AMNISTIA
(III, p. 28; App. II, I, p. 164)
L'ordinamento giuridico collega di regola al compimento di un reato una serie di effetti, tra i quali in primo luogo sanzioni di natura penale a carico di chi lo ha commesso (nel sistema penale italiano, secondo i casi e con possibilità di varie combinazioni: pene ''principali'', come per es. la reclusione, eventualmente accompagnate da pene ''accessorie'', come l'interdizione dai pubblici uffici; misure di sicurezza, come l'assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro). Tuttavia, pur essendo stato commesso un reato, il prodursi di alcuni di tali effetti o il loro perdurare sono talvolta impediti o limitati o modificati da particolari cause che, tassativamente previste dalla legge penale, determinano − come si usa dire con linguaggio mutuato non senza qualche perplessità dal codice penale italiano del 1930, ma ormai tradizionale − l'estinzione del reato o della pena.
Tra queste cause dev'essere ricompresa l'amnistia. Essa infatti, concessa nel vigente ordinamento giuridico italiano con un provvedimento di carattere generale dal presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere (art. 79 Cost.) e applicata nei singoli casi concreti dall'autorità giudiziaria, per il dettato dell'art. 151 cod. pen. "estingue il reato, e, se vi è stata condanna, fa cessare l'esecuzione della condanna e le pene accessorie" e, per effetto e nei limiti dell'art. 210 dello stesso codice, "impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione".
Risulta da questi cenni perché l'a. sia abitualmente qualificata, insieme all'indulto e alla grazia, un ''provvedimento di clemenza'' e perché venga considerata da molti studiosi quasi una specie di abolitio criminis, sia pure limitata nel tempo e rivolta al passato: concedendola, lo stato non abroga le norme penali incriminatrici, le quali continuano quindi a operare per il futuro, ma rinuncia alla sua pretesa punitiva nei confronti di tutta una serie di reati già commessi entro una certa data, determinando così l'inapplicabilità della sanzione ai loro autori e, nel caso in cui sia ormai intervenuta una sentenza di condanna, la cessazione della sua esecuzione.
Le ragioni per le quali si fa ricorso al provvedimento di clemenza sono le più varie e non tutte appaiono plausibili. La prassi più antica, formatasi in epoche contrassegnate dal potere del sovrano di concedere grazia e di commutare le pene, annovera anche a. concesse per celebrare avvenimenti fausti per il re e la sua famiglia, o ricorrenze ritenute particolarmente significative. Non sono mancati nel corso dei tempi, d'altro canto, provvedimenti ispirati da motivazioni demagogiche e partigiane, volti ora a tentare di ricomporre fragili equilibri sociali e di acquisire consensi alla parte vincente mediante il perdono concesso agli avversari per fatti commessi nel vivo delle lotte politiche, ora a favorire invece uomini della propria parte o comunque inseriti nei meccanismi del potere, ora ancora a stendere l'oblio su periodi travagliati da brutalità ed efferatezze e, però, caratterizzati da un lato dall'incapacità dell'autorità di svolgere un'efficace opera di prevenzione, e dall'altro, dal formarsi di condizioni fatalmente criminogene (si pensi, per es., ai reati comuni commessi in occasione di conflitti bellici o di guerre civili), ora infine a consentire alla classe politica continui rinvii di una radicale riforma di parti superate del sistema penale mediante la compensazione del mancato aggiornamento con la ricorrente abolizione della punibilità per una certa serie di fatti ancora preveduti dalla legge come reati. Neanche sono mancati, per altro verso, più accettabili e ponderati provvedimenti emanati dopo periodi di gravi conflitti sociali e destinati a favorire una generale pacificazione nel convincimento dell'inopportunità di applicare sanzioni a fatti motivati essenzialmente dal particolare momento vissuto dal paese.
In epoca più recente, poi, si sono moltiplicati in Italia i decreti di a. dettati dalla necessità, mai superata con più adeguati provvedimenti, di ridurre i carichi di lavoro della magistratura, alla quale si offre così il sollievo di una abolitio criminis, che dovrebbe permettere entro certi limiti una più sollecita definizione dei processi. La stessa entrata in vigore in Italia del nuovo codice di procedura penale (promulgato con d.P.R. 22 sett. 1988, n. 447) è stata del resto accompagnata dall'ennesima a. a cui è stato affidato appunto il compito di agevolare il passaggio dal vecchio sistema al nuovo mediante un colpo di spugna sul passato.
Tutto ciò spiega l'atteggiamento critico della dottrina criminalistica verso l'istituto dell'a., e perché questa posizione si sia accentuata negli ultimi tempi specie in Italia: il frequente ricorso a provvedimenti di clemenza e le implausibili ragioni che spesso li sorreggono sono visti, tra l'altro, come motivi d'indebolimento dell'efficacia preventiva della legge penale e addirittura quali fattori criminogeni nella misura in cui, autorizzando aspettative di nuove indulgenze, possono suggerire il compimento di reati dei quali è ragionevole prevedere l'impunibilità; d'altro canto, non risultano raggiunti neppure gli obiettivi pratici che essi dovrebbero centrare. Sempre più diffuse sono dunque le proteste contro l'abuso dell'istituto e la convinzione che a esso si dovrebbe far ricorso soltanto in casi eccezionali, esclusivamente per reati di natura politica commessi in particolari momenti della vita del paese.
Si comprende quindi perché in Italia di recente sia stata messa in discussione l'ipotesi di modificare lo stesso art. 79 della Costituzione, che pure i costituenti, ripudiando l'antica tradizione di considerare il potere di clemenza una prerogativa esclusiva e incontrollabile del sovrano e statuendo che il presidente della Repubblica avrebbe potuto concedere a. soltanto a seguito di una legge di delegazione delle Camere, avevano concepito quale argine contro l'inflazione di provvedimenti di clemenza. La prova dei fatti ha deluso quelle aspettative perché all'indubbia limitazione dei poteri e alla mancanza di possibilità di autonome arbitrarie iniziative del Capo dello stato, non ha fatto riscontro l'auspicato rigore delle Camere, che hanno usato invece con larghezza eccessiva il loro potere: di qui le proposte di equiparare il procedimento di votazione della legge di a. a quello richiesto per la revisione di norme costituzionali (che vuole pluralità di votazioni distaccate nel tempo e particolari maggioranze) o di conferire alle Camere competenza esclusiva per la concessione del provvedimento, subordinandone però l'approvazione, a differenza di quanto avviene oggi, al raggiungimento di una maggioranza qualificata di voti.
Spetta indubbiamente alle Camere nel vigente ordinamento giuridico italiano il ruolo più determinante nel procedimento di concessione dell'a.: il Capo dello stato, come si è visto, emette il decreto soltanto a seguito di una loro legge di delegazione. Ciò non significa tuttavia che i rapporti fra il presidente della Repubblica e le Camere siano definibili con chiara sicurezza alla luce dell'art. 79 Cost. e che attualmente essi non siano regolati più dalla prassi che da una compiuta normativa.
Accennando soltanto ai problemi più attuali e controversi, si può rammentare innanzi tutto che dubbi e polemiche ancora non sopite ha sollevato la formula ''legge di delegazione'' presente nel testo dell'art. 79 Cost. e che, tra l'altro, ci si è chiesto se la legge di delegazione coincida con la legge-delega condividendone la disciplina o se, invece, da questa si discosti e in quale misura; ci si è chiesto altresì se le Camere debbano limitarsi a fissare i criteri fondamentali dell'emanando decreto di a. e a indicare in linea di massima le materie sulle quali potrà poi essere analiticamente esercitata la clemenza del Capo dello stato o se, invece, possano o, addirittura, debbano predisporre compiutamente nella legge di delegazione il testo del decreto che verrà emesso dal presidente della Repubblica; ci si è chiesto, d'altro canto, se quest'ultimo sia tenuto a concedere a. quando è stata votata la legge di delegazione o possa rifiutarsi o comunque discostarsi dal testo approvato dalle Camere.
Si può dire, comunque, ormai invalsa la consuetudine, che non ha mancato per altro di suscitare critiche presso gli studiosi, di leggi di delegazione che contengono già predisposto l'intero testo del provvedimento e dell'immediata corrispondente emanazione del decreto di concessione da parte del Capo dello stato: rari e meno recenti i casi di qualche margine lasciato a quest'ultimo. La prassi consente quindi di affermare che ormai le Camere non soltanto valutano l'opportunità della concessione dell'a. assumendo la responsabilità politica della decisione, ma di fatto, anche se è invalso l'uso di un'informazione preliminare al Capo dello stato, ne stabiliscono compiutamente il contenuto.
L'efficacia estintiva dell'a. − dispone l'art. 151, 2° cpv., c.p. − "è limitata ai reati commessi a tutto il giorno precedente la data del decreto, salvo che questo stabilisca una data diversa". Ma l'art. 79 Cost., considerando che il decreto presidenziale è spesso preceduto da periodi anche lunghi di lavori preparatori delle Camere, durante i quali potrebbe costituire incentivo alla commissione di reati proprio l'aspettativa dell'imminente provvedimento, ha posto un limite temporale all'operatività dell'a. stabilendone l'inapplicabilità ai reati commessi successivamente alla proposta di delegazione. I decreti di a. quindi, tenendo conto anche dell'eventualità che si siano succedute varie proposte di delegazione e adottando quale punto di riferimento quella che, non solo per tempo di formulazione ma anche per contenuti, dev'essere considerata la prima, fissano sempre la data-limite entro la quale il reato dev'essere stato commesso per poter essere amnistiato.
Questa disciplina comporta la necessità d'individuare con precisione il momento in cui un reato è stato commesso: problema, questo, non sempre di agevole soluzione perché i reati non presentano tutti la medesima struttura: accanto a quelli che si consumano in un unico atto (per es., l'ingiuria verbale), e che sono facilmente collocabili nel tempo, compaiono altri la cui condotta costitutiva si protrae per periodi anche lunghi (per es., sequestro di persona), come pure, accanto a quelli che si consumano mediante il solo compimento di una condotta (si pensi, ancora, all'ingiuria verbale), si pongono quelli che richiedono tra i propri elementi essenziali l'accadimento di un evento (per es., la morte di un uomo nel delitto di omicidio), che può attuarsi anche dopo un qualche intervallo dall'esaurimento della condotta che lo ha provocato. Si può dire, in linea di massima, che la dottrina penalistica prevalente individua il tempo di commissione del reato nel momento in cui è compiuto l'ultimo atto integrativo della condotta, cosicché l'a. non è applicabile quando la condotta sia iniziata prima della data-limite, ma il suo momento finale si sia attuato successivamente (si pensi, per es., a un sequestro di persona iniziato prima della data-limite e proseguito oltre questa).
Anche se è prevalsa l'abitudine di non subordinare l'a. a particolari riserve, il codice penale prevede la possibilità di sottoporla "a condizioni o ad obblighi". Non dovendo costituire l'a. un incoraggiamento a delinquere e un beneficio per coloro che hanno già altre volte violata la legge, il codice penale inoltre, pur lasciando al decreto di concessione facoltà di disporre diversamente, stabilisce, quale regola generale, l'inapplicabilità del provvedimento a coloro che versano nelle più gravi situazioni di recidiva, ai delinquenti abituali, ai professionali e a quelli per tendenza.
I reati ai quali è applicabile l'a. possono essere individuati dal decreto mediante indicazione del loro ''nome'' (per es., furto, ingiuria) o mediante indicazione del limite della pena (per es., tutti i reati punibili con pena non superiore a tre anni di reclusione) o, ancora, con un sistema misto (che comporta nell'ambito dei reati individuati in funzione della pena inclusioni o esclusioni di alcuni illeciti particolari). Problemi un tempo tradizionali, qual era quello del computo delle circostanze del singolo concreto reato per l'individuazione del limite della pena (per es., se tener conto o no delle circostanze aggravanti contestate a un imputato, le quali avrebbero elevato la pena applicabile oltre il limite previsto dal decreto), sono ormai risolti testualmente di volta in volta negli stessi decreti di a.; intorno ad altri (se è o no applicabile l'a. al delitto tentato, per es., quando il decreto l'esclude per il corrispondente delitto consumato), quando non sono stati esplicitamente superati con il decreto, può dirsi ormai formato un solido orientamento dottrinale e giurisprudenziale (nell'esempio fatto, si propende per la soluzione affermativa).
Il codice penale detta poi esplicita disciplina per i casi in cui sia addebitata a un unico soggetto una pluralità di reati: l'art. 151, 1° cpv., c.p., stabilisce infatti che "nel concorso di più reati, l'amnistia si applica ai singoli reati per i quali è conceduta". Pertanto, nel caso di reati commessi in parte prima, in parte dopo la data fissata dal decreto, ovvero nel caso in cui soltanto alcuni reati siano in questo previsti, l'a. potrà e dovrà essere applicata (soltanto) agli illeciti a cui è riferibile.
Il codice detta altre regole ancora per delineare l'operatività dell'a. rispetto a quelle figure di reato che sono state costruite attingendo elementi strutturali da altre fattispecie (si pensi al delitto di rapina, configurato dalla legge mediante componenti che ricorrono nella struttura del delitto di furto e in quella della violenza privata). Può accadere, infatti, che il decreto conceda a. per le figure semplici − nell'esempio fatto: per il furto e per la violenza privata − e non anche per quella complessa − cioè, per la rapina. A questo proposito l'art. 170 stabilisce per il reato complesso l'inoperatività della causa estintiva riguardante in astratto uno dei reati che concorrono a costituirlo (così non si applica l'a. alla rapina, anche se essa è concessa per il delitto di furto o per quello di violenza privata); in generale, lo stesso articolo fissa l'inestendibilità dell'a. da un reato all'altro anche se il primo è un elemento costitutivo o un presupposto del secondo.
Problemi più delicati − anche perché la legge non ne detta l'esplicita soluzione, che dev'essere quindi rilevata dall'interprete nel sistema − propongono poi quei casi in cui i reati in concorso sono in qualche misura avvinti da particolari comuni elementi (si pensi al ''reato continuato'', contraddistinto dal fatto che i vari illeciti sono stati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso e che la sanzione è quella prevista per il più grave di essi aumentabile fino al triplo) o, ancora più, quei casi in cui la ripetizione di reati da parte dello stesso individuo può, a determinate condizioni, dar luogo a una nuova unitaria fattispecie criminosa (si pensi al ''reato abituale'', sanzionato con pena autonoma). Di fronte a problemi analoghi a quelli prima visti in tema di concorso di reati, alla particolare struttura della fattispecie in esame e al fatto che la pena in astratto determinata per tali figure può superare il limite fissato nel decreto di a., ci si chiede, infatti, se l'a. sia applicabile ai singoli elementi della fattispecie quando le sanzioni per essi previste rientrino nel limite del decreto. Tenuto conto della complessità del tema, si può qui solo osservare che il criterio per la soluzione di tali questioni è, in linea di massima, quello dell'applicabilità dell'a. ai singoli reati previsti dal decreto tutte le volte in cui essi conservino, pur nella complessità delle fattispecie che concorrono a formare, la loro individualità e siano quindi separabili dagli altri (così avviene, per es., per il reato continuato, che consente l'estinzione dei singoli reati che lo configurano in concreto).
L'a. ha un'efficacia strettamente personale e, pertanto, nel caso di concorso di persone in un reato compreso nel decreto, essa si applica solo a coloro che sono nelle condizioni soggettive richieste dal decreto stesso.
L'a. può essere applicata prima che sia intervenuta nei confronti dell'imputato una sentenza definitiva di condanna, ovvero dopo di questa; la seconda ipotesi si verifica quando, prima dell'emanazione del decreto, si sia già proceduto per reati in esso previsti e si sia formato il giudicato. L'efficacia estintiva dell'a. è diversa nei due casi.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, si deve innanzi tutto osservare che il giudice, che procede per un reato previsto nel decreto di a., deve immediatamente applicare il provvedimento e dichiarare l'estinzione del reato. Egli non può compiere indagini nel merito e, come si usa dire, deve decidere allo stato degli atti. L'unica eccezione all'obbligo di dichiarare immediatamente estinto il reato a causa dell'a. si ha quando, allo stato attuale degli atti e senza bisogno di compiere ulteriori indagini, già risulti che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che esso non costituisce reato o non è previsto come reato dalla legge: in questi casi il giudice non può applicare l'a. e deve invece assolvere con la corrispondente formula. Tale soluzione comporta evidentemente la possibilità che la dichiarazione di estinzione venga effettuata non solo nei confronti di soggetti che hanno effettivamente commesso il reato, ma anche nei confronti di soggetti soltanto sospettati di averlo realizzato e tuttavia innocenti: la necessità di dover decidere allo stato degli atti e l'impossibilità di compiere altre indagini reca in sé tale eventualità. D'altro canto, a parte l'obiettivo pratico dell'accelerazione dei procedimenti penali tradizionalmente perseguito dai decreti di a., sul piano logico non si può negare la coerenza dell'obbligo dell'immediata dichiarazione dell'estinzione del reato con il venir meno della pretesa punitiva dello stato espresso con il provvedimento di clemenza: caduto l'interesse alla punizione di un reato, sembrerebbe infatti irragionevole condurre ancora indagini intorno a esso. D'altra parte, gli interessi della persona accusata di aver commesso un reato sono salvaguardati dal fatto che, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, è entrato a far parte del sistema il principio della rinunciabilità all'a. da parte dell'imputato, cosicché costui può sempre dichiarare che non intende valersi dell'a. e pretendere il giudizio nel merito: si deve rammentare, per altro, che la rinuncia all'a. ne determina l'inapplicabilità, e che pertanto l'imputato rinunciante, se viene riconosciuto colpevole, soggiace alla sanzione prevista per il reato da lui commesso.
L'a. applicata secondo queste cadenze è detta propria. Essa esprime la massima efficacia estintiva perché priva il fatto di ogni rilevanza penale e impedisce quindi l'applicazione di qualsiasi sanzione. Si deve soltanto ricordare che l'a. non può cancellare il reato dal novero dei fatti storicamente accaduti, e che il fatto, pertanto, potrà eventualmente produrre altri effetti giuridici secondo la rilevanza che esso può avere in differenti rami dell'ordinamento: rimangono così salvi, per es., gli effetti civili del fatto, tra i quali l'obbligo del risarcimento del danno.
Sono state abolite alcune differenze marginali che un tempo esistevano anche nell'ambito dell'a. propria e che derivavano dal fatto che questa fosse stata applicata prima o dopo una sentenza non definitiva di condanna (per es., in grado di appello), cosicché oggi l'ambito di operatività dell'a. propria è identico per tutti i casi.
L'a. è invece chiamata impropria quando sopraggiunge dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Essa, applicata secondo i casi dal giudice dell'esecuzione o da quello di sorveglianza, determina la cessazione dell'esecuzione della condanna e delle pene accessorie e, entro certi limiti, anche delle misure di sicurezza o la loro modificazione. Essa invece non estingue altri effetti penali della sentenza di condanna, di cui, per es., si deve tener conto agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità e di professionalità nel reato. A maggior ragione, l'a. impropria non esclude gli effetti non penali ricollegati al fatto da altre norme giuridiche.
Bibl.: S. Lugnano, Amnistia, indulto, grazia: loro valore nella strategia di politica criminale, Napoli 1981; G. Fusco, P. Mancuso, Amnistia e indulto nella legislazione italiana, ivi 1982.