumento (in Inghilterra sono ormai oltre cento) e con correlativo incremento degli uffici interni (in particolare le direzioni generali).In uno Stato pluriclasse la vicenda è del tutto spiegabile: ogni gruppo sociale chiede ai pubblici poteri il riconoscimento di qualche propria istanza; anche i sindacati e le associazioni professionali operano nella stessa direzione; anche la Comunità Economica Europea e le organizzazioni internazionali si comportano nel medesimo modo. Se per quanto riguarda le ultime due i comportamenti dello Stato sono obbligati, per quanto riguarda le altre istanze le questioni divengono politiche; ma è difficile che lo Stato pluriclasse, quantomeno per mantenere la pace sociale, risponda con dinieghi perentori; semmai lascia che questi siano proposti dalle forze sociali in posizione dominante.
In Stati fortemente legificati, come sono quelli del modello eurocontinentale, è necessario che tutte le istanze accolte si concretino in leggi dei parlamenti; solo che questi non hanno - o non possono avere - il senso della misura e legificano tutto, senza avvedersi che, dato il gioco delle parti, gli atti normativi primari dovrebbero avere ambiti precettivi ridotti a fissare principî e statuizioni che siano coperti da riserva di legge, lasciandosi il rimanente ad atti normativi secondari. Ma siccome scrivere una legge è cosa difficilissima e i parlamenti non hanno quadri attrezzati (anzi in tutti i parlamenti predominano per quantità e qualità persone inesperte di leggi), la conseguenza è che vengono prodotte leggi malfatte e occorre provvedere con leggi di correzione. Quasi tutti gli Stati del modello eurocontinentale si trovano in questa condizione, e ovunque sono stati introdotti o sono allo studio nuovi istituti giuridici (delegificazioni, uffici legislativi unificati, uffici legislativi permanenti di unificazione di testi, e simili) per provvedere.
La rilevante quantità di attività amministrative che si è assunto lo Stato pluriclasse ha comportato una modificazione, che consiste nell'accentuazione della separazione tra attività di governo e attività di amministrazione. Sino a qualche tempo fa si diceva che tra le due attività la differenza era solo concettuale, e che nella pratica concreta ambedue si riunivano nelle persone degli amministratori di vertice: i ministri e il governo, per lo Stato; gli assessori, i presidenti, le giunte per gli enti territoriali; i membri dei comitati esecutivi - o organi consimili - e i presidenti per gli enti funzionali. Oggi per gli enti territoriali e per gli enti funzionali la divisione tra le due attività è più o meno rimasta come prima, ossia è questione più che altro di fatto, in concreto accentuandosi or l'una or l'altra a seconda dei titolari degli uffici; per cui si dice che questi enti costituiscono amministrazioni 'compatte', volendosi significare, in ultima analisi, che le funzioni di indirizzo politico-amministrativo non si disgiungono, nella pratica attuazione, dalle funzioni di amministrazione. E ciò si spiega in ragione della limitatezza delle attribuzioni affidate, certamente, agli enti funzionali, e anche in certo modo agli enti territoriali (anche le Regioni, che pure sono gli enti aventi maggior dimensione amministrativa dopo lo Stato, non possono assumersi, per decisione propria, attività che eccedano la misura degli interessi regionali). A meno di ritenere con la dottrina statunitense (Wilson) che l'attività politica è soprattutto amministrazione.
Per lo Stato la situazione è del tutto diversa. Innanzitutto lo Stato si trova a curare interessi che sono tra loro confliggenti, e sovente sono confliggenti con quelli di enti amministrativi minori. Il caso forse più vistoso, in Italia, è il Ministero della Marina mercantile, che nel suo stesso interno ha direzioni generali per la cura, rispettivamente, degli interessi delle autorità portuali, degli armatori e dei lavoratori portuali: gli ultimi due dovrebbero essere invero curati dai Ministeri dell'Industria e del Lavoro, ma con ciò non si avrebbe che una dislocazione delle sedi di cura dei due gruppi di interessi, poiché la virtuale conflittualità non sarebbe eliminata.Secondo il disegno costituzionale, i conflitti infraministeriali dovrebbero essere risolti dal ministro, quelli fra ministri dal Consiglio dei ministri: il fatto è che spesso di essi ci si accorge quando intervengono atti formali che esprimono la volontà dell'autorità competente, e ciò avviene non solamente in Italia. Comunque è sempre il Consiglio dei ministri che tiene insieme le diverse amministrazioni, in quanto gli compete l'indirizzo politico e politico-amministrativo del governo e dell'amministrazione statale. Nei diversi diritti positivi possono registrarsi delle varianti in proposito: in Inghilterra, per esempio, è il Consiglio di gabinetto (composto dei ministri più importanti) a provvedere.
Resta però il fatto che le amministrazioni dello Stato sono disaggregate: in Italia ciascuna ha un proprio bilancio e una propria ragioneria; ciascuna ha propri ruoli organici e proprio personale e il passaggio di un dipendente dall'una all'altra amministrazione comporta un apposito procedimento amministrativo; ciascuna ha la propria legittimazione processuale attiva e passiva, e secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione ambedue le forme sono inderogabili (per cui è inammissibile un'azione in giudizio contro lo Stato genericamente preso: la si può fare solo nei confronti dell'amministrazione competente; il che, in concreto, comporta complicati problemi ermeneutici); ciascuna ha propria legittimazione procedimentale e, soprattutto, negoziale privata. Tanto che, visto da occhi profani, l'insieme degli apparati amministrativi dello Stato appare come un congiunto di soggetti giuridici separati più che come un complesso organico con legittimazioni separate (ed è qui la scaturigine della tesi, che ogni tanto riappare, della personalità giuridica che avrebbero gli organi dello Stato).Sicché è la stessa conformazione dello Stato che porta ad accentuare la separazione tra le due attività, di governo e di amministrazione.
Non essendo lo Stato un'amministrazione compatta, la collegialità della decisione del governo attiene agli atti d'indirizzo, di coordinamento (assai scarso) e ad alcuni atti formali, come le nomine agli uffici di vertice; tutto il resto compete ai singoli capi delle amministrazioni, cioè ai ministri: per cui il ministro capo di un'amministrazione ministeriale dovrebbe conoscere approfonditamente le attribuzioni dell'amministrazione, i modi di esercizio delle attribuzioni e i problemi che pone la pratica in ordine all'esercizio medesimo. Ora, secondo un normale calcolo di probabilità, è rarissimo che un ministro possa avere tante conoscenze e capacità, e ciò anche a prescindere dalle di lui preparazioni professionali. La conseguenza è che sovente un ministro è inferiore per preparazione e attitudini alla propria burocrazia di dirigenza, onde questa finisce col far premio nel ministero. Non occorre alcuna particolare calliditas dei dirigenti affinché ciò avvenga, anche se gli studiosi del fenomeno burocratico si intrattengono sulla medesima; ma è proprio per questo che le amministrazioni pubbliche sono in posizione di inferiorità rispetto a quelle degli enti privati, in ispecie le società, ove gli amministratori vengono scelti in base alle loro capacità.
La vicenda era già nota, e deplorata, nello Stato borghese; ma nello Stato pluriclasse si è accentuata di molto, in quanto sono i partiti politici a indicare le persone dei ministri e a stabilire mediante accordi non formali le amministrazioni ministeriali da 'occupare'; ora le scelte dei partiti sono scelte politiche: in ogni partito politico le persone da preporre agli uffici si indicano in base a criteri vari, in taluni grandi partiti addirittura reperibili in manuali, ma comunque criteri politici, mai attitudinali. La sola eccezione che si registra, nell'esperienza contemporanea, è quella dei governi aventi la forma presidenziale, ovviamente quando non si corrompa dall'interno.Il quadro che pertanto si presenta è questo: ogniqualvolta una legge dà allo Stato un'incombenza, un'attribuzione, questa è sempre affidata a un'amministrazione dello Stato stesso. Si discuterà magari circa l'amministrazione più idonea e se non la si troverà la si istituirà ex novo, ma una volta rinvenuta o istituita, l'amministrazione agisce per proprio impulso e va avanti per forza propria, anche se il ministro non c'è o se ne disinteressa. Si sono avuti casi, anche in Italia, di ministri i quali si sono occupati solo dei cosiddetti problemi politici, lasciando liberi i direttori generali di amministrare direttamente e solo firmando gli atti che le norme loro commettevano.Malgrado la perdita di attribuzioni e di potestà a favore di altri pubblici poteri, malgrado le limitazioni di movimento che da altri pubblici poteri ancora subisce, lo Stato pluriclasse conserva una centralità nell'insieme operante dei pubblici poteri: attua quanto proviene dalle sedi superstatali; riceve da partiti, da sindacati e da associazioni professionali suggerimenti e sollecitazioni; non può invadere il campo dei poteri territoriali, ma cerca di collegarli, deve rispettare le attribuzioni degli enti funzionali, ma può dare loro direttive. Questo avviene in tutti gli Stati, indipendentemente dalla forma di governo, ossia anche negli Stati collettivisti (dei quali non si è qui fatta parola, in quanto per essi si richiederebbe una trattazione separata, anche se l'esperienza che esprimono è povera).
Se si tiene conto delle amministrazioni dello Stato e di quelle dei vari altri enti, si può facilmente constatare, sulla base di quanto è stato sinora detto, che le amministrazioni pubbliche possono fare, oggi, ogni cosa: non vi sono attività che, per natura, siano loro vietate o siano disdicevoli. In URSS i pubblici poteri, tramite proprie organizzazioni, fanno il coltivatore, l'industriale, il commerciante e il banchiere, ma anche da noi lo Stato fa il banchiere, gestisce forme di previdenza sociale, imprese industriali e imprese del terziario. Sono quindi cadute tutte quelle limitazioni di attività che si avevano nello Stato monoclasse.Nel seno stesso dello Stato possono esservi - come si diceva - conflitti fra amministrazioni; se si allarga la visuale agli enti territoriali e agli enti funzionali, le sfere di possibile conflittualità vengono elevate a dimensioni prima mai viste; né può essere altrimenti, poiché conservandosi sempre allo Stato l'attività politica generale, ogni indirizzo politico che si proponga o si decida troverà contro un altro pubblico potere (un sindacato, un partito politico) o un ente del complesso amministrativo.
Per principio generale, non scritto ma ritenuto esistente in tutti i paesi, spetta allo Stato comporre i conflitti interni, o almeno tentare di farlo (è in ciò la versione moderna dell'antichissima regola del potere pubblico generale come tutore della pace sociale), ed è qui la radice dell'ormai vasta attività che dispiegano i governi degli Stati per prevenire e per comporre i conflitti. Attività informale, che non si esprime neppure in atti giuridici definiti (come avviene invece per le decisioni dei Consigli dei ministri per la composizione di conflitti fra ministeri), ma in accordi politici solo talora verbalizzati.Un'attività già più mirata è quella che ha ricevuto il nome di programmazione (o pianificazione). Invero, già da quando esistono bilanci pubblici esiste un'attività di programmazione, ma di ciò si dirà dopo.
La programmazione di cui si usa parlare è un'attività con effetti esterni, nel senso che il potere pubblico programmatore assume di regolare soprattutto l'azione di soggetti esterni per collegarla con la propria, per cui la programmazione per eccellenza è la programmazione economica. Essa nacque in URSS e nei paesi socialisti, ove è necessaria; ivi ha trovato e trova le sue esperienze più interessanti. Verso la fine degli anni trenta vi furono degli economisti, entusiasti dei successi avutisi in URSS, i quali si misero a sostenere che anche nei paesi capitalistici essa si sarebbe potuta applicare con il risultato principale di evitare gli sprechi e di coprire settori carenziali dell'economia. Quest'ultimo profilo fu accolto negli Stati Uniti dal presidente Roosevelt, per quella che fu poi detta programmazione 'indicativa' e che era un ragguaglio ragionato dei campi nei quali si riteneva opportuno uno sviluppo produttivo. Durante il secondo conflitto mondiale in tutti gli Stati si adottarono pianificazioni economiche 'integrali', ossia con previsioni precise di approvvigionamenti, prodotti, tipi e tempi di produzione: solo che queste esperienze sono testimonianze del tutto neutre, poiché durante guerre totali come quella, la pianificazione economica integrale diviene una necessità vitale.
Dopo la guerra riprese fervida la discussione, al punto che vi è in materia un'enorme letteratura. Il primo paese a porre in essere una programmazione fu la Francia, che elaborò una 'pianificazione per obiettivi' (Piano Monnet) consistente in opere di bonifica e di trasformazione agraria e fondiaria (in particolare nella Linguadoca) e nell'attrezzare dei poli di sviluppo industriale, soprattutto in zone non industrializzate. Tale programmazione conseguì tutti i risultati fissati, al punto che oggi si è praticamente estinta per carenza di altri obiettivi.
Una programmazione economica generale fu tentata anche in Italia (1967), ma non per obiettivi, bensì come rifondazione generale delle strutture economiche e istituzionali. L'esperimento italiano ha avuto una grossa importanza, ma ha mostrato come in uno Stato a mercato libero la programmazione richiederebbe strumenti coercitivi dell'impresa, il cui costo sarebbe altissimo in rapporto ai risultati. L'esperienza dei paesi moderni non collettivisti si è quindi orientata verso le programmazioni, o pianificazioni, di settore. La pianificazione del territorio (urbanistica) esisteva in Italia fin dal 1942 e la si è perfezionata attribuendo alle Regioni il governo generale del territorio e ai Comuni la gestione della pianificazione e dell'attuazione. Poi si è avuta la programmazione delle aree depresse: in Italia quella del Mezzogiorno, affidata ad apposito ente pubblico (Cassa per il Mezzogiorno), è stata una programmazione per obiettivi circoscritti, proposti da poteri locali. Anche per intervento della CEE si sono poi avute programmazioni della produzione agricola e di settori della produzione industriale, e vi sono, in sede centrale e locale, una quantità di piani di sviluppo, di distribuzione, di costruzione di opere pubbliche e di impianti dei più diversi tipi.Di conseguenza autorevoli correnti di pensiero, in America e in Europa, sostengono che la tecnica moderna delle amministrazioni pubbliche è l"amministrazione per piani'. Il che non esclude, ovviamente, provvedimenti amministrativi e negozi privati, per così dire, fuori piano e non ne limita l'uso, ma sovrappone a essi gli atti esecutivi dei piani.
Un'attività dei pubblici poteri per la quale la tecnica della programmazione era ed è correntemente usata è quella che attiene alla finanza pubblica. Sin dalla sua origine, in Inghilterra, la legge di bilancio è un'esposizione al parlamento di quanto si prevede possa essere l'entrata pubblica nelle sue diverse fonti, cui si accompagna un quadro di come si vuol ripartire la spesa in ragione delle diverse attività del governo: è quindi una previsione dell'entrata e una programmazione della spesa. Nello Stato borghese l'istituto si generalizza, e ovunque la discussione parlamentare del bilancio annuale diviene lo strumento base di controllo dei governi da parte dei parlamenti, in quanto diviene l'occasione in cui si discute, attraverso le allocazioni, la politica generale del governo; l'attuazione del bilancio è poi verificata da un organo indipendente, che per lo Stato è quello che in Italia e altrove sarà detto Corte dei Conti (i nomi e i modi di verificazione variano a seconda dei paesi), e si esercita su un atto, detto rendiconto, che prima o poi viene introdotto in tutte le normazioni positive. L'organo di controllo riferisce al parlamento sui risultati della verificazione effettuata, onde pone in grado il parlamento medesimo di adottare misure riparatrici. È vero che questo procedimento è più teorico che effettivo; tuttavia il solo fatto che esista funge da deterrente nei confronti, più che del governo, degli uffici contabili.
Sempre nel periodo dello Stato borghese si elaborarono nuove statuizioni sul bilancio: il divieto di adottare bilanci separati o speciali (unità del bilancio), il divieto di erogare spese non aventi copertura in bilancio, l'obbligo conseguente di reperire coperture non apparenti delle nuove spese, la possibilità di costituire appositi fondi di riserva per spese imprevedibili, impreviste o nuove; in ordine alle entrate le giurisprudenze stabilirono la rigida osservanza del principio di legalità nel senso di riserva di legge (o di atto normativo).Lo Stato moderno ha conservato tutte le disposizioni dello Stato del tipo precedente, solo che si è trovato in presenza di situazioni più complesse, non essendo più, con la maggiore autonomia dei poteri locali, con l'istituzione degli enti pubblici funzionali e con le nuove specie di attività amministrative, il protagonista principale della percezione dell'entrata e dell'erogazione della spesa. Ciò ha portato ovunque all'introduzione di particolari complicati procedimenti e, principalmente, all'adozione di leggi con le quali lo Stato ha cercato di recuperare anche nel settore finanziario quella centralità assoluta che prima possedeva.Così in diversi paesi lo Stato è percettore di tributi per conto di altri enti pubblici, nel senso che provvede all'imposizione e alla riscossione e poi divide tra i soggetti creditori. Altrove ha poteri ancora più ampi, in quanto l'ammontare dei tributi spettanti agli altri soggetti non è fissato dalle norme, ma dallo Stato stesso, secondo appositi procedimenti e con l'applicazione di criteri determinati (questo caso e il precedente si denominano 'finanza derivata', per dire che il potere d'imposizione tributaria negli enti minori non c'è o non è più esercitabile). Ancora: vi sono paesi (l'Italia è fra essi) nei quali lo Stato obbliga gli enti minori a servirsi della tesoreria dello Stato stesso, sì che essa sola lucra gli interessi sulle somme depositate. Questi, e altri strumenti minori, sono volti a dar vita a un centro di direzione o di azione unitaria per l'entrata.
Strumenti più sofisticati sono stati introdotti per la finanza nel suo complesso e per il bilancio; per lo più si sono trovate soluzioni organizzative nella specie di nuovi uffici, soprattutto per i problemi dei raccordi tra le varie amministrazioni, per la rilevazione e per i non semplici calcoli che sempre si richiedono. Per i bilanci la tecnica della programmazione si è ulteriormente affinata con diversi strumenti: bilanci pluriennali di spesa, bilanci divisi in più periodi temporali di deliberazione, bilanci articolati; forse l'istituto più interessante è costituito dalle 'leggi di finanza', che si accompagnano alla legge di bilancio. In Italia la riforma finanziaria è stata adottata con la legge n. 468 del 1978, la quale prevede cinque strumenti: legge di bilancio annuale, legge di bilancio pluriennale, legge finanziaria, legge di aggiustamento del bilancio, rendiconto annuale. Politicamente lo strumento più importante è la legge finanziaria, nella quale, secondo le norme, vanno stabiliti il tetto del ricorso annuale al mercato finanziario, ai fini della copertura della spesa; la misura dei diversi fondi speciali, per le leggi in itinere e per spese impreviste; le quote annuali delle previsioni dei bilanci pluriennali; le allocazioni massime; le eventuali modificazioni di allocazioni già effettuate da altre norme.
Secondo gli economisti pochi di questi strumenti sono funzionanti. Pure in Italia è allo studio un complesso di perfezionamenti degli strumenti esistenti, anche se, in concreto, la programmazione finanziaria è ancora tra le più evolute.Le tecniche programmatorie sono ovunque in evoluzione verso forme sempre più affinate, nelle quali si hanno sempre più frequentemente figure associative tra pubblici poteri e privati. Se vi sono materie nelle quali la programmazione si risolve semplicemente in scelte, più o meno razionali o più o meno politicamente influenzate, come le programmazioni della spesa, ve ne sono invece altre che richiedono calcoli su vicende economiche non sempre sicuri al punto da essere non discutibili, ed è questo uno dei settori in cui è più in uso l'amministrazione per imprese.
Nel dire delle modificazioni dell'apparato degli Stati (v. cap. 4) si è già rilevata la commistione esistente tra attività di funzione e attività di servizio. Se si passa ad analizzare le attività più caratteristiche dello Stato contemporaneo, tale commistione si mostra in tutta la sua evidenza. Dette attività sono sostanzialmente due: il governo dell'economia e l'assistenza.
Per governo dell'economia si intende, per convenzione, l'insieme dei molti istituti giuridici per l'amministrazione di fatti economici ed economico-sociali. In realtà un 'governo' in senso proprio è possibile se vi siano indirizzi politici unificanti e nella misura in cui siano possibili direttive di esecuzione degli indirizzi in ciascuno dei settori: vicenda che si realizza ovunque in modo imperfetto. Il che spiega le quasi continue modificazioni che subiscono i diversi settori componenti della materia.Così un settore in continua convulsa modificazione è quello delle opere pubbliche: dall'attività di approntamento di infrastrutture di interesse pubblico, dello Stato, di enti locali e di enti funzionali, che prima caratterizzava nettamente il settore (v. cap. 2), si è passati a un'attività di approntamento di opere di interesse sociale, e poi a un'attività estesa a ogni opera di interesse pubblico, anche indiretto. Per cui, all'attività che nello scorso secolo era chiamata 'ponti e strade' si sono aggiunte le opere idrauliche, le opere di difesa delle coste, le ferrovie, le opere di bonifica e riforestazione, l'edilizia monumentale, le sedi per uffici pubblici, i porti e gli aeroporti, gli impianti sportivi, gli edifici per beni culturali, gli impianti per telecomunicazioni, gli impianti ospedalieri o sanitari, ecc., ma anche le zone attrezzate per stabilimenti industriali e per opere di assistenza agricola e l'edilizia residenziale pubblica, cioè opere che interessano categorie produttive e ceti insufficientemente abbienti.Siamo al punto che ormai ogni specie di costruzione può virtualmente essere qualificata come opera pubblica, o d'interesse pubblico, solo che una legge lo disponga.
La normativa, in Italia, sembra si preoccupi soprattutto della semplificazione dei procedimenti e della rapidità di esecuzione dei lavori, onde ha introdotto e sviluppato la figura della concessione di opera pubblica, che è una figura di amministrazione per imprese, in cui l'attività del potere pubblico si limita, in sostanza, al controllo.Sono altresì dello Stato contemporaneo le attività conformative della proprietà e le attività conformative delle imprese. Quanto alle prime, è noto che i recenti codici civili, tra cui quello italiano, aprono largamente alle leggi speciali. Di qui tutti i cosiddetti vincoli che sono introdotti alle proprietà immobiliari, a partire dai meno recenti (militari, di bonifica e forestali, di impianto industriale) sino ai più recenti vincoli ambientali, passando per l'ingente massa dei vincoli urbanistici, culturali, sanitari, ecc. Dunque attività che negli ordinamenti di oggi competono a più amministrazioni dello Stato (difesa, agricoltura, industria, marina mercantile, lavori pubblici, beni culturali, ambiente, trasporti) e ai comuni, e tutte ormai comprese nel concetto di urbanistica. Questi, correntemente detti vincoli, sono in realtà provvedimenti amministrativi volti a conformare i beni costituenti proprietà immobiliare, privata ma anche pubblica; sì che essi dispongono in materia di destinazione d'uso di zone (per esempio, prendendo la materia urbanistica, zone a verde, aree a destinazione pubblica, residenziali ecc.), di conformazione dell'uso (per esempio edificazione per tot mc/mq), di astensioni particolari (per esempio non alterare l'aspetto della cosa, tenersi alla distanza x), di procedimenti per innovare l'esistente (per esempio autorizzazione sul progetto della tale autorità), di obblighi di modificazione (per esempio scavare canali, piantare alberi, recingere, far sì che non si abbiano acque a caduta), e così via, secondo figure talora specialissime. Il punto estremo a cui giunge la potestà conformativa è la funzionalizzazione del diritto di proprietà, in cui la decisione circa le utilizzazioni della proprietà è finalizzata e assoggettata al controllo di un pubblico potere, talora con potestà decisionali attribuite direttamente al potere pubblico medesimo.
Si può constatare come qualsiasi interesse pubblico, anche a contenuto molto particolare, possa stare alla base delle potestà conformative della proprietà (e degli altri diritti reali). Quasi identico discorso vale per il diritto d'impresa e per l'impresa. Solo che qui l'inerenza dell'interesse pubblico varia in ragione di ciò che la norma vuole sia controllato o diretto. Nella maggior parte dei casi è l'attività imprenditoriale nel suo insieme, quindi la qualificazione economica che si dà al contenuto dell'attività imprenditoriale. Ma accanto a questo vi sono fattispecie normative nelle quali ciò a cui si fa assumere rilevanza è il prodotto dell'attività imprenditoriale, o la circolazione del prodotto, o il risultato economico che l'attività imprenditoriale vuol raggiungere.Quando ciò che ha rilievo di pubblico interesse è l'impresa per il contenuto delle sue attività, l'impresa è assoggettata a obblighi o, più raramente, a obbligazioni (per esempio tenuta di scritture, uso di attrezzature speciali, iscrizione in particolari registri, e così via), e all'autorità competente viene sempre attribuito un complesso di poteri, che sono potestà ispettive (volte a verificare l'osservanza - da parte dell'impresa - degli obblighi derivanti da legge, da provvedimenti generali, da provvedimenti singolari), potestà di direttiva (criteri da seguire per talune operazioni, operazioni vietate o sconsigliate, ecc.), potestà d'ordine (di regola per far cessare comportamenti vietati o sconsigliati) e potestà repressive (sanzioni per inosservanza di norme o di disposizioni).
Varia però molto ciò che si dice di solito il 'regime' delle imprese. La specie più semplice è quella delle imprese in regime di autorizzazione, in cui vi sono potestà di vigilanza e repressive e l'interesse pubblico può consistere o in una razionale distribuzione sul territorio delle imprese o nell'assoggettare l'impresa a controlli più penetranti. Esempio della prima evenienza l'autorizzazione comunale per gli esercizi commerciali, per i quali la legge prevede perfino che i comuni possano elaborare piani di distribuzione territoriale; della seconda le farmacie, per le quali, accanto alla 'pianta organica' di distribuzione territoriale, vi è l'esigenza di controllo della capacità professionale dell'imprenditore e dell'osservanza della normativa sui medicinali. In regime di autorizzazione sono pure i ristoranti, i bar, i panifici, le macellerie, le pescherie, i trasporti liberi, ecc.
Viene poi il regime di concessione, in cui vi è un'autorità concedente, con poteri di direttiva e di ordine, oltreché di vigilanza. Tutti i pubblici servizi affidati a imprese private sono in regime di concessione: tali i servizi comunali relativi all'acqua potabile, al gas, al latte alimentare, alla nettezza urbana, ai rifiuti solidi; tali tutti i servizi di trasporto di linea, dalle aerolinee alle ferrovie concesse all'industria privata, dalle linee di navigazione d'interesse locale ai trasporti urbani, ai trasporti automobilistici di linea, alle funicolari, ecc.; tali i servizi di comunicazione e telecomunicazione, questi ultimi oggi in particolare per le comunicazioni via radio, via satellite, ecc.; sono anche in regime di concessione le imprese minerarie, di idrocarburi, le raffinerie, le imprese di acque minerali o termali, di cave, di depurazione, e così via. Il regime di concessione è caratterizzato da una convenzione tra concedente e concessionario in cui si regolano soprattutto le obbligazioni reciproche: l'opinione dominante è che le convenzioni siano dei contratti in senso proprio.
Una terza specie di questo gruppo è data dagli ordinamenti detti sezionali: vi è un organo dell'amministrazione dello Stato, o un ente pubblico-organo, che regge il gruppo delle imprese di un certo tipo, avendo penetranti poteri normativi, di direzione, di vigilanza, di ordine, repressivi. In Italia vi sono un ordinamento sezionale del credito, a cui sono preposti la Banca d'Italia e il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, CICR; un ordinamento sezionale delle assicurazioni private, a cui sono preposti l'Istituto di Vigilanza delle Assicurazioni Private, ISVAP, e il Ministero per l'Industria e Commercio; secondo un'opinione diffusa vi sarebbe anche l'ordinamento delle borse, delle società con azioni quotate in borsa, dei fondi di investimento, a cui è preposta la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, CONSOB; sono stati prospettati anche altri ordinamenti sezionali, ma ne è dubbia l'esistenza. La caratteristica saliente degli ordinamenti sezionali sta nelle potestà normative - efficaci solo all'interno dell'ordinamento - con cui si possono regolare anche materie di diritto privato, ciascun ordinamento avendo peraltro propri tratti in ragione delle finalità per cui è stato istituito.Accanto a questi tre regimi aventi linee generali definite, vi sono in ogni ordinamento imprese che, in ordine a elementi soggettivi, sono sottoposte a speciali controlli di organi amministrativi: quasi ovunque le imprese 'di interesse nazionale', le cooperative e le imprese artigiane. Nei paesi dove esiste una legislazione antitrust le imprese capogruppo, cartellizzate, in monopolio economico, in posizione dominante: nei confronti di esse organi dell'amministrazione statale possono adottare misure, assistite da coazione e da sanzioni, per imporre lo scioglimento dei vincoli turbativi del mercato. Infine esistono autorizzazioni ad atti particolari dell'imprenditore.Sicché lo Stato contemporaneo, e con esso altri enti pubblici, è giunto a portare sotto controllo, e talora sotto direzione fortemente imperativa, imprese e categorie di imprese mediante istituti impensabili nello Stato liberale; non per questo tale Stato è divenuto collettivista, ma sotto il profilo del governo dell'economia i risultati non sono diversi da quelli che si otterrebbero mediante collettivizzazioni, con il vantaggio che resta ai privati il rischio d'impresa (salvo quanto tra poco si dirà circa le incentivazioni).
Accanto a questi istituti che attengono all'impresa in quanto tale, ve ne sono altri che attengono al prodotto: si possono fabbricare solo prodotti registrati (per es. medicinali), o prodotti rispondenti a modelli standardizzati (la cosiddetta unificazione industriale), o prodotti aventi certe composizioni chimiche o fisiche, o macchine rispondenti a prototipi approvati dall'amministrazione; oppure si vietano metodi di produzione pericolosi, o che possano danneggiare l'ambiente. Si hanno quindi, anche in queste fattispecie, delle potestà conformative a ordini o divieti. Attengono alla circolazione dei prodotti istituti come i contingentamenti, gli ammassi, le assegnazioni autoritative (per esempio, in molti paesi, le valute), la disciplina autoritativa dei prezzi e delle tariffe e così via, anch'essi inventati o reinventati nello Stato contemporaneo in funzione antispeculativa.
Gli istituti forse più rilevanti del nuovo tipo di amministrazione sono costituiti dalle incentivazioni e dalle disincentivazioni: rigorosamente vietati nello Stato liberale (anche se nella fase di transizione già si conobbero salvataggi industriali e misure tributarie congiunturali), sono oggi consueti anche nei paesi che più si professano liberali (Germania, Stati Uniti) e hanno molteplici figure; per le incentivazioni: agevolazioni tributarie, acquisizione di poteri speciali se si pongono in essere determinati atti, attribuzione di posizioni autoritative a privati, ausili di assistenza tecnica, ausili finanziari, contributi pubblici in capitali o in interessi, premi in denaro o in natura, sovvenzioni sul capitale di esercizio, ripianamenti di bilanci, accollo di costi di particolari opere, finanziamenti agevolati, assunzione di partecipazioni azionarie, fiscalizzazione di debiti, e così via; per le disincentivazioni ricorrono, di regola, istituti inversi a quelli delle incentivazioni. L'inventiva delle normazioni positive in ambedue le materie è veramente senza più limiti. È inutile dire che incentivazioni e disincentivazioni aprono non semplici problemi economici e sociali, e spessissimo anche giuridici: basti pensare alla fiscalizzazione degli oneri sociali delle imprese e alle casse integrazione guadagni per gli operai. Comunque ciò che ha interesse precipuo ai fini generali è che gli istituti dell'incentivazione e della disincentivazione coprono ormai quasi l'intero arco delle attività economiche e sono finalizzati a interessi talmente vari che sinora a nessuno è riuscito di offrirne tavole conoscitive soddisfacenti: istituti ordinati, per esempio, al salvataggio di imprese in difficoltà (come da noi la GEPI) possono intervenire affinché siano conservati i posti di lavoro e la vitalità economica di una zona, sia salvaguardata una certa specie di produzione che si considera di pubblico interesse, e così via.Tutti questi istituti di governo dell'economia possono essere inseriti in programmazioni - di solito programmazioni di settore - sì da essere potenziati in quanto inseriti in disegni operativi preordinati.
Resta da dire brevemente dell'attività assistenziale: già presente nella fase di transizione, è oggi dominante negli Stati contemporanei; le varie sue specie furono le prime a essere richieste dalle nuove forze politiche giunte al potere. I teorici distinguono tra assistenza soggettiva e oggettiva. La prima riguarda categorie definite: orfani, anziani, handicappati, ciechi, ecc., ma anche categorie professionali come impiegati dello Stato e degli enti locali o professionisti, come medici, avvocati, ingegneri, ecc. La seconda si articola in forme come l'assistenza generica, sanitaria, ospedaliera, ambulatoriale, fisioterapica, farmaceutica, medica specialistica, scolastica, del tempo libero, previdenziale, ecc. In ogni paese la cronistoria degli istituti dell'assistenza è sempre di non comune complessità, in quanto sono stati seguiti nel tempo indirizzi vari: decentramento dell'assistenza su enti locali appositi (tipo IPAB), istituzione di enti regionali per assistenze specialistiche, di enti funzionali centrali esclusivi per la previdenza (le 'Casse' delle varie categorie di professionisti, l'Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, INPS). Oggi, più o meno, le grandi partizioni sono l'assistenza generica, l'assistenza sanitaria e la previdenza, ripartite tra organizzazioni diverse (in Italia le Regioni, il servizio sanitario nazionale, l'ENPAS e il gruppo degli enti previdenziali sopravvissuti).
Se a quest'assistenza alle persone, che non necessariamente riguarda soggetti in particolari condizioni di disagio, e anzi nelle sue forme più avanzate è generalizzata, si aggiunge l'assistenza tecnica agli operatori economici, che sta ovunque assumendo dimensioni cospicue, si comprende come si sia potuto dire che oggi lo Stato (ove Stato significa amministrazioni statali e non statali insieme) sia uno 'Stato assistenziale': locuzione errata sia sul piano nozionale che su quello del linguaggio, ma significativa dell'innovazione intervenuta nell'insieme dei pubblici poteri con l'avvento dello Stato pluriclasse. Di fatto il costo dell'assistenza pubblica può essere divenuto tanto elevato da destare delle preoccupazioni finanziarie, non tanto per il settore previdenza (in senso stretto) quanto proprio per quello dell'assistenza. Di qui il dibattito a cui la materia dà luogo. Quel che è certo è che questo insieme di pubblici servizi è divenuto veramente una caratteristica degli Stati contemporanei.
Con la locuzione 'giustizia amministrativa', che è in uso in Italia, e con quella di 'controllo giurisdizionale dell'amministrazione', in uso in Francia, e parzialmente in Inghilterra, negli Stati Uniti e altrove, si indica il complesso dei giudici, dei giudizi, in sintesi delle forme di tutela giurisdizionale di cui fruiscono i cittadini e ogni altro soggetto giuridico nei confronti delle pubbliche amministrazioni.Si ritiene spesso che gli istituti della giustizia amministrativa siano una delle conquiste civili del XIX secolo. In realtà la vicenda è più complessa, perché già nel secolo precedente si ammetteva senza difficoltà che il giudice civile avesse giurisdizione in ordine alle controversie tra amministrazioni pubbliche e cittadini in materie aventi contenuto patrimoniale. 'Cittadini' significa, per brevità, altri soggetti, e quindi anche enti privati, enti pubblici - per esempio comuni -, soggetti di altra cittadinanza; mentre 'materie aventi contenuto patrimoniale' significa non solo materie di diritto privato - per esempio compravendita conclusa con pubbliche amministrazioni -, ma anche materie di diritto pubblico quali tributi, requisizioni, espropriazioni, e simili.
Si tenga presente che quasi ovunque gli Stati-enti pubblici erano doppiati da un altro soggetto collaterale, denominato 'fisco'. Era quindi il fisco che poneva in essere i contratti per lo Stato, e che si presentava in ogni controversia originata da atti di diritto pubblico, che avesse un contenuto patrimoniale. Gli enti pubblici minori invece non erano doppiati da un fisco. Il cittadino era però privo di tutela ogniqualvolta l'atto dell'autorità non incideva su un di lui diritto avente contenuto patrimoniale, con l'eccezione delle residue materie di diritto feudale le quali, peraltro, moltissime volte avevano anch'esse contenuto patrimoniale. Vi fu quindi, nel Settecento, tutto un fiorire di studiosi di jus fisci e di jus feudorum, che animarono le scienze giuridiche.
Con l'avvento dello Stato moderno scomparvero sia lo jus fisci che lo jus feudorum, e quello della tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti delle amministrazioni pubbliche si pose subito come un grave problema, tutte le volte che le amministrazioni agivano in quanto tali, ossia come autorità. Non venne incrinata la tutela civile e penale nei casi in cui le amministrazioni agissero come soggetto privato, e cioè addivenissero a contratti privatistici, salvi i residui 'privilegi del fisco' eventualmente rimasti nelle normazioni positive, specie nel campo delle obbligazioni. Ma non appena si usciva dal tradizionale ambito civilistico, anche il più modesto atto dell'autorità, per esempio l'ordine di polizia di distruggere merce avariata, non aveva più un giudice.Il fondamento teorico di tale atteggiamento si trovava nel principio della divisione dei poteri: essendo ogni potere indipendente rispetto a un altro, non è possibile, si pensava, che il potere giurisdizionale imponga proprie decisioni all'amministrazione-potere esecutivo perché ciò comporterebbe un'invasione di un potere nel campo proprio di un altro.
Il solo potere di cui disponesse il cittadino era così quello del reclamo amministrativo, o 'ricorso'. In taluni tempi e paesi vi furono anche leggi che se ne occuparono: noto e studiato il caso dell'Impero napoleonico in Francia, in cui si conosceva un ricorso all'imperatore, che questi decideva su parere del Consiglio di Stato: osservano gli storiografi che non avvenne mai che l'imperatore si discostasse dal parere ricevuto, pur non essendo questo vincolante da un punto di vista strettamente giuridico.L'istituto del 'ricorso amministrativo' fu peraltro riconosciuto in tutti gli Stati, anche del periodo della Restaurazione, e passò poi, a più forte ragione, negli ordinamenti degli Stati liberali. A questo punto però le esperienze giuridiche nei diversi Stati si diversificano, e ciascuno di essi segue un proprio itinerario, dimodoché si formano quelli che verranno poi detti i diversi 'modelli' di giustizia amministrativa.Il modello più semplice è quello che si dice inglese, che è poi seguito negli Stati Uniti e in tutti i paesi di cultura inglese. In esso il giudice civile ordinario ha competenza anche per le controversie tra cittadini e amministrazioni pubbliche, e non vi sono particolarità processuali in ordine a tali controversie.Invero in Inghilterra la storia delle giurisdizioni presenta delle particolarità, in quanto già prima dell'avvento dello Stato moderno si ammettevano delle azioni a tutela di talune libertà civili lese da atti del potere esecutivo.
Ciò che rimaneva scoperto era il vasto settore dell'azione delle autorità amministrative che non incideva in libertà civili riconosciute, quindi un settore notevolmente ampio, anche a tener conto della buona volontà di cui dettero prova i giudici inglesi nell'estendere quanto più era possibile l'ambito dei rimedi tradizionali.Ancora una volta, però, interferì in modo negativo il principio della divisione dei poteri, nel senso che si ritennero incompetenti gli organi giurisdizionali a sindacare i provvedimenti delle autorità ogniqualvolta essi presentassero anche un minimo di discrezionalità. L'esame giurisdizionale della sfera discrezionale dell'amministrazione era ritenuto in contrasto palese con la regola della separazione dei poteri, e nessuna rilevanza si doveva attribuire, secondo i giudici inglesi, alla situazione soggettiva di cui fosse titolare il cittadino: le complicate discussioni che si facevano in taluni paesi continentali circa la titolarità di un diritto soggettivo ovvero di un interesse legittimo non hanno mai neppure sfiorato dottrina e giurisprudenza nei paesi che hanno adottato il modello inglese di giustizia amministrativa.
Questa condizione di non valutabilità della sfera discrezionale dell'amministrazione si è protratta per tutto lo scorso secolo. Negli Stati Uniti d'America si trovò un rimedio nell'istituzione di organi collegiali appositi per l'esame dei ricorsi presentati dai cittadini contro provvedimenti discrezionali delle autorità: il numero di tali organi crebbe col procedere del tempo e la dottrina nordamericana li teorizzò, chiamandoli commissioni 'quasi-giurisdizionali'. In effetti dinanzi a tali commissioni si svolgono procedimenti contenziosi che ben poco differiscono dai processi.L'influenza della giurisprudenza del Consiglio di Stato francese, esaltata da tutte le dottrine tra i due secoli, smosse anche i giudici inglesi e degli altri paesi del modello, sì che oggi essi si sono, se così può dirsi, allineati con i giudici amministrativi degli altri paesi. Col risultato che il modello inglese è oggi divenuto quello che unisce maggiormente semplicità ed efficienza. La sola turbativa è costituita dai giudici speciali e dalle commissioni quasi-giurisdizionali: ambedue si stanno però lentamente riassorbendo.
Nel suo insieme è abbastanza semplice anche il modello austro-tedesco, seguito dai paesi dell'Europa danubiana e centrale e da quasi tutti i paesi sudamericani. Esso contempla un tribunale amministrativo, a cui si portano le controversie concernenti le amministrazioni pubbliche, come organo giurisdizionale a sé stante. Vi sono ordinamenti nei quali vi è un solo tribunale amministrativo centrale, di solito ripartito in più sezioni (o camere); altri nei quali vi sono tribunali amministrativi locali, contro le decisioni dei quali si va in appello al tribunale centrale; altri, pure ordinati in tribunali locali e centrale, in cui talune specie di controversie sono riservate al solo tribunale centrale.Ciò che contraddistingue il modello è il criterio che si usa per ripartire le giurisdizioni, che è quello soggettivo: basta che in una controversia sia parte, come convenuto ma anche come attore, una pubblica amministrazione, affinché si possa radicare la giurisdizione del giudice amministrativo. Non si fa alcuna distinzione in ordine alla situazione soggettiva di cui si chiede la tutela (diritto, interesse legittimo, possesso, aspettativa, ecc.), né in ordine alla materia: materia di diritto amministrativo, in via primaria, ma talora si ammettono anche materie di diritto civile, come i contratti con le amministrazioni a evidenza pubblica, i contratti accessivi alle concessioni, i contratti sostitutivi di provvedimenti amministrativi.
Quest'ultimo punto è, come s'intende, il più delicato, specie in quegli ordinamenti che conoscono una giurisdizione del giudice civile nelle materie costituite dai rapporti civilistici tra cittadini e amministrazioni pubbliche, e può avere anche notevole rilevanza concreta per via dell'identificazione del giudice di appello, negli ordinamenti che conoscono tribunali amministrativi locali e un tribunale amministrativo centrale, in quanto è questo che si deve adire se in primo grado si è iniziato con un tribunale amministrativo.
La Germania è forse il paese in cui il modello ha assunto forma più compiuta, nel riordinamento delle giurisdizioni attuato dopo l'adozione della Costituzione di Bonn. Ivi il giudice amministrativo è una delle cinque specie di giurisdizioni in cui si ripartisce il complesso dell'apparato giurisdizionale, accanto al giudice civile, del lavoro, tributario e penale. Non sono ammesse eccezioni d'incompetenza: per cui, adito il giudice civile anziché quello amministrativo, si va per la via prescelta e giudice supremo sarà o il 'giudice amministrativo del Reich' o il corrispondente della nostra Cassazione civile.Nel sistema tedesco il modello funziona in modo egregio; il giudice dell'amministrazione pubblica è un giudice professionale, adusato alle logiche particolari che spesso presentano le controversie giurisdizionali amministrative. L'essere poi parte di un'organizzazione giudiziaria unitaria elimina una grossa quantità di problemi processuali e permette l'unificazione dei servizi di giustizia, pur conservando al giudice amministrativo le sue peculiarità; anzi in concreto è stata resa possibile l'attribuzione al giudice amministrativo di taluni giudizi, cautelari o esecutivi, che altrove non possono sussistere. Sì che oggi, in questo modello, la struttura della Germania Federale realizza probabilmente la forma più efficiente di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti delle amministrazioni pubbliche.
Un ultimo modello è costituito da quello che correntemente si usa denominare del doppio giudice: un giudice amministrativo e un giudice civile hanno ambedue giurisdizione sulle controversie cittadini-amministrazione. Questo è però un modello differenziato: è adottato in Belgio, Francia e Italia e il punto di differenziazione è costituito da ciò che è correntemente detto il riparto delle giurisdizioni (civile e amministrativa).In Belgio e in Francia la giurisdizione del giudice civile sussiste in termini assai ridotti, in quanto al giudice amministrativo sono direttamente attribuite molte materie che in sé sarebbero civilistiche. Il giudice civile viene così ad avere un ruolo quasi marginale.Dei due ordinamenti il più celebre, famoso anche fuori della cerchia dei giuristi, è quello francese. È ordinato per tribunali amministrativi territoriali, e ha al centro il Consiglio di Stato. Questo, già noto fin dall'Impero napoleonico - e se ne è detto - come giudice della 'giustizia ritenuta', nel 1870 divenne giudice autonomo, attributario di quattro 'aperture di ricorso'.
Fra queste quella per excés de pouvoir- che non corrisponde all'italiano 'eccesso di potere' ma ha un significato molto maggiore -, nell'esercizio della quale esso intraprese quella giurisprudenza sul controllo dei motivi del provvedimento amministrativo (détournement de pouvoir, corrispondente - questo sì - all'italiano 'eccesso di potere') che lo portò in breve tempo a costituirsi come giudice particolarmente penetrante della discrezionalità amministrativa. Questa è sindacata non per il contenuto dei giudizi di opportunità, in cui si manifesta - rimanendo sempre ferma la regola che la discrezionalità come tale è insindacabile dal giudice -, ma in modo indiretto: sussistenza dei motivi dell'atto chiesti dalla legge e sussistenza eventuale di motivi contrari alla legge. Col tempo essa si è estesa al controllo della logicità intrinseca dei motivi, in figure dette sintomatiche, quali la contraddittorietà, l'illogicità manifesta, la disparità di trattamento, e simili. Per cui il détournement de pouvoir ha finito col divenire un controllo della funzione amministrativa presa nel suo complesso, nei suoi moventi e nei suoi motivi.L'eccesso di potere (in senso italiano) come vizio di legittimità del provvedimento amministrativo è quindi opera del Consiglio di Stato e costituisce una delle grandi creazioni giurisprudenziali dello scorso secolo, proseguita in questo. Con essa si è trovato un punto di conciliazione tra i principî, che apparivano non componibili, di divisione dei poteri, legalità dell'azione amministrativa e tutela giurisdizionale effettiva nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Si spiega quindi la risonanza che ebbe l'indirizzo giurisprudenziale francese fuori della Francia: in Inghilterra, nei paesi germanici, in Spagna, in Italia.Quanto infine all'Italia, si volle dare al riparto delle giurisdizioni un fondamento sistematico: le controversie nelle quali si fa questione di diritti soggettivi vanno al giudice ordinario, quelle relative a interessi legittimi al giudice amministrativo; giudice dei conflitti di attribuzione la Corte di Cassazione. Questo come linea di base. Gli istituti positivi hanno subito una complessa evoluzione.
Con la legge del 20 marzo 1865 n. 2248, all.E (è la legge di unificazione amministrativa dell'appena creato Regno d'Italia) furono attribuite al giudice ordinario tutte le controversie concernenti i diritti soggettivi, sopprimendosi tutti i tribunali 'del contenzioso amministrativo' preesistenti nei diversi Stati preunitari. Le controversie relative a interessi legittimi restarono affidate a reclami (ricorsi) amministrativi. Già in sede di discussione parlamentare della legge, F. Cordova pose in evidenza gli inconvenienti della soluzione proposta, nonostante essa si appoggiasse a un precedente, quello belga, salutato come progressista da tutta la dottrina 'liberale'.Occorse un lungo dibattito di opinione pubblica, di cui fu tra i protagonisti S. Spaventa, per introdurre un organo giurisdizionale per la tutela degli interessi legittimi del tipo del Consiglio di Stato francese, introduzione suggerita anche dal prestigio che nel frattempo questo aveva assunto. Solo nel 1889 furono assegnate al Consiglio di Stato le funzioni giurisdizionali, e furono poi assegnate alle giunte provinciali amministrative le controversie che coinvolgessero atti di poteri locali, con appello al Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale cominciò subito a funzionare, e funzionò benissimo avendo raccolto l'esperienza del Consiglio di Stato francese, che anzi perfino perfezionò. I problemi difficili vennero dal criterio adottato per il riparto delle giurisdizioni, essendovi materie per le quali vi era una duplice competenza giurisdizionale.
Nel 1923 si credette di risolvere parte delle difficoltà introducendo per talune materie una 'giurisdizione esclusiva' del Consiglio di Stato, cioè attinente insieme ai diritti soggettivi e a interessi legittimi; subito però la giurisprudenza della Corte di Cassazione giudice dei conflitti la circondò di steccati. La reazione fu che si introdussero alcune centinaia di 'giurisdizioni speciali' per materie circoscritte, fondate appunto sul criterio della materia, e quindi comprendenti insieme questioni di tutela di diritti soggettivi e di interessi legittimi. La più rilevante di queste era la giurisdizione, già preesistente, attribuita alla Corte dei Conti in materia di responsabilità contabili e di responsabilità amministrative dei pubblici funzionari, di pensioni e di pensioni di guerra. Ma vi era anche una smisurata quantità di collegi arbitrali-giurisdizioni speciali, previsti da leggi eterogenee.Questa era la situazione al momento in cui l'Assemblea costituente doveva decidere la Costituzione repubblicana. La Costituzione soppresse tutte le giurisdizioni speciali esistenti, dicendo di voler adottare il principio dell'unità della giurisdizione. Ma, contraddicendosi, conservò le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti sotto l'influsso dei due presidenti di questi collegi, e anzi contemplò, quanto alla giurisdizione amministrativa, l'introduzione di tribunali amministrativi regionali. A questa si giunse solo ventitre anni dopo, con la legge n. 1034 del 1971. La cosa più grave è che la Costituzione conservò il discutibile criterio di riparto delle giurisdizioni tra giudice civile e giudice amministrativo, senza avere il coraggio neppure di scalfirlo.
I tribunali amministrativi regionali presentano un aspetto indubbiamente positivo, consistente nell'aver decentrato la giurisdizione amministrativa - che per numero di controversie stava arrivando ad altezze del tutto impreviste - e anche nell'averla decentrata in modo efficiente, giacché nel complesso la giurisprudenza di questi tribunali non è insoddisfacente. L'aspetto negativo riguarda il profilo processuale: il processo amministrativo è invecchiato, è quello di quando il Consiglio di Stato era giudice unico, con attribuzioni limitate e limitate possibilità di azione da parte dei ricorrenti. Di qui il movimento, che è in corso, per una revisione del processo amministrativo.Il complesso italiano della giustizia amministrativa è certamente il peggiore esistente. In primo luogo consta di quattro giurisdizioni: amministrativa, civile, contabile e tributaria (questa si è aggiunta, malgrado i principî costituzionali), tra le quali i conflitti sono quotidiani. In secondo luogo il criterio di riparto delle giurisdizioni tra giudice civile e giudice amministrativo è un autentico nonsenso. Esistono di fatto moltissime controversie con amministrazioni pubbliche nelle quali la natura della situazione giuridica tutelata è indefinita, e perciò incerta; ne esistono poi molte altre nelle quali ambedue le situazioni giuridiche tutelate esistono insieme, e non sempre sono facilmente separabili. Nel primo caso si va quindi avanti per convenzioni giurisdizionali, nel senso che si sono formate giurisprudenze - di regola della Corte di Cassazione - le quali hanno definito la natura di una certa situazione soggettiva, o diritto o interesse, in rapporto a una certa normativa. Naturalmente resta sempre quel tanto di arbitrario che siffatte definizioni comportano, e vi è il grave inconveniente che, quando è emanata una nuova legge, spesso non è chiaro di quale situazione si tratti e occorrono anni di controversie prima che la Corte di Cassazione si pronunci. Nel secondo caso il cittadino è costretto in teoria ad adire due giudici; in concreto questo caso può sovente combinarsi col primo e allora la discussione per la ricerca del giudice può giungere al limite dell'assurdo. In ogni caso la coesistenza di due giudizi o di due giudicati dà luogo a situazioni che spesso sono dei rebus. Le speranze peraltro di adottare il modello inglese o tedesco sono assai scarse.
Più volte la dottrina ha sottolineato l'avvicinamento del modello eurocontinentale al modello inglese: a ben considerare l'avvicinamento consiste soprattutto nel fatto che sempre più largamente le amministrazioni eurocontinentali usano, nella loro attività, istituti contrattuali e accordi informali. Questo avviene talora in sostituzione, talora in aggiunta agli strumenti autoritativi tradizionali (provvedimenti amministrativi) e trova quel che potrebbe dirsi il suo punto d'arrivo nella citata amministrazione per imprese (v. § 3b). L"amministrazione per contratti' in taluni paesi appartenenti al modello eurocontinentale ha assunto posizioni preminenti, che peraltro dai giudici sono state ritenute ammissibili.
È da aggiungere che l'informatica sta ricevendo, nelle amministrazioni pubbliche, applicazione sempre più ampia con risultati, in molti paesi, eccellenti.Il futuro è allora quello di amministrazioni pubbliche che si andranno a configurare in modelli ben poco diversi dalle amministrazioni private, ma di regola con strutture molto complesse, e soprattutto munite di un piccolo arsenale di poteri autoritativi che permetteranno loro di intervenire nei momenti critici o per la cura di quei pochi interessi pubblici che non potranno essere gestiti con gli strumenti di diritto privato. È perfettamente ozioso chiedersi se sarà meglio o peggio, perché comunque si avranno sempre istituzioni inventate da uomini per curare interessi di uomini
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