Ammortizzatori sociali. La tutela in costanza di rapporto
Il contributo analizza le disposizioni che gli artt. 3 e 4 l. n. 28.6.2012, n. 92 dedicano agli ammortizzatori sociali per la tutela del reddito in costanza di rapporto di lavoro, evidenziandone gli aspetti di maggiore problematicità sul piano sistematico, nonché il grado di coerenza con gli obiettivi che il Governo di emergenza nazionale si è proposto con detta legge (art. 1, co. 1): segnatamente, quello di rendere «più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone», nella prospettiva generale di un mercato del lavoro «inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione».
L’intervento del legislatore del 2012 sulla disciplina degli ammortizzatori sociali non è che l’ultimo tassello di una lunga e disordinata serie di interventi nello specifico settore, che, però, si differenzia dagli altri per le manifeste ambizioni di sistemazione organica dell’intera materia.
Il recente intervento normativo, peraltro, richiede di essere considerato anche quale segmento della manovra che il “Governo tecnico” – meglio sarebbe dire “governo di emergenza nazionale” – ha inteso porre in essere nei territori del welfare, e, dunque, richiede di essere considerato in raccordo con l’intervento riformatore attuato qualche mese prima nell’ambito delle pensioni (l. 22.12.2011, n. 214). Esso resta, tuttavia, un intervento non definitivo, sia perché il completamento del disegno riformatore è espressamente rinviato all’attuazione della delega attribuita al Governo (v. infra, § 1.1), sia perché il provvedimento risulta palesemente condizionato dall’emergenza (così come, d’altra parte, quello che poco prima ha interessato il sistema delle pensioni) e dei deficit della politica industriale.
1.1 Il contesto normativo di riferimento
Dopo un pluriennale dibattito e il susseguirsi di articolati, quanto vani, progetti, improvvisamente, allo spirare del 2007, la riforma degli ammortizzatori sociali è sembrata a portata di mano1. Attraverso la l. 24.12.2007, n. 247 sembrava finalmente materializzarsi, la tessera mancante del mosaico prefigurato dal «libro bianco» del 2001: l’apprestamento di misure di sostegno del reddito, atte a controbilanciare le precarietà introdotte dalla profonda segmentazione subita nel frattempo (anche sotto l’influsso di quel testo) dal mercato del lavoro.
La fine anticipata della legislatura ha segnato un rallentamento – non già una battuta di arresto – del processo innovativo avviato da quella legge. La norma di delega alla quale detta legge aveva affidato la concreta realizzazione del disegno riformatore è stata rivitalizzata, dapprima, dalla l. 4.11.2010, n. 183 e, poi, dall’art. 4, co. 48-50, della legge qui in esame.
La continuità del disegno, tuttavia, può dirsi soltanto parziale, atteso che la l. n. 92/2012, pur senza accantonare la strumentazione già in essere – e, anzi, recependo, sia pure a titolo interinale, anche la variegata disciplina “derogatoria”, rapidamente sedimentatasi nel settore – attribuisce un ruolo centrale ai costituendi fondi bilaterali di solidarietà.
Ambizioni sistematiche ha anche la parallela riforma pensionistica, adottata sul finire del 20112, con la quale quel segmento della riforma del mercato del lavoro, che qui si considera, idealmente si correla e interagisce. Il sistema degli ammortizzatori sociali, anzi, per alcuni versi è destinato a svolgere, in maniera sempre più intensa, un ruolo suppletivo delle stesse assicurazioni sociali, divenute incapaci, per ragioni “tecniche” interne alla logica assicurativa, di fronteggiare una realtà ormai connotata, da un lato, dalla proliferazione dei lavori discontinui (che rendono difficile, a chi vi si dedica, maturare i requisiti amministrativi), e, da un altro lato, da forme di disoccupazione strutturale e di lungo periodo, rispetto alle quali la limitatezza temporale delle prestazioni assicurative rivela tutta l’insufficienza dello specifico strumento di protezione.
Nella specie, tuttavia, il recente intervento di riforma non prefigura modelli realmente innovativi; né appare in grado di supplire, in una logica di sistema, alle carenze strutturali delle assicurazioni sociali. Anzi, non è da escludere che, per difetto (allo stato) di idoneo coordinamento, riforma degli ammortizzatori sociali e riforma delle pensioni, pur così vicine nel tempo, possano finire per interagire non positivamente o, addirittura, in alcuni casi contraddirsi.
D’altra parte, resta il fatto che, per più versi, gli stessi ammortizzatori sociali in fondo non sono altro che un palliativo – indubbiamente importante in un periodo di crisi come l’attuale, ma pur sempre tale –, a fronte del perdurante difetto di una politica di riordino del sistema degli incentivi alle imprese e, più in generale, di una adeguata politica industriale.
1.2 L’impianto generale dell’intervento di riforma
In sé, l’impianto delle disposizioni sugli ammortizzatori sociali contenute nel provvedimento, intitolato Disposizione in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, qui in esame, è piuttosto lineare.
Sebbene ci si potesse attendere (date le non celate ambizioni del disegno riformatore) una (più) stretta integrazione con la «disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutela del lavoratore» (art. 1, co. 37-46), dette disposizioni trovano nel testo normativo in esame una collocazione quasi giustapposta a detta disciplina, e risultano ordinate secondo un criterio strettamente riferito al rapporto di lavoro: cioè, sulla base della distinzione tradizionale tra tutele «esterne» (art. 2) e tutele «interne» a quel rapporto (art. 3).
Nell’articolato, peraltro, è identificabile anche un ulteriore distinto gruppo di norme (art. 4, co. 33-50) di generale riferibilità a tutte le forme di ammortizzatori sociali3, le quali dichiaratamente si propongono: per un verso, di operare (seppur alquanto blandamente) nella direzione del coordinamento con le politiche attive e i servizi per l’impiego; per un altro verso, di provvedere al controllo e al monitoraggio delle nuove regole (art. 4, co. 34-37, che richiamano, di fatto, l’art. 1, co. 2 e 5); e, per un altro verso ancora, si prefiggono un obiettivo particolarmente delicato, quale è quello di evitare gli abusi, e, cioè, di evitare che gli ammortizzatori sociali vengano fruiti da soggetti non meritevoli.
Quest’ultimo obiettivo, in concreto, viene perseguito ripercorrendo strade già tracciate, cioè, imponendo ai destinatari, come requisito per il godimento delle prestazioni, la c.d. «condizionalità»: in altri termini, la fattiva loro disponibilità a partecipare, medio tempore, a corsi di formazione e di riqualificazione, o ad accettare eventuali offerte di lavoro, anche al ribasso (art. 4, co. 40-45).
In coda a tutto questo, quasi a presa d’atto dell’insufficienza (nonostante tutto) delle misure configurate, e, comunque, a “garanzia” di una prospettiva finale e di completamento, la l. n. 92/2012 contiene disposizioni (art. 4, co. 46-50) che rivitalizzano la delega già assegnata al Governo della passata legislatura dall’art. 1, co. 30 e 31, l. n. 247/2007 – con scadenza prorogata a novembre 2013 dall’art. 46 l. n. 183/2010 –, e ne fissa il nuovo termine di attuazione a «sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge». Nel contempo, tuttavia, quasi a marcare una presa di distanza con il precedente disegno, viene arricchito in qualche modo l’ambito dei principi e criteri direttivi della delega stessa, nella direzione: della «attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di una nuova occupazione»; della «riqualificazione di coloro che sono espulsi, per un loro efficace e tempestivo ricollocamento»; del «collocamento di soggetti in difficile condizione rispetto alla loro occupabilità».
1.3 Il quadro della tutela del reddito interna al rapporto di lavoro
Più articolata, rispetto a quella della tutela del reddito esterno al rapporto di lavoro, è, sia pure in una logica di sostanziale “continuità” con il passato, la disciplina della tutela del reddito interna al rapporto di lavoro (art. 3, co. 1-49), disciplina che, di fatto, si fonda su tre “pilastri”.
Il primo pilastro è rappresentato dalla Cassa integrazione guadagni (CIG), la cui operatività viene conservata nella sua struttura originaria, e dunque nelle due versioni dell’intervento ordinario e di quello straordinario, così come fino ad oggi regolati. Sono previste, peraltro, l’abolizione, a decorrere dal 2016, dell’intervento straordinario nelle procedure concorsuali, di cui all’art. 3, l. 23.7.1991, n. 223 (art. 2, co. 70, come emendato dall’art. 46 bis l. 7.8.2012, n. 134), e, per converso, la stabilizzazione di forme di intervento finora assicurate solo in via precaria, quali quelle a favore delle imprese commerciali e delle agenzie di viaggio e di turismo con più di 50 dipendenti, delle imprese di vigilanza con più di 15 dipendenti, e, in sostituzione del trattamento già previsto dall’art. 1 bis l. 3.12.2004, n. 291 e dall’art. 2 l. 22.12.2008, n. 203 (art. 3, co. 46), delle imprese del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali, a prescindere dal numero dei dipendenti (art. 3, co. 1); con, in più, il pendant di una disposizione ad hoc per i lavoratori portuali che abbiano subito periodi di mancato avviamento al lavoro (art. 3, co. 3).
Il secondo pilastro è rappresentato dalla CIG “in deroga”, ad attivazione discrezionale da parte del Governo e nei limiti di risorse finanziarie predeterminate (art. 2, co. 64-66). Si tratta, peraltro, di pilastro provvisorio, perché la legge ne prevede la conservazione solo per il periodo transitorio, e, dunque, solo fino alla fine del 2016; ma è chiaro che, più che una vera e propria “regola”, in tal modo il recente legislatore esterna un auspicio.
Il terzo (e fondamentale) pilastro è rappresentato dai “Fondi bilaterali di solidarietà”, strutture di nuova configurazione, la cui costituzione è affidata all’iniziativa delle «organizzazioni sindacali e imprenditoriali comparativamente più rappresentative a livello collettivo» (art. 3, co. 4), ma la cui regolamentazione è sostanzialmente eteronoma. Sono previsti, comunque, alcuni correttivi: il primo è rappresentato dal “Fondo di solidarietà residuale”, di iniziativa governativa, destinato ad operare in caso di mancata costituzione di fondi bilaterali, ma avente le medesime finalità e i medesimi svolgimenti di questi (art. 3, co. 19); il secondo è rappresentato da un “modello alternativo” di Fondo bilaterale, riservato ai settori «nei quali siano operanti ... consolidati sistemi di bilateralità», previo adeguamento delle fonti istitutive di questi, e ammorbidito, rispetto al “modello base”, nella relativa regolamentazione (art. 3, co. 14-18).
Come risulta evidente già da questo pochi accenni, si tratta di un disegno nel quale, ancora una volta, “privato” e “pubblico” si intrecciano strettamente: peraltro, con connotazioni prevalentemente di stampo privatistico sul fronte degli oneri finanziari (la provvista deve essere integralmente messa a disposizione dai privati), e prevalentemente di stampo pubblicistico sul piano regolativo. Ma su tutto incombe, comunque, una inesorabile ipoteca: il drastico limite rappresentato dal vincolo di pareggio di bilancio (v. infra, § 2.3).
In tale articolato quadro, l’elemento di novità è rappresentato inequivocabilmente dai Fondi di solidarietà (bilaterali e residuale), ai quali, in sostanza, nel disegno del Governo è affidata la fase di regime, seppur in concorso con l’attuale CIG. La prospettiva è palesemente quella della universalizzazione della specifica forma di tutela, e, insieme, della parificazione dei trattamenti.
Tuttavia, già ad un primo sguardo si può cogliere come si tratti di un obiettivo più enunciato, che realmente perseguito, come evidenzia già il fatto che la CIG resta riservata alle imprese che superino i limiti dimensionali noti.
Il ruolo primario riservato ai Fondi, comunque, ben spiega il fatto che ad essi venga dedicata la maggior parte delle disposizione riservate alle «Tutele in costanza di rapporto di lavoro» (artt. 3, co. 4-41): da questo, dunque, conviene muovere.
2.1. Centralità e articolazioni dei fondi bilaterali
Il riferimento normativo implicito del nuovo istituto è il modello già configurato dall’art. 2, co. 28, l. 23.12.1996, n. 662 (finanziaria 1997) per l’apprestamento di forme di assistenza e previdenza in favore di lavoratori in esubero, impiegati in settori, diversi da quello industriale, non coperti dal sistema degli ammortizzatori sociali.
Il “Fondo di solidarietà bilaterale”, configurato anch’esso, al pari di quell’antecedente, come entità priva di personalità giuridica (art. 3, co. 8), si differenzia, peraltro, da quella risalente esperienza, perché ne è prevista la costituzione “obbligatoria” presso tutte le imprese con più di 15 dipendenti appartenenti a settori non coperti dalla normativa in materia di integrazioni salariali (art. 3, co. 10). L’iniziativa può essere assunta dalle (sole) organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, le quali possono provvedervi mediante «accordi collettivi e contratti collettivi, anche intersettoriali», e la norma si preoccupa di avvertire che, salva espressa, diversa prescrizione, è escluso il personale dirigente (art. 3, co. 10).
L’istituzione così configurata è specificamente finalizzata alla tutela del reddito dei lavoratori destinatari di provvedimenti di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa. E la tutela si concretizza nell’erogazione di un «assegno ordinario di importo pari all’integrazione salariale, di durata non superiore a un ottavo delle ore compressivamente lavorabili da computare in un biennio mobile» (art. 3, co. 4 e 31). Nel contempo, la noma vuole che il Fondo in questione sia anche istituzione abilitata alla erogazione facoltativa di prestazioni integrative di quelle erogate dall’Aspi, di assegni straordinari a sostegno dei processi di esodo incentivato dei lavoratori anziani, di forme di concorso al «finanziamento di programmi formativi di riconversione o riqualificazione professionale» (art. 3, co. 11 e 32).
Infine, è anche previsto che Fondi di solidarietà bilaterali – questa volta a costituzione facoltativa, ferme tutte le altre condizioni – possano essere costituiti al fine di operare nei settori già coperti dalla normativa CIG: evidentemente, al mero fine di integrarne le relative prestazioni (art. 3, co. 12)4. Come già accennato, sebbene frutto di un atto di iniziativa privata di natura collettiva, il Fondo di solidarietà bilaterale è destinato ad essere regolamentato e gestito sulla base di disposizioni del tutto eteronome (essenzialmente, decreti interministeriali) rispetto all’iniziativa dei promotori del Fondo stesso. A fonti eteronome, infatti, dovrà farsi ricorso, quanto: ad ambito di applicazione del Fondo, compresa la «soglia dimensionale» o «classe di ampiezza» (art. 3, co. 7 e 10); a disciplina delle prestazioni; a entità delle aliquote contributive; ad eventuali modifiche dell’atto istitutivo (art. 3, co. 6, 7 e 22); a costituzione del comitato amministratore.
Per ciò che concerne gli aspetti finanziari, è previsto che la provvista del Fondo sia costituita, in via principale, dalla «contribuzione ordinaria», fissata per decreto e «ripartita tra datori di lavoro e lavoratori nella misura, rispettivamente, di due terzi e di un terzo» (art. 3, co. 22), con il concorso di un «contributo addizionale» (quantificato per decreto, e comunque non inferiore all’1,5%) a carico del datore di lavoro che ricorra alla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa (art. 3, co. 23) e di un «contributo straordinario» (in misura corrispondente al fabbisogno di copertura di bilancio) a carico del datore di lavoro che eroghi prestazioni straordinarie di supporto a processi di esodo incentivato di lavoratori anziani (art. 3, co. 24)5.
Fin qui il “modello base” di fondo di solidarietà. Ad essi, però, la legge, per esigenze di coordinamenti con i fondi bilaterali già esistenti, accompagna (art. 3, co. 14-18) un “modello alternativo” destinato ai settori nei quali siano operativi, appunto, «consolidati sistemi di bilateralità».
Ricorrendo tale situazione, le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, facendosi carico delle peculiari esigenze dei settori interessasti, dovranno provvedere ad adeguare le fonti istitutive dei rispettivi fondi bilaterali alle finalità perseguite dal nuovo istituto, assumendo «misure intese ad assicurare ai lavoratori una tutela reddituale in costanza di rapporto di lavoro, in caso di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, correlate alle caratteristiche delle attività produttive interessate».
In tale modello alternativo, a differenza di quanto stabilito per il modello base, viene lasciato agli accordi e ai contratti collettivi di definire: l’aliquota della contribuzione ordinaria (purché non inferiore allo 0,20%), la tipologia di prestazioni, l’adeguamento dell’aliquota in funzione dell’andamento della gestione ovvero dell’aggiornamento delle prestazioni, i criteri e i requisiti per la gestione del Fondo stesso. Una norma ad hoc è dettata anche per gli organi di amministrazione.
È facile pronosticare che il principale beneficiario di detto modello alternativo sarà il settore dell’artigianato6 (non per nulla espressamente nominato nel corpo della norma). Restano, peraltro, insolute, per il momento, le questioni di coordinamento con i regimi aziendali di previdenza integrativa7.
Infine, per il caso (e per i settori) in cui di fatto non si provveda – nonostante l’ «obbligatorietà» – alla costituzione di Fondi bilaterali, la legge prevede che con decreto interministeriale venga costituto il “Fondo di solidarietà residuale”, con gli stessi scopi (art. 3, co. 19). Si tratta di una struttura definita residuale, ma alla quale, dati i costi aggiuntivi che la costituzione dei Fondi bilaterali di solidarietà inevitabilmente è destinata a comportare, il cui importo è acuito dalle condizioni della attuale situazione economica generale, è prevedibile che resti affidato, in via di fatto, il compito di dare concreto riscontro alle ambizioni universalistiche della legge in esame.
2.2 Il collegamento gestionale con l’Inps
Molto stretto è, per i nuovi istituti, il collegamento gestionale con l’Inps.
È, sì, previsto che alla gestione di ciascun Fondo sia chiamato a provvedere un comitato amministratore nominato dal Ministro e composto da esperti designati dalle organizzazioni sindacali (nei Fondi bilaterali, in numero complessivamente non superiore a dieci; in numero non predeterminato, nel Fondo residuale) e da rappresentanti dei ministeri vigilanti (art. 3, co. 21, 35, 37). Ma è anche previsto che alle riunioni di detto comitato partecipi il collegio sindacale dell’Istituto previdenziale e, con voto consultivo, il relativo direttore generale (o un suo delegato) (art. 3, co. 40): particolarmente significativa è la clausola che prevede che le decisioni adottate da detto comitato possano venire sospese, entro 5 giorni, dal direttore generale dell’Inps, e restare in tale condizione di sospensione per una durata che può arrivare fino a tre mesi (evidentemente con conseguente, pari congelamento delle tutele), ove entro tale termine non intervenga il provvedimento (di conferma o di annullamento) del Presidente di quello stesso Istituto (art. 3, co. 41).
Anche gli oneri di amministrazione, d’altro canto, dovranno essere determinati dall’Inps, secondo i criteri del relativo regolamento di contabilità (art. 3, co. 9).
Non può sfuggire come tale regolamentazione – nelle intenzioni diretta a garantire omogeneità di condizioni e trattamenti – sia suscettibile di irrigidire molto le condizioni di operatività del nuovo istituto, così come di determinare un ulteriore aggravio di compiti per l’Inps, il quale, dopo l’inglobamento di Inpdap e Enpals, ex l. n. 214/2011, risulta ormai avviato ad assumere prerogative e dimensioni di notevole entità.
La consapevolezza di quanto sia delicata tale situazione emerge anche dalla l. n. 92/2012, che espressamente impegna detto Istituto (art. 4, co. 77) ad adottare «misure di razionalizzazione organizzativa», che si aggiungono a quelle già programmate solo pochi mesi prima (art. 21, co. 1-9, l. n. 214/2011; art. 4, co. 66, l. 12.11.2011, n. 183).
2.3 Il principio di pareggio di bilancio
Di particolare rilievo sistematico e pratico è la prescrizione che – con effetti tanto per i Fondi bilaterali (modello base e modello alternativo), quanto per il Fondo residuale – prevede l’obbligo del pareggio di bilancio. Un obbligo, questo, che idealmente si richiama al nuovo testo dell’art. 81 Cost.; ma che pone anche serie questioni circa la garanzia di effettività della tutela prospettata, dato che, in estensione di detto principio allo specifico settore, è espressamente previsto che le prestazioni, sia facoltative che obbligatorie, dovranno essere concesse «previa costituzione di specifiche riserve finanziarie, entro i limiti delle risorse acquisite» (art. 3, co. 22, 26 e 27).
L’imposizione di tale obbligo è accompagnato dalla comminatoria di particolari responsabilità a carico del comitato amministratore, il quale, per non risultare inadempiente, non solo dovrà predisporre, fin dalla costituzione dei Fondi stessi, bilanci di previsione a 8 anni, ma dovrà anche (in aggiunta ai compiti elencati nell’art. 3, co. 35) preoccuparsi di proporre modifiche, sia quanto ad importo delle prestazioni, sia quanto ad entità dei contributi (art. 3, co. 28 e 29) ogni volta che ciò si renda necessario per garantire detto pareggio.
L’importanza che il provvedimento annette al principio in questione – ma anche la pregnanza della presenza governativa – è confermata dalla prescrizione a termini della quale, ove ne ricorrano le condizioni, la modifica dell’aliquota contributiva può essere disposta con decreto interministeriale, anche se da parte del competente comitato non sia stata avanzata alcuna proposta in merito (art. 3, co. 30)8.
Infine, per evitare ogni eventuale, residuo dubbio al proposito, la norma espressamente ribadisce che, in «assenza dell’adeguamento contributivo ..., l’Inps è tenuto a non erogare la prestazione in eccedenza» (art. 3, co. 30, parte finale). Con il che, però, si rendono palesi implicazioni di particolare rilievo sistematico in ordine ad un fondamentale principio, quale è quello dell’automatismo delle prestazioni previdenziali: un principio «cardine» nell’ordinamento della previdenza sociale, ma il cui peso, nell’occasione, evidentemente non risulta essere stato preso in particolare considerazione.
2.4 Il requisito della condizionalità
Al dichiarato fine di repressione degli abusi, il testo normativo in esame ribadisce (e, in parte, inasprisce) il requisito della c.d. “condizionalità” per la conservazione del diritto alle prestazioni, conseguentemente abrogando (art. 4, co. 46) la precedente disciplina dettata dall’art. 1 quinquies l. 3.12.2004, n. 2919.
In dettaglio, viene confermata, innanzitutto, la decadenza dal trattamento «di sostegno del reddito in costanza di rapporto» a danno del beneficiario di questo, che «rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione o di riqualificazione o non lo frequenti regolarmente senza un giustificato motivo» (art. 4, co. 40); così come viene confermata la decadenza dal diritto a prestazioni di disoccupazione o inoccupazione non solo nei confronti del lavoratore disoccupato che si «rifiuti di partecipare senza giustificato motivo ad una iniziativa di politica attiva o di attivazione proposta da servizi competenti ... o non vi partecipi regolarmente», ma anche nei confronti di quel disoccupato che «non accetti una offerta di lavoro inquadrata in un livello retributivo superiore almeno del 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità cui ha diritto», e che si trovi in un luogo che non dista più di 50 chilometri dalla sua residenza (art. 4, co. 41 e 42).
In particolare, per i destinatari di tutele interne al rapporto che comportino la sospensione del lavoro per più di 6 mesi viene espressamente prescritto che gli obiettivi e gli indirizzi operativi suddetti «devono prevedere almeno l’offerta di formazione professionale della durata complessiva non inferiore a due settimane, adeguata alle competenze professionali del disoccupato».
Manifestazione evidente delle difficoltà oggettive che ogni intervento nel settore presenta e, insieme, del ricatto dei vincoli di spesa è il differimento nel tempo – sia attraverso l’allungamento e la gradualità del periodo transitorio, sia attraverso il rinnovo della delega al Governo – di gran parte della operatività di quanto la l. n. 92/2012 ha progettato in materia.
Si tratta di un atteggiamento prudenziale di per sé apprezzabile, stante la delicatezza della materia incisa, ma che, nel contempo, non vale a giustificare del tutto la sostanziale angustia del complessivo disegno.
Nell’articolato, comunque – in una non dichiarata, ma evidente prospettiva tesa a futuri aggiustamenti e integrazioni –, particolare rilievo viene attribuito, secondo una “formula” ormai frequente, ogni volta che il legislatore intervenga con una legge di riforma che vorrebbe essere di struttura, alla possibilità di un efficace monitoraggio e di una valutazione “indipendente” della riforma nel suo complesso.
Per l’operazione viene officiato ancora una volta l’Inps, al quale viene richiesto di organizzare una «banca dati informatizzata anonima» – da rendere disponibile ad iniziative di ricerca scientifica –, contenente «dati individuali anonimi, relativi ad età, genere, area di residenza, periodi di fruizione degli ammortizzatori sociali con relativa durata ed importi corrisposti; periodi lavorativi e retribuzione spettante, stato di disoccupazione, politiche attive e di attivazione rilevante» (art. 1, co. 4 e 5)10.
Per quanto specificamente riguarda gli ammortizzatori sociali, è previsto che detto Istituto debba predisporre e mettere a disposizione dei servizi per l’impiego entro il 30 giugno 2013 una «banca dati telematica», contenente i dati individuali dei beneficiari, con indicazione, per ciascuno, «dei dati anagrafici, di residenza e domicilio, e dei dati essenziali relativi al tipo di ammortizzatore sociale di cui beneficia» (art. 4, co. 35). In detta banca sono destinati a confluire, «ai fini della verifica della erogazione dei servizi in misura non inferiore ai livelli essenziali» (quali definiti dall’art. 3 d.lgs. 21.4.2000, n. 181), anche «i dati essenziali concernenti le azioni di politica attiva e di attivazione svolte nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali» da parte dei servizi per l’impiego (art. 4, co. 36); questi, con l’occasione, sono richiesti di comunicare all’Inps anche gli eventi che giustificano la decadenza dal beneficio del godimento della prestazione di sostegno del reddito (art. 4, co. 44).
L’acceso dibattito – forse, ben oltre le vere necessità – sulla sorte dell’art. 18 st. lav. e della flessibilità in uscita in genere ha finito per mettere in ombra del tutto immeritatamente le problematiche della materia qui in considerazione: di fatto sottraendo, così, all’attenzione questioni che avrebbero meritato di essere maggiormente dibattute, sia autonomamente, sia a confronto con le problematiche dei licenziamenti.
Aspetto critico sul quale sicuramente vi è stata scarsa riflessione è il raccordo con altri segmenti del sistema di sicurezza sociale, del quale gli ammortizzatori sociali naturaliter fanno parte.
È quanto già evidenzia il difficile e contraddittorio rapporto della disciplina a favore degli esodi incentivati dei lavoratori anziani in caso di eccedenza di personale, con la “flessibilità” del pensionamento a 70 anni e oltre (per di più, assistita dalla garanzia dell’art. 18), assicurata dalla l. n. 214/2011.
Ma un punto di frizione tra ammortizzatori sociali e sistema previdenziale è ravvisabile anche in riferimento all’impostazione mutualistica, della quale sono espressione i Fondi bilaterali di solidarietà11: e ciò, sia per il tipo di regolamentazione eteronoma dettata per essi, nonostante la loro promanazione negoziale, sia per la inapplicabilità di un principio generale ed essenziale per un sistema di protezione sociale che voglia essere realmente tale, quale è il principio di automaticità delle prestazioni12.
3.1 L’universalizzazione: un obiettivo accantonato?
In conformità con le finalità esplicitate in apertura di articolato – rendere «più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali» –, è innegabile che la l. n. 92/2012 si sia indirizzata verso una prospettiva di estensione e redistribuzione delle tutele, finalizzata, per un verso, ad eliminare disparità di trattamento non più giustificabili e, per un altro verso, ad includere nel perimetro delle tutele del reddito categorie di lavoratori in precedenza esclusi.
Ma risulta parimenti innegabile l’insufficienza dello sforzo compiuto, sia sul versante delle tutele interne, sia sul versante delle tutele esterne, dove permangono vuoti e disparità di protezione considerevoli, cui solo una compiuta generalizzazione degli strumenti di garanzia del reddito, in un contesto di effettiva eguaglianza sostanziale, potrebbe porre rimedio. Un obiettivo di universalizzazione, che, di fatto, é stato accantonato dalla l. n. 92/2012 nel momento stesso in cui – con un sensibile scarto rispetto agli standard raccomandati in ambito europeo13 – ha rinunciato all’idea di introdurre uno schema di reddito minimo garantito, fosse pure sulla falsariga di già sperimentate (e contenute) esperienze.
Che vi sia stata, nei fatti, una precisa scelta (nonostante le diverse affermazioni di principio) di accantonare l’obiettivo della universalizzazione viene reso manifesto, d’altra parte, dal fatto che elementi portanti della riforma risultano improntati ad un graduale “affievolimento” della garanzia dei diritti previdenziali14: sintomo preoccupante, a sua volta, di un ridimensionamento, se non di uno svuotamento, della stessa portata precettiva del principio di adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost, di fatto rimesso, nella sua attuazione, alle variabili della politica, e destinato a trovare supporto nel nuovo testo dell’art. 81 Cost.
3.2 Possibili questioni di costituzionalità
In effetti uno degli aspetti problematici di potenziale, maggior impatto appare essere proprio quello del grado di capacità di tenuta della nuova disciplina a fronte dei principi costituzionali. E il problema appare porsi, innanzitutto, per i Fondi bilaterali a costituzione «obbligatoria» (art. 3, co. 4 e 10).
Mentre i fondi bilaterali a costituzione facoltativa possono idealmente ricondursi al modello binario che caratterizza dal 1993 il sistema previdenziale, da quando è venuta a far parte strutturale di esso la previdenza complementare, i fondi a costituzione obbligatoria sono destinatari del compito di realizzare, in forma integrale ed esclusiva, la specifica tutela di ordine sociale.
E, allora se così è, non è da escludere che si possano profilare questioni di conformità della normativa in esame con i precetti costituzionali. Se si considera, infatti, il ruolo di completamento del quadro delle tutele (implicitamente nell’ottica dell’art. 38 Cost.) affidato a detti Fondi obbligatori; se si considera, inoltre, il fatto che le relative prestazioni, pur essendo destinate a far fronte «alle causali previste dalla normativa in materia di cassa integrazione ordinaria e straordinaria» (art. 3, co. 31), saranno di importo sensibilmente inferiore a quelle erogate, ai sensi di legge, da detta Cassa (prestazioni «di durata non superiore a un ottavo delle ore complessivamente lavorabili da computare in un biennio mobile», come recita la norma); se si considera, ancora, che l’onere contributivo non verrà fissato dalle parti promotrici della costituzione di ciascun Fondo, ma da autorità ad esse esterna, e secondo criteri di sostanziale corrispettività (art. 3, co. 22), e che la ripartizione di detto onere tra datore di lavoro e lavoratore è configurato con criteri “veterordinamentali”, evocanti quelli (ampiamente superati, come ben sappiamo, dalla successiva legislazione speciale) dell’art. 2115, co. 1, c.c.; se si considera, infine, che con palese (quanto difficilmente giustificabile) scostamento rispetto al dettato dell’art. 2116 c.c., viene, al proposito, espressamente esclusa la operatività del principio di automaticità delle prestazioni (argomento ex artt. 3, co. 26 e 70, e 4, co. 7); tutto ciò considerato, non appare del tutto ingiustificato chiedersi – e il dubbio, in parte si ripropone per il Fondo di solidarietà residuale – se la suddescritta regolamentazione si prospetti realmente in linea con i parametri di cui agli artt. 3 e 38 Cost.
Dubbi del medesimo genere parrebbe poter giustificare – questa volta in riferimento all’art. 39, co. 1, Cost. – il carattere dell’obbligatorietà impresso a detti fondi. Il dubbio può essere fugato, a patto che l’obbligatorietà venga intesa non già come vincolo imposto alle organizzazioni sindacali, bensì come mera doverosità dello strumento protettivo; non per nulla, la legge prevede (art. 3, co. 19) che, in difetto di costituzione del Fondo bilaterale, sia costituito, in supplenza di esso, il Fondo di solidarietà residuale. Resta la contraddittorietà15 della scelta di attrarre la contrattazione collettiva all’interno del sistema statuale, proprio in un momento di riconosciuta crisi delle organizzazioni sindacali.
3.3 Gli eccessi della condizionalità
Aspetti problematici presenta anche la disciplina della condizionalità.
In generale, pur dovendosi dare atto dell’efficacia, nei confronti delle pratiche di abuso, delle misure di subordinazione della prestazione di sostegno del reddito all’osservanza, da parte del richiedente, di determinati comportamenti, l’apparato sanzionatorio oggi configurato non risulta equo in tutti i suoi aspetti16.
E, invero, se può considerarsi giustificato l’effetto sanzionatorio della perdita della prestazione17 nei confronti del disoccupato che, immotivatamente e platealmente, rifiuti un lavoro congruo (anche dal punto di vista del reddito), di una valutazione più articolata appare meritevole il caso di rifiuto di percorso formativo di riqualificazione.
In quest’ultimo caso, infatti, la conseguenza sanzionatoria si giustifica realmente solo se il percorso formativo o di riqualificazione è “mirato”: se si pone, cioè, in funzione di uno sbocco lavorativo congruo e concretamente raggiungibile. Diversamente, l’assoggettamento del lavoratore a interventi formativi, in assenza di adeguate e concrete possibilità di impiego lavorativo, può rappresentare – specie in una situazione, come l’attuale, di scarsa efficienza dei servizi per l’impiego (solo timidamente stimolati dall’art. 4, co. 33-50) – un impegno senza costrutto, una gratuita, aggiuntiva forma di penalizzazione per chi ha già subito la perdita del lavoro, una fonte di stress personale, oltre che di spese inutili per la finanza pubblica. Circostanze tutte, da ritenere più che giustificative, secondo ragione, di un legittimo rifiuto.
Per altro verso (ma in questo caso si ricade in pieno nell’ambito della tutela esterna), il nuovo parametro fissato dal legislatore (art. 4, co. 41 e 42), riferito non più al livello retributivo precedente, bensì all’importo della prestazione sociale, implica un sensibile peggioramento delle condizioni economiche cui il disoccupato deve soggiacere, se non vuole perdere la tutela indennitaria. E anche tale severità di condizioni appare giustificare dubbi di costituzionalità. Per il fatto che l’entità del trattamento economico – che il lavoratore deve accettare, pena l’effetto sanzionatorio – viene definita dalle disposizioni in riferimento senza attribuire alcuna rilevanza alla professionalità dell’interessato, ben difficilmente, come sembra, la norma che tanto prevede può ritenersi rispettosa dei parametri costituzionali: tanto quello dell’art. 36, quanto quello dell’art. 38, quanto, sotto il profilo della ragionevolezza, quello dell’art. 3.
1 Cfr. Gentile, G., La riforma degli ammortizzatori sociali, in Lavoro, competitività, welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007 e riforme correlate, a cura di M. Cinelli e G. Ferraro, Torino, 2008, 511.
2 Sulla quale v. Sandulli, P., Il settore pensionistico tra una manovra e l’altra. Prime riflessioni sulla legge n. 214/2011, in Riv. dir. sic. soc., 2012, 13; Cinelli, M., La riforma delle pensioni del «Governo tecnico». Appunti nell’art. 24 della legge n. 214 del 2011, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 385.
3 Eccettuate quelle finalizzate ad incentivare l’esodo dei lavoratori anziani.
4 In considerazione della natura «retributiva» della prestazione, sia i Fondi bilaterali sia il Fondo residuale sono tenuti a versare alla gestione di appartenenza del lavoratore interessato la contribuzione correlata alla prestazione: (art. 3, co. 33 e 34), analogamente a quanto avviene per la CIG.
5 Nel fondo potrà confluire anche l’eventuale «Fondo interprofessionale paritetico per la formazione continua», ex art. 118, l. 23.12.2000, n. 388, e, dunque, anche le relative risorse finanziarie (ex art. 25, co. 4, l. n. 845/1978), la cui entità è destinata a condizionare le relative prestazioni (cfr. art. 3, co. 13, 44, 45 e 47).
6 Santoni, V.F., Ammortizzatori sociali in deroga e canale bilaterale, in Studi in onore di T. Treu, III, Napoli, 2011, 1259.
7 Cfr., Tursi, A., Ammortizzatori sociali contrattuali e previdenza complementare, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 669.
8 Disposizioni di rigore «affievolito» valgono per il fondo bilaterale del modello alternativo (artt. 3, co. 14-18, e 28).
9 Cfr. Spattini, S., La nuova condizionalità all’accesso dei trattamenti di sostegno del reddito, in Dir. rel. ind., 2010, 377.
10 Un “monitoraggio”, in fondo, è anche quello cui tende l’art. 2, co. 70-bis, introdotto dall’art. 46 bis l. 7.8.2012, n. 134, che prevede il deposito presso il Ministero degli accordi collettivi di gestione di crisi aziendale che abbiano previsto il ricorso agli ammortizzatori sociali.
11 Già propria dell’esperienza (peraltro, facoltativa) dei più volte ricordati Fondi bilaterali ex art. 2, co. 28, l. 23.12.1996, n. 662: cfr. Sigillò Massara, G., Ammortizzatori sociali di fonte collettiva e fondi di solidarietà nella riforma del welfare, Padova, 2008.
12 Per più ampi riferimenti, cfr. Cinelli, M., Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, in Riv. dir. sic. soc., 2012, 227.
13 Cfr. Bronzini, G., Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e l’Europa, Roma, 2011.
14 Cfr., per alcuni precedenti, Cinelli, M., La riforma dei trattamenti pensionistici. Introduzione, in Lavoro, competitività, welfare, cit, 539.
16 E tanto più, ove si consideri la “unilateralità” della regola: cioè la sua “indifferenza” rispetto ad eventuali, corrispondenti abusi che possano manifestarsi sul versante datoriale.
17 Ma non anche del diritto alle prestazioni assistenziali, in quanto queste sono dirette a tutelare un valore “di base”: l’esistenza dignitosa; cfr. Häberle, P., Cultura dei diritti e diritto della cultura nello spazio costituzionale europeo, Milano, 2003, 62.