Ampliar la città: spazio urbano, "res publica" e architettura
A ben considerare i modi, le forme, gli strumenti della conoscenza che la città-repubblica di San Marco ha di se medesima, della propria struttura fisica, del proprio funzionamento, del proprio aspetto e della propria immagine simbolica, il secondo '400 e i primi decenni del secolo che segue possono essere visti come una soglia, come un'età di passaggio e di rinnovamento di attitudini e di capacità di sapere e di vedere. Soglia tanto più significativa, d'altra parte, in quanto s'accompagna all'ingresso nell'ambiente veneto sia delle nuove espressioni linguistiche dell'architettura della Rinascenza (adeguate agli intenti di rappresentazione di sé perseguiti dalla Serenissima), sia di quelle potenzialità di approfondimento dei metodi del fare progettuale e delle tecniche di controllo della struttura urbana ch'erano insite nella cultura vitruviana e nel discorso de re aedificatoria.
Nell'arco di tempo che si è detto, appunto, magistrature istituite a fianco di più antichi uffici assicurano un controllo dello spazio urbano diverso e più complesso che nel passato, in quantità e in qualità.
Numero e misura: la ricchezza immobiliare da ora viene esplorata e l'estensione edilizia della città considerata come campo di una geografia di valori.
"Sono una contrada più appreciato il stabile che una altra" scrive il Sanudo. E numerose fonti confermano: per la posizione "nel corpo della terra" o sulla strada maestra o vicino "alle piazze"; oppure, in negativo, per trovarsi "in luogo stranio e scuro" e magari con "la riva lontana", "per esser il luogo povero e poverissime le persone" (1).
Lo stesso spazio acqueo viene fatto oggetto di un'attenzione permanente, specifica e ben organizzata sul piano tecnico (2). Infine, la pur miraculosissima civitas è posta in relazione, per così dire: vien fatta nodo di un quadro unitario di riorganizzazione difensiva a grande scala, nel quale, a partire dagli anni '40 del secolo XVI, vengono introdotte tecniche di verifica centrale dello scarto tra progetto ed esecuzione delle grandi opere pubbliche fortificatorie.
Ma diviene altresì nodo - e sito primario di riferimento - di ricognizione e di attenzione costanti, nonché della riprogettazione complessiva del rapporto terra-acqua fra l'hinterland alle sue spalle e le lagune. Azioni che si accompagnano alle grandi imprese delle deviazioni fluviali e delle trasformazioni agricole dei beni inculti di Terraferma (3).
Ad organismi di collaudata esperienza, quali in particolare l'ufficio del piovego e quello dei provveditori di comun interessati fra l'altro a sopraintendere alla viabilità pubblica terrestre e a quella d'acqua minore, al rispetto del rapporto fra spazio pubblico e iniziativa dei privati nell'edificare rigidamente verificato nel '500 attraverso proti e altri addetti, a tali organismi - si diceva - si vengono ad aggiungere, dal 1463, i savi sopra le decime, che attraverso i catastici descrittivi della città, formati contrada per contrada, risultano in possesso di una conoscenza topografica di valori e funzioni degli immobili. I "catastici", scrivono i dieci savi il 23 maggio 1513, sono "el fundamento delle decime": l'attenzione tributaria, quindi, si correla strettamente e in modo esplicito alla ricognizione fisica della città, definita già nel 1474 come atto del descrivere "fondi et possession de tuto el corpo di questa", sì da formarne libreti contradali da confrontare con le dichiarazioni date dai proprietari, come ci viene documentato nel 1540.
Ma il rapporto tra l'attività dei savi alle decime e le dinamiche edilizie in corso nello spazio urbano è chiaro anche attraverso altre fonti: un provvedimento preso in pregadi nel 1475 mette in grado il magistrato di seguire l'andamento delle nuove edificazioni; come altri, più tardi, faranno altrettanto per gli edifici in degrado e in rovina. E ancora, l'ufficio potrà servirsi di tecnici della costruzione, mureri, e di operatori del mercato immobiliare, sanseri, come nel caso della commissione nominata nel 1567 per sottoporre a nuova stima le case abitate dai loro stessi proprietari (4).
Ancora sul piano dei nuovi strumenti del conoscere e dell'operare, è quindi la volta, nel primo cinquantennio del secolo XVI, dei magistrati alle acque, ai beni inculti, alle fortezze, sedi di una continua azione tecnica e progettuale estesa al territorio, anche se a questo guardava mantenendo fisso il punto di vista delle necessità della Dominante e del vitale spazio acqueo delle sue lagune (5). Numero, misura, si diceva. Ma pur anche forma: e nel senso antico, di rappresentazione.
Non possono sfuggire, infatti, altre precise concomitanze di date: nel 1460 i rettori veneti dello Stato da terra ricevono dal consiglio dei dieci l'ordine di far eseguire il rilevamento dei propri distretti, e qualcosa ce ne rimane. All'incirca a questo stesso torno di tempo va riferita anche la grande mappa pergamenacea oggi a Istanbul che rappresenta monti e fiumi, difese e coste delle regioni venete e, certo, la stessa Venezia: testimonianza di un'autentica intenzione di comprendere l'insieme raffigurandolo.
Del resto, è del 1500, come ben si sa, la prima grande rappresentazione prospettica della città lagunare, insuperata in forza iconica, dovuta a Jacopo de' Barbari. Questa dimostra senza possibilità di dubbio il coesistere dell'interpretazione simbolica dell'urbano con la sua conoscibilità fisica. Dichiara, al tempo stesso, la conciliabilità fra analisi minuziosa e sintesi visuale della città intesa come un "corpo solo", per ricorrere a un concetto di Matteo Pagan. Esaltandola, sottolinea la centralità ideale e cerimoniale dell'area marciana con i luoghi delle istituzioni e dei loro miti politici; e richiama altresì la correlata centralità del Canal di San Marco, "ch'è il porto nostro". Al contempo, esplora le fabbriche e la struttura della metropoli, notomizzando appunto spazio e morfologia, riconoscendovi funzioni e gerarchie, consuetudini di conformazione e di aggregazione, regole di distribuzione consolidate dall'esperienza. E, infine, rileva i tratti incompiuti, gli elementi deboli della topografia urbana (altri, ad esempio Lodovico Ughi nel '700, invece li nasconderanno sottoponendoli a cosmesi figurativa) ossia quelli ove le "imperfezioni della natura" non ancora sono state corrette dalla provvida azione disposta dalla Repubblica.
Una rappresentazione siffatta, pertanto, sollecita e prefigura ove necessario l'adeguamento per architecturam dei siti simbolici (puntualmente registrato dalla riedizione elaborata che ne dà il Pagan nel 1559) e il compimento dell'opera intrapresa attraverso la storia del dar perfezione alla natura. Non per caso, probabilmente, analoga articolazione e "veridicità" rappresentative sono ricordate dal Sanudo come proprie della forma urbis Venetae fatta produrre in arazzo dal doge Andrea Gritti, promotore della grande svolta verso la renovatio sansoviniana fondata sul miglior ordine e l'antica disciplina vitruviani (6).
Del resto, la ricerca della sempre più stretta relazione fra rappresentazione grafica e progetto dello spazio urbano e del territorio, delle acque e delle terre emerse, è dimostrata in modo convincente dalla produzione cartografica di Cristoforo Sabbadino. Se ne consideri, ad esempio, l'opera alla metà del secolo: del 1556 è il rilevamento dell'intera laguna, da Brondolo a Lio Grando, nel quale Venezia è considerata nel suo contesto idrografico e compaiono suggerimenti di natura progettuale. Al 1557 risale la sua carta complessiva della Terraferma, dei fiumi e delle lagune; e dello stesso anno data la pianta con il progetto unitario per la città di Venezia sul quale ritorneremo. Si tratta, in definitiva, dei fogli di un vero e proprio atlante predisposto per dar modo ai savi sopra le acque, ai provveditori sopra i beni inculti appena nominati, al senato e a quanti altri istituzionalmente interessati, di sapere, riflettere e deliberare (7). Così come per le decisioni da assumere sulla fortificazione delle città soggette, da terra e da mar, si prescrive nel 1550 che debbano essere prese sul "modello del loco" (8).
Strumenti senz'altro diversi, dunque, mostrano però di essere suscettibili di comporsi in una comprensione unitaria di Venezia città, dei suoi spazi, delle sue relazioni fisiche e del rapporto con i suoi Stati. Proprio allora, in effetti, Michele Sanmicheli può scrivere come la fortuna della città-stato marciana sia "tanto congionta e colligata con li territori padoani e trevisani, che Padoa e Treviso se dieno riputare come borghi di questa città, la quale insieme con quelle è un corpo solo e così die [deve> esser tenuta da Vostra Sublimità" (9).
Una potenzialità effettiva della quale va tenuto conto in ogni discorso circa il suo assetto e le trasformazioni di questo in età rinascimentale.
Le implicazioni e le conseguenze di tutto questo risultano comunque assai complesse.
Non è difficile osservare, anzitutto, come nel corso del '500 si venga acquisendo piena consapevolezza delle regole e delle sorti che determinano il valore degli immobili, si vengano elaborando accortezze atte ad incrementarne le rendite, si giunga a sfruttare più o meno deliberatamente gli effetti di una nuova carestia: la "carestia di casa" [definizione testuale> che può colpire magari chi in città ha cercato scampo alla "carestia di biade" nelle campagne (10).
Ma ancora, si comprendono assai meglio la natura del corpo della città, dei siti delle istituzioni e della mercatura tra le due piazze realtina e marciana e intorno a queste. Un'area centrale dagli elevati valori della rendita fondiaria e dove è schiacciante la superiorità della proprietà immobiliare del patriziato. In una città in cui la proprietà immobiliare è patrizia quasi al 75 per cento, qui per gran parte la nobiltà detiene addirittura l'80 per cento e oltre dell'ammontare complessivo della rendita per contrada.
E a quella si contrappongono le molteplici "qualità" - talora contraddittorie, talora complementari - di un fascia "esterna" costituita dalle contrade di margine, dai confini a tratti addirittura incerti verso la laguna, dove il tessuto denso e articolato degli spazi urbani centrali si sfalda e si sfilaccia dissolvendosi in crete e sabbie e fanghi, digradanti a loro volta verso le acque lagunari.
Qui, dove appunto anche gli interessi fondiari del patriziato risultano meno preminenti e famiglie cittadinesche e altri mantengono una certa quota di controllo della rendita sugli immobili, si identificano vere e proprie periferie insediative, dalle funzioni e dai caratteri differenti e complementari tanto reciprocamente, quanto in rapporto alle viscere mercantili della città. A nord-est s'identifica nettamente la fascia degli arsenali da legname, i depositi formati con i materiali fluitati dalle Alpi di Cadore e di Carnia, dal trevigiano e dal Friuli. A sud-ovest i magazzeni dei legnami provenienti dal bacino della Brenta si affiancano ai magazzeni da grano e da vino che accolgono le derrate provenienti dalla piana centro-orientale veneta. Nelle regioni occidentali della città si addensano i luoghi dell'iniziativa "manifatturiera" privata e nelle orientali quelli dell'iniziativa pubblica centrata sull'Arsenale affiancato dalle Corderie della Tana, dai forni del biscotto, dai grandi granai pubblici di San Biagio (11). Queste stesse, d'altra parte, sono le aree ove prevale l'edilizia popolare, in cui si mantengono tratti di arcaicità più o meno remota osservati già da autori come il Sanudo o il Sansovino e, inevitabilmente, s'infittiscono le destinazioni assistenziali dell'edilizia (12).
In umbilico urbis: è del tutto evidente come l'attenzione e la cura urbanistica della città-stato nei confronti di se stessa nel primo '500 si manifesti fortemente concentrata nelle aree del centro poste fra le "due piazze". Ciò si verifica a causa di eventi accidentali, come gli incendi devastanti del fontego dei Tedeschi e dell'opposta isola del mercato di Rialto, ma anche per scelta deliberata di adeguare il volto della città, di fare pronto ricorso alle virtù persuasive dell'arte al fine di dissipare ogni eventuale dubbio sull'effettiva grandezza, potenza e magnificenza della Serenissima, per accendere con metaforica malizia, attraverso la venustà delle forme del proprio "corpo", l'aspettativa del mondo:
car Venise est semblable a femme que l'om ayme; l'attente en est delicieuse et cuisante en meme temps (13).
Ci si atterrà a sobria eleganza nei luoghi di Mercurio il cui elemento focale è rappresentato dal ponte di Rialto, luogo del mondo, "pien de boteghe de viandanti, che par proprio che ogni dì sia el giubileo" con trasparente e forse ironica, oltre che mercantesca, competizione con la Roma dei papi "tanta xe la moltitudine de la zente che passa suso e zoso" (14). Si dispiegheranno architetture solenni e trionfali nei siti marciani dove lo Stato stesso deve essere per così dire reso visibile nella sua autorità manifestata attraverso adeguato decoro. Una lunga linea, pertanto, collega la serie di interventi che si susseguono dal ducato di Leonardo Loredan a quello di Andrea Gritti.
Dal dibattito progettuale di fra Giocondo (1514) alle Fabbriche nuove, alla nuova sede dei savi alle decime, Francesco Sansovino sottolinea "Rialto [...> fu ristaurato di nuovo con le volte di sopra [...> sotto il principe Loredano" (15). Ma ancora nello stesso torno di tempo e con il concorso finanziario pubblico si avvia la ricostruzione delle due chiese di San Geminiano e di San Salvador: in tutto questo già si colgono i termini di un'idea di rinnovamento funzionale e formale da attuarsi in visceribus urbis (16).
E l'età del Gritti vede concentrarsi al massimo sulle fabbriche della Piazza gli sforzi di tale rinnovamento, ripreso ancora e portato a compimento nel prosieguo del tempo.
Entro la linea accennata, del resto, si succedono due atteggiamenti culturali diversi al riguardo delle scelte architettoniche pubbliche. Si tratta dapprima della ricerca di forme che esprimano una renovatio more veneto coerente il più possibile con la specificità delle tradizioni; tendenza emersa nel secondo '400, che caratterizza l'età del Loredan e si afferma in fabbriche come la San Salvador dello Spavento e di Tullio Lombardo. Ed è poi la stagione della svolta verso il lessico architettonico alla romana, nell'età del Gritti e soprattutto attraverso l'opera di Jacopo Sansovino, proto della Procuratia di San Marco (17).
Già negli interventi dell'inizio del secolo vengono chiaramente codificate alcune delle linee cui la committenza pubblica dovrà attenersi nell'edificare entro il cuore mercantile della città. La ricostruzione del fondaco dei mercanti tedeschi, infatti, avvenuta dopo che fra Giocondo aveva fornito un'idea, lo Spavento due modelli e un terzo - accolto - Gerolamo tedesco, fu occasione per lo Stato di imporre una scelta di massima sobrietà architettonica, con la rinuncia all'uso di marmi e di inutili decorazioni, riaffermata più volte in occasione di altre fabbriche pubbliche (18). Non dissimile, infatti, fu l'atteggiamento seguito dal Sansovino nel progettare le Fabbriche nuove di Rialto - botteghe e depositi soprattutto - affidategli nel 1554.
In queste l'uso degli ordini dorico e ionico sovrapposti al portico a bugnato e le finestre a foggia di edicola conferiscono indubbiamente dignità alla costruzione.
Ma l'uso della pietra d'Istria assai ridotto nei prospetti dei due piani, la semplificazione di alcuni particolari degli ordini, con il ricorso prevalente alla meno costosa opera di quadro anziché d'intaglio rispondono certamente a quegli stessi atteggiamenti pubblici nei confronti del rapporto tra forma e funzione che abbiamo ricordato a proposito del fontego (19).
Ancora in questa luce va veduta la ricostruzione del ponte di Rialto, dopo un annoso confronto di opinioni e di modelli e ancora dopo lunghi silenzi e non poche perplessità.
La sostituzione della struttura lignea apribile al passaggio di imbarcazioni mercantili di buona portata con la struttura di pietra in un solo arco, gettata a collegare le due rive del Canal Grande da Antonio da Ponte (1588-1591) non va infatti interpretata soltanto come segno della fine della grande funzionalità portuale delle acque del maggiore dei canali intraurbani. In realtà essa intendeva realizzare un'effettiva e definitiva continuità tra le aree e i siti del commercio delle viscere della città e veniva a produrre l'altrettanto definitiva unitarietà tra le due piazze.
Il manufatto architettonico, con le sue "botteghe e volte di varie merci" (20), veniva dunque a porsi come nodo rappresentativo del sistema mercantile di percorsi urbani centrato sull'asse San Marco-Rialto, ubbidendo alle antiche sollecitazioni: esibendo cioè non retoriche magnificenze ma moderata dignità formale e insieme grande impegno tecnico. Ed è a partire da siffatti presupposti - anche se le ragioni sono poi molteplici - che si spiega il mancato accoglimento da parte della Repubblica Serenissima di progetti di tono eroico e magniloquente come quello che Palladio presenta nei suoi Quattro libri (21).
Parallela, ma sostenuta da attitudini diverse, è la storia cinquecentesca delle fabbriche pubbliche nei luoghi di Minerva. In quell'area marciana, cioè nella quale le istituzioni della Santa Repubblica hanno sede. Di queste il linguaggio delle forme architettoniche dovrà proclamare, in coerenza con l'essenza e la storia degli istituti, la suprema sacralità, l'equilibrata sapienza che ne avrebbe assicurato la perpetuità, la rara nobiltà fondata sulle origini libere e romane e dunque sullo stesso fondamento dei valori sommi della cultura della Rinascenza.
In realtà, nel corso del secolo XVI qui vengono manifestandosi tre aree architettoniche, per così dire. Quelle di palatium et ecclesia, che potremmo definire dell'intangibile continuità dei segni, considerandone le vicende alla luce del mancato rinnovamento del palazzo Ducale, nonostante le idee del Gritti al proposito, e nonostante l'occasione di rinnovamento offerta dall'incendio del 1577 e dal giudizio del Palladio circa i "difetti et i mancamenti di questa fabbrica". Quella, poi, delle Procuratie vecchie, le quali, riedificate a "honor della città" attraverso i primi decenni del secolo, conformano l'affacciarsi sulla platea del sistema centrale di contrade e di percorsi mercantili cui abbiamo fatto cenno. E quella, infine, dal 1536 affidata a Jacopo Sansovino, della Libreria, della Zecca, della Loggetta, poi di San Geminiano (1557), compiutamente ordinata più tardi dalle Procuratie nuove di Vincenzo Scamozzi (dal 1582), che è destinata ad essere sede di un'adeguata manifestazione trionfale della Repubblica e dei suoi miti (22).
In questa lunga sequenza di interventi, nei programmi e nelle idee che vi sono sottesi, comunque, non sono presenti soltanto aspirazioni a ben regolati o eloquenti nessi fra città, istituzioni e architettura, ma pur anche aspirazioni a riordinare la conformazione stessa della struttura urbana nei dettagli del suo disegno, a tempo e luogo dovuti od opportuni. Lo stesso Vasari insiste molto sull'apporto del Sansovino a una siffatta attitudine programmatica del governo della Serenissima: creato proto di San Marco, Jacopo, prima che attendere alle pubbliche magnificenze, si prodiga per l'utile della città dislocando dalla Piazzetta banchi di beccarie e casotti di legno, ubicando in sito acconcio nuove "poste per erbaruoli", abbattendo una casa per collegare le Mercerie alla Spadaria, sistemando le osterie del Pellegrino e di Campo Rusolo, intervenendo nelle fabbriche di Pescaria e in più case e botteghe di pubblica proprietà. Tutto con poca spesa, grandi proventi e "abbellendo in un tempo stesso la piazza e la città".
All'inizio del quarto decennio del secolo XVI, infatti, sembra affermarsi un'importante linea di rinnovamento urbanistico, a partire dall'idea che "tanto più [...> le strade di questa città sono redute più large et aperte, tanto maiormente possono esser existimate de ornamento di quella et comodo de li viandanti". E fra il 1531 e il 1532 ci si appresta ad operare l'allargamento - effettivamente compiuto - della salizzada di San Giovanni Grisostomo, riprendendo il modello di riassetto adottato una ventina d'anni prima per la salizzada del fontego in occasione della ricostruzione del fondaco dei Tedeschi.
Un progetto analogo viene formulato anche per la calle di San Felice parallela al Canal Grande, nella quale si immetteva il transito del frequentatissimo traghetto omonimo. Del 1535 è poi l'istituzione di una nuova commissione appositamente creata per "ornar et commodar la città", e alcuni anni più tardi (1544) venne affidata a Jacopo Sansovino l'apertura di Calle Larga San Marco, ideata allo scopo di collegare la fine della Spadaria alle Mercerie e di insediarvi una nuova serie di botteghe (23).
È evidente tuttavia che le cose furono tutt'altro che facili e che gli orientamenti mutarono assai rapidamente. Le fonti ricordano senza reticenze la notevole difficoltà e le faticose trattative necessarie per giungere a qualsiasi accordo con i proprietari degli immobili della contrada di San Giovanni Grisostomo. In effetti, anche nelle aree in cui il patriziato deteneva il predominio assoluto sulla proprietà immobiliare, questa appare comunque estremamente frammentata, tanto che di vere e proprie grandi proprietà nella Venezia del '500 si può parlare solo in termini assai relativi e in casi assai poco numerosi. Mentre, per di più, gli interessi sovente si intrecciavano oltremodo anche nello stesso isolato e gli atteggiamenti dei privati divergevano di molto, variando dagli episodi frequenti di gestione oculata ed accorta a quelli non meno frequenti di speculazione quasi estrema sugli spazi più minuti e sulle peggiori condizioni abitative, talora di vero degrado. È così, ad esempio, che nelle aree circostanti il mercato realtino erano venuti formandosi gruppi di poverissimi alloggi per gli immigrati stagionali, come i facchini di Valtellina e di Valcamonica (24).
Del resto, come si vedrà meglio più oltre, la Repubblica scelse di rifiutare il ricorso a provvedimenti coercitivi nei confronti dei singoli. E quindi anche la commissione di savi istituita nel 1535 finì per essere inoperante e per decadere, esattamente come tempo addietro era caduto il progetto di fra Giocondo, architettonicamente razionalissimo, per la ricostruzione del mercato realtino come organismo unitario di pianta quadrata, con doppia fila di edifici e con piazza centrale. Per ragioni in buona parte analoghe: ossia per le resistenze, per l'impossibilità di controllare le varie, stratificate, intrecciate e interagenti complessità delle molteplici articolazioni della struttura urbana e dei suoi modi di funzionamento (25).
Per questo, dunque, a Rialto venne realizzata, secondo le sprezzanti e in parte ingiuste parole del Vasari, "quella marmaglia che fu poi messa in opera" degli edifici dello Scarpagnino; e per queste stesse ragioni nessuna "via [...> recta et lata" alla romana fu progettata a congiungere le due mitiche piazze e sostituire la ritorta via delle Mercerie, criticata già ai primi del secolo dalla sensibilità rinascimentale del Sabellico a causa delle botteghe, certo "d'ogni maniera", ma "senza alcun ordine poste" (26).
Come una particolarissima forma di revisione dell'assetto insediativo delle contrade centrali possono essere considerati, per certi versi, anche i provvedimenti adottati nel 1516 per l'allontanamento degli Ebrei, presenti a Venezia in una zona a ridosso del mercato realtino e costretti da allora a risiedere nell'isola del Ghetto nuovo, verso il margine occidentale del sestiere di Cannaregio.
Non sappiamo molto circa l'insediamento ebraico veneziano prima di questa data. Alcune fonti archivistiche, tuttavia, confermano sostanzialmente la topografia datane da Marino Sanudo (contrade di San Boldo, Sant'Agostino, Santa Maria Mater Domini, San Cassiano e San Polo). Oltre a un certo livello di organizzazione comunitaria, queste segnalano anche tendenze già comparse alla discriminazione nei loro confronti nel settore stesso dell'alloggio. Taluni proprietari di immobili come Domenico Capello, infatti, appaiono pronti a imporre fitti superiori a quanto "era solito pagar [...> bone persone" anche per abitazioni modestissime e in relazione soltanto all'origine dei propri inquilini (27).
Il Ghetto nuovo, peraltro, non nasceva come quartiere ebraico: presentava allora un assetto edilizio consolidato e una storia ormai abbastanza lunga. L'isola era stata dapprima - dalla fine del '300 - un terreno di servizio dell'antico Geto del rame della Repubblica, messo all'incanto con tutte le installazioni, le attrezzature e gli annessi nel 1434 da parte dei governatori del comune e acquistato allora da Marco Ruzini. I Ruzini avevano trattenuto per sé il Ghetto vecchio, ossia gli impianti (passati poi ai nobili Muazzo e da questi, per dote, a Leonardo Minotto nel 1504) e avevano venduto a loro volta il terreno contiguo nel 1455 ai fratelli Costantino e Bartolomeo da Brolo che vi avevano costruito entro il 1465 un complesso di 25 case. Appunto il Geto novo.
Inevitabilmente i rapporti fra proprietari e locatari, fra edilizia esistente e trasformazioni necessarie per adattarla via via alla nuova popolazione, fra diritto e consuetudini vennero atteggiandosi qui in modo piuttosto specifico per quanto riguarda le attività costruttive a condizioni e secondo forme di iniziativa a lungo disconosciute dalla ricerca storiografica. Entro il luglio del 1516 l'ingresso degli abitanti ebrei nel Ghetto nuovo era già avvenuto, non senza qualche opposizione di alcuni fra i proprietari, superata attraverso un noto provvedimento economico, previsto dallo stesso decreto istitutivo del quartiere ebraico: una sorta di risarcimento ai padroni delle case - a carico della parte ebraica - che consisteva nell'aumento di un terzo degli affitti già praticati (e dunque legalizzava i comportamenti cui abbiamo accennato più sopra) e nell'esenzione di questo importo dall'imposizione di decima.
Assai meno noto è che, a seguito del definirsi dei rapporti contrattuali fra proprietari e locatari ebrei, molto presto vennero intraprese anche attività edilizie gestite direttamente dai nuovi residenti: entro i primi anni '30 del '500 faceva la sua comparsa la committenza ebraica. E fra il 1531 e il 1536 - dapprima per istanza di consiglio, Angelo e compagni ebrei, poi su richiesta di Salamon dal Banco - la Serenissima Signoria fu chiamata a pronunciarsi in maniera diretta e chiara sull'argomento delle trasformazioni edilizie apportate dagli stessi Ebrei in alcuni immobili del Ghetto.
In un clima tutt'altro che ostile come quello del dogado di Andrea Gritti, il collegio in primo luogo aveva riconosciuto che tali operazioni erano state quantitativamente importanti, sia nell'edilizia abitativa sia nell'apertura e nella sistemazione di botteghe e di altri spazi destinati al commercio negli immobili preesistenti. In secondo luogo, veniva dichiarato iniquo che i lavori effettuati e gli oneri assunti nell'avviamento delle attività mercantili del Ghetto potessero tornare a utile di altri da chi li aveva disposti e sostenuti. Veniva affermato, dunque, un principio generale e veniva riconosciuta la legittimità tanto di ogni intervento di sistemazione, quanto di ogni forma di cessione fra Ebrei dei miglioramenti apportati, quando fossero stati corrisposti i relativi canoni di affitto dei fondi ai proprietari. Tali deliberazioni, nonostante alcune successive difficoltà, ebbero però a comportare notevoli conseguenze. Agli Ebrei veneziani veniva garantita una forma di possesso di beni immobili in Ghetto (corrispondenti al concetto giuridico ebraico di hazakah) pur mantenendone distinto il concetto da quello di proprietà. Inoltre se ne legittimavano le opere edilizie e urbanistiche e si ponevano le condizioni al formarsi di una quota di rendita immobiliare ebraica nel quartiere, che non sarà affatto trascurabile quanto meno nei secoli XVII e XVIII. Tutto questo non equivaleva affatto alla revoca delle disposizioni quattrocentesche con le quali era stato fatto divieto agli Ebrei di acquistare o di avere in pegno stabili, fondi, livelli e feudi. Introduceva tuttavia un elemento nuovo nel quadro della materia.
Non soltanto giuridico: su siffatti presupposti, infatti, si fonda un'ulteriore intensa attività edilizia e parte dell'urbanizzazione del Ghetto vecchio, istituito nel 1541, che portò anche all'"acquisto" da parte di Ebrei prevalentemente levantini di terreni da costruzioni ancora disponibili e di proprietà Minotto (28).
Le condizioni poste a una siffatta iniziativa ebraica in Venezia, regolarmente registrate mediante atti notarili, risultano di estremo interesse.
La cessione del terreno, infatti, avviene a titolo di locazione del fondo, valida sino a quando la comunità ebraica sarà ammessa in Venezia. Fissato il canone di affitto, ai cessionari sarà possibile anche costruire poco per volta, ma talora viene loro richiesto di farlo rispettando un progetto fornito loro direttamente dai proprietari e comunque conservando polizze e altri documenti di spesa sottoposti a verifica da parte di un capomastro di fiducia dei nobili Minotto. Certo, questi ultimi si riservano il diritto di riscatto, di "francation de tutti li miglioramenti" secondo eque procedure, anche queste rigorosamente stabilite. In ogni caso, però, il locatario ebreo sarebbe totalmente rimborsato delle spese di costruzione sostenute; e qualora la Signoria decidesse di allontanare gli Ebrei dalla città, i Minotto riconoscerebbero a chi di diritto tutti i costi di costruzione "illico et immediate, prima della partenza degli ebrei". Senza contare che i nobili proprietari si pongono in qualche modo come patroni della controparte ebraica: impegnandosi a difenderla e a garantirne i diritti anche qualora fossero molestati da Cristiani a cantiere ancora aperto.
Un quadro chiaro, dunque, una rete di rapporti reciproci ben definiti oltre che, sullo sfondo, una precisa linea politica. E un quadro che si precisa ulteriormente, fino al livello delle concrete attività di costruzione. Agli accordi fra proprietari e committenti ebrei, infatti, possono seguire contratti estremamente articolati fra questi ultimi e i capomastri e le loro imprese.
Così, i nomi dei costruttori del Ghetto negli anni '60 del secolo XVI ci sono rimasti: maestro Zuanantonio fu Bartolomeo di Marchesi detto Bolzetto, muratore immigrato da Bergamo; maestro Francesco da Caleppo, carpentiere; maestro Comin fu Lorenzo da Brunà; maestro Marco di Francesco di Brachi, pure da Brunà, sottoproto dei provveditori di comun. E sappiamo appunto di progetti veri e propri, controfirmati dal notaio agli angoli del foglio, delle minuziose richieste circa le opere di muratore, di tagliapietra, di carpentiere e di ferramenta da eseguire. Dei capitoli relativi alla qualità dei materiali edilizi da impiegare nelle opere murarie: mattoni di recupero - "pietre vechie" -con buona terra da savon e calce padovana nelle fondazioni; mattoni trevigiani per i muri esterni, mattoni ferraresi per le opere murarie secondarie, in genere quelle non portanti (29).
Garanzie, regole, contratti, dunque, nel conformarsi cinquecentesco del rapporto tra la città e il Ghetto degli Ebrei, che modificano profondamente l'apparato costrittivo previsto dalle prime deliberazioni e che, dal nostro punto specifico di osservazione, avvicinano la situazione del quartiere ebraico a quella di numerose altre aree, soprattutto a Castello e a Cannaregio, dove si continua ad edificare.
Un solo impegno diretto in opere urbane di rilevante portata occupa la Repubblica parallelamente ai lavori condotti negli spazi e negli edifici pubblici tra San Marco e Rialto: quello dell'ingrandimento, della riorganizzazione funzionale e spaziale e del potenziamento produttivo dell'Arsenale (30).
Avviata nel 1473 con la fondazione della Darsena novissima, mediante la quale si intendeva raddoppiare la capienza di galere dell'Arsenale trecentesco, l'impresa accompagna un profondo mutamento degli impianti, anche come risposta al rafforzamento della potenza navale ottomana. La si verrà realizzando fin oltre la metà del '500, per riprendere poi, dopo la guerra e la peste, ormai verso lo scorcio del secolo. Ed è allora che i cantieri pubblici raggiungono la loro massima espansione fisica e produttiva, oltre che l'assetto mantenuto sostanzialmente inalterato attraverso tutta l'età moderna.
In effetti, le ragioni della guerra e le ragioni del commercio, per così dire, determineranno insieme le sorti del complesso ancora fino agli anni intorno al 1530. Ma da allora in poi saranno le prime a prevalere, tanto più che a partire dal 1546 la sua attività principale consisterà nell'allestimento e nel mantenimento di un centinaio di galere. L'Arsenale di Venezia diviene allora, in sostanza, quasi esclusivamente una grande attrezzatura bellica navale.
Il tratto di laguna aggregato a partire dal 1473 agli impianti più antichi, frattanto, aveva dato origine a un vasto bacino - la Darsena o Arsenale novissimo appunto - attraverso lunghi lavori che si erano protratti sino ai primi anni del '500. Alla lavorazione e al deposito della polvere da sparo venne quindi destinata un'area ottenuta nel 1535 a spese dei terreni del limitrofo monastero della Celestia. Si costruirono nuove fonderie, nuovi depositi di armi e di artiglierie, il magazzeno delle vele e così via. In più riprese, a partire dal 1520 circa, la Darsena nuovissima fu contornata da squeri coperti e infine un grande deposito di legnami affiancato a un bacino per la conservazione dei legnami di rovere venne edificato su progetto del proto Giovanni da Zon in un'altra area avuta dallo stesso monastero della Celestia.
Alla lunga fase della prima metà del '500, interrotta dai gravissimi danni causati dall'esplosione dei depositi della polvere (1569) seguì, come si accennava, un'altra grande stagione di interventi edilizi che occuparono l'intero trentennio del secolo XVI. Spostati i magazzeni di polvere da sparo del cosiddetto Isolotto alla Celestia, si escavò al loro posto un nuovo bacino lungo le sponde del quale vennero collocati gli scali delle nuove grandi navi da combattimento. Dopo una tormentata vicenda progettuale - che ebbe per protagonisti Antonio da Ponte e Marcantonio Barbaro - si ricostruì pure la grande fabbrica delle corderie. Ancora, vennero ristrutturate le sale di armi e di artiglierie e si studiò e progettò il completo isolamento dei grandi cantieri pubblici attraverso l'apertura di nuovi canali intorno alle sue mura di cinta, realizzandolo solo in parte, nel primo '600. Infine, nelle immediate adiacenze dell'Arsenale, vennero restaurati i forni da galletta e ricostruiti i granai di San Biagio, accanto ad altri interventi minori operati contemporaneamente nella stessa zona. Uno sforzo indubbiamente considerevole, che veniva ad incidere notevolmente nella periferia orientale - portuale e marittima - di Venezia, tanto direttamente, quanto per le conseguenze indotte in tutta la zona limitrofa, in particolare nelle contrade di San Martino e di San Pietro di Castello.
Da una parte, infatti, stavano i vincoli che la sicurezza del complesso veniva ad imporre alla zona circostante: limitazioni alla navigazione nei canali perimetrali, chiusura di finestre e limiti all'edificazione in altezza delle case circostanti, modifiche a progetti di edilizia civile, come lo spostamento dei camini di un immobile commissionato dalle monache della Celestia, per evitare il pericolo di incendi. E ancora il controllo diretto da parte dei responsabili dell'Arsenale sull'accesso al campanile di San Francesco della Vigna, ottimo punto di osservazione verso l'interno dei cantieri.
Dall'altra parte, l'ampliamento e il rafforzamento delle attività produttive si accompagnavano, già dal primo '500, a un processo di ulteriore periferizzazione dell'area urbana intorno, segnatamente della contrada di San Pietro di Castello. Qui l'immigrazione è forte, scompare la dimora nobiliare (tranne un caso eccezionale) e la proprietà immobiliare spetta in prevalenza a nobili e a cittadini non residenti, non più a residenti nella zona. Per altro verso, proprio qui, soprattutto a San Giuseppe e a Sant'Antonio, fino al tardo '600-primo '700 si manterrà una piccola proprietà operaia, per dir così, della casa, favorita dalla concessione di terreni da parte dei procuratori di San Marco e da qualche agevolazione fiscale, com'è il caso anche delle case della confraternita dei Bombardieri - gli artiglieri della Serenissima - costruite nel tardo '500 presso San Francesco della Vigna.
Una serrata politica di concessioni e di privilegi ai capi della maestranze, infine, comportava già da tempo la concessione di case di proprietà pubblica ai protomaestri, ai salariati fissi e ai portoneri: il gruppo di abitazioni note come le Case di San Marco disposte intorno all'Arsenale, a San Martino e a San Biagio, cresce di numero in questo stesso torno di tempo.
Al di là degli eventi e dei processi che abbiamo sommariamente delineato, è in queste decenni, comunque, che la Casa dell'Arsenale diviene riferimento e unico orizzonte di quel popolo artigiano della periferia orientale di Venezia i cui uomini appaiono a un visitatore inglese del '600 "come se fossero nati in quel luogo [...> non allettati da altri, né da altre cose" (31). Le contrade periferiche orientali, dunque, appaiono territorio dell'azione stabilizzante dell'Arsenale, tramite politiche che dal recinto degli impianti produttivi si estendono alla realtà insediativa circostante.
Sta di fatto, del resto, che il grande problema di assetto della Venezia del '500, di una "terra" che "grazie a Dio è piena" (32) - parafrasando una fonte contemporanea - il problema, si diceva, è quello delle periferie, spazio urbano incompiuto come tale, verso il quale premono la crescita edilizia e il bisogno di spazio di numerose attività produttive; per di più zona di trapasso verso quello spazio acqueo lagunare sul quale appare necessario esercitare un controllo sempre maggiore.
Spinte e questioni nient'affatto nuove, ma che il '500 finirà per affrontare con attitudini e concezioni diverse che in passato.
Piuttosto significativamente, persino una pagina letteraria, una delle lettere di Andrea Calmo, si occupa di taluni aspetti della questione, celebrando, attraverso Zuan Francesco Priuli, le attività edilizie dei privati in contrade remote dai luoghi degli affari e del governo della cosa pubblica.
Lo scrittore veneziano s'interessa infatti all'origine di quella che tuttora porta il nome di Calle Priuli dei Cavalletti, allora al confine tra le parrocchie di San Geremia e di Santa Lucia. Un gran numero di case "che le par un bosco de una gran citae", allineate in doppia schiera a formare una lunga calle "di longhezza quanto puol tirar un arcobuso, in do corse d'ogni superbo cavalo" e di cospicua rendita "con intrada in esse sole de do mille ducati". Ciò che conta, tuttavia, sono due altre osservazioni del Calmo: la laude che egli attribuisce al nobile "de ampliar la terra, come amorevole patrizio", ovvero la riconosciuta portata urbanistica di un simile intervento, pur se condotto come operazione privata; e la qualità riconosciuta all'edilizia di tali "case magnifiche, ben intese", ossia ben concepite, e "ben compartite" ossia bene organizzate nella loro distribuzione (33).
Un caso come quello descritto dalla nostra fonte non è isolato: numerosi altri, infatti, ne sono stati studiati nella Venezia del '500 e lo si può agevolmente apparentare ad ogni modo alle attente operazioni di altri privati - si pensi ad esempio ai progetti e all'accuratezza contrattuale per le case del Ghetto di cui si è detto o alle costruzioni dei Moro a San Girolamo e ad altri ancora - o agli investimenti ben noti di alcune fra le Scuole grandi (34).
La prosa del Calmo, in realtà, non indugia su di un episodio, ma piuttosto mette appropriatamente in luce alcune linee di tendenza. Quella appunto di certa parte del patriziato ad "ampliar la città" mediante investimenti non trascurabili nell'allargamento dello spazio urbano abitabile. E quella anche a razionalizzare i tipi edilizi tradizionali, a sollecitarne appropriate elaborazioni. Tenuto conto dei legami personali che collegarono Sebastiano Serlio ai Priuli e ad altri membri della nobiltà veneziana attivi in simili imprese, non c'è dubbio che queste debbano aver costituito per certa parte almeno lo stimolo di partenza per alcune pagine del suo sesto libro che prendono in considerazione tipi edilizi serializzabili destinati ad alloggiare "artefici de diverse arti basse" per una committenza ben specifica: la "persona dinarosa [che> ne potrà far una quantità per affittarle", il "ricco [che> vorrà più presto una entrata di piccole case che una casa grande per suo habitare" (35).
L'interesse del patrizio veneto all'investimento nella crescita urbana, che si rivela significativamente parallelo all'altro suo interesse contemporaneo alla proprietà fondiaria in Terraferma, mostra dunque di aprire il campo alla riflessione professionale di un architetto, che si farà trattatistica. Ma certo anche al diretto coinvolgimento di altri, di non minor rilievo.
A questo proposito è di particolare interesse un'operazione condotta dai Moro in un sito di confine lagunare in contrada di San Marcuola, poco lontano dal Ghetto, in una tra le aree per le quali appunto la valutazione di periferia esterna proviene direttamente dalle fonti contemporanee. L'importanza che questa ebbe ad assolvere nell'insediamento della zona, del resto, è misurata dalla toponomastica assunta dal sito tra '600 e '700: gli edifici e i luoghi di cui stiamo parlando vennero ad assumere infatti la definizione corrente di Isola di Ca' Moro a San Gerolamo.
Qui, poco prima del 1544, Leonardo Moro, facoltoso senatore, aveva dato avvio a un ambizioso programma edilizio che ne impegnò energie e sostanze fino almeno al 1551: "quasi a sembianza di un grosso castello" come scrive Francesco Sansovino, questi fece realizzare un grande complesso di impianto quadrangolare con corpi edilizi d'angolo formati da due palazzetti dalla facciata tradizionalmente articolata da trifore sovrapposte che racchiudevano una sequenza seriale di elementi di schiera, interrotti da un portaletto merlato di accesso a una corte interna. Alle case dei committenti si aggregavano, dunque, case d'affitto di elevata qualità, abitazioni di livello medio e medio-elevato e casette da barcaroli. Modelli correnti, organizzati però secondo un impianto entro certi termini innovativo, chiarificati sul piano distributivo e adeguati funzionalmente. Poiché la responsabilità progettuale dell'opera spetta certamente a Jacopo Sansovino, il suo significato complessivo risulta estremamente significativo: l'architettura, che non può essere soltanto ricerca intorno al linguaggio delle forme, è chiamata qui a mostrare come sappia assolvere a un compito nuovo, quello di interpretare razionalmente le sobrie tipologie costruttive tradizionali, a regolare queste secondo una rigorosa "grammatica" delle funzioni e un adeguato uso del sapere tecnico, facendosi così strumento per normare e guidare la crescita, l'"ampliar la città" di cui andiamo parlando.
Tali risultano le tendenze fino alla metà del secolo XVI. Quando, con un parallelo del tutto stringente con quanto accade a proposito delle trasformazioni agrarie in Terraferma - e addirittura con il concorso di alcuni tra gli stessi politici e gli stessi tecnici - il problema delle periferie della città si trasforma da campo di interesse dei privati, sia pur nobili, a oggetto preciso di iniziativa pubblica. Una svolta determinante, che condizionerà una parte cospicua delle linee di politica urbanistica della Serenissima fino ai primi decenni del secolo XVII.
Al 1557, infatti, risale il più rilevante degli atti pianificatori del Rinascimento veneto: la stesura del progetto generale di Cristoforo Sabbadino, ingegnere dell'ufficio dei savi sopra le acque, un vero e proprio piano unitario per la città (36).
Il notevole progetto prevedeva anzitutto la definizione stabile del suo perimetro mediante una fondamenta continua, interamente in pietra d'Istria, raccordata da 36 nuovi ponti allo sbocco dei canali. Fissato in tal modo il nuovo confine fra spazio urbano e spazio lagunare, la bonifica per colmata dei terreni semipaludosi posti fra le fondamente e i vecchi margini irregolari della città avrebbe prodotto quasi novantamila passi quadrati di nuovi terreni da costruzione, da lottizzare e porre in vendita. L'escavo di tre nuovi bacini - a Santa Chiara, alla Misericordia e nei pressi dei Santi Giovanni e Paolo - avrebbe contribuito alla revisione del sistema di approdi. Un'ulteriore serie di vasti lotti di bonifica, infine, avrebbe concentrato alla Giudecca la cantieristica privata.
Insomma, il grande progetto, basato sullo studio di una lunga serie di precedenti e di proposte, si proponeva di rispondere a quelle spinte per l'urbanizzazione delle periferie di cui stiamo parlando, fissandone al tempo stesso i limiti e stabilendo un equilibrio immodificabile fra terra e acqua, fra Venezia e le sue Lagune.
I primi interventi previsti dal Sabbadino non ebbero luogo prima di un trentennio all'incirca. E allora, deliberatamente, venne affrontata soltanto una prima parte dei lavori previsti, lungo i margini nord-orientali della città. Si realizzò, dunque, il tratto di fondamente compreso tra la Sacca della Misericordia e Santa Giustina, segnato architettonicamente dall'Ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti e dal palazzo di Leonardo Donà. L'edificazione dei lotti messi in vendita si prolungò nei primi decenni del secolo XVII: nel paesaggio urbano di Venezia erano entrate le Fondamenta nuove.
La storiografia veneta, già dal '600, segnalò nel dogado di Pasquale Cicogna eletto nel 1585, l'età della ripresa dei grandi programmi di renovatio urbis: la tranquilla pace, dei suoi tempi è condizione di abbellimento nell'edilizia pubblica privata, di nuove architetture civili, religiose e militari (tra le quali la posa della prima pietra di Palmanova).
E non per caso il monumento funerario del Cicogna, in forma di arco trionfale, fu collocato nella chiesa dei Crociferi, sulle Fondamenta nuove: l'autorità ducale imprimeva il proprio segno su uno dei siti emblematici di un programma ambizioso.
La grande peste del 1630 rese inattuale il problema delle nuove edificazioni lungo i margini dello spazio urbano e la realizzazione dell'idea sabbadiniana non procedette più oltre.
La forma urbis di Venezia affidataci dall'età moderna, quella ripresa e celebrata dalla grande cartografia dei secoli XVII e XVIII - dal Badoer al Merlo, all'Ughi - è dunque, in realtà, un non finito, l'esito di un progetto interrotto: quello di "far la città", come s'era detto, quale compiuto artificio, quale microcosmo perfetto entro le acque materne e purificatrici delle sue lagune, "tra due elementi sospesa" (37).
La nuova età venne simbolicamente segnata dalla data di posa della prima pietra della chiesa votiva della Salute, per la quale venne scelto il 25 marzo, giorno anniversario della mitica fondazione della città; un nuovo cominciamento, che esorcizzava l'angoscia della fine attraverso il richiamo al principio: unde origo, inde salus (38).
Saperi, meccanismi, interessi, conflitti entrano in gioco nel quadro, pur sommario, che abbiamo delineato: ma una sintesi delle concezioni secondo le quali nel '500 le istituzioni operano nel quadro urbano deve tener conto anche di idee e di modelli non soltanto fisici, economici e formali.
In parte già vi abbiamo fatto cenno; e in parte è senz'altro opportuno darne conto a conclusione del nostro ragionamento. In effetti, l'organizzazione delle trasformazioni e della crescita della città avviene entro una trama di vincoli che risultano rigidi per due soli rispetti: nella definizione del rapporto fra proprietà privata e suolo pubblico, sottoposto a continua verifica volta a garantire fra l'altro l'intangibilità del sistema viario e comunque più ampiamente l'interesse generale; e in quella, ancora più caratteristica dell'età moderna, del rapporto fra acqua e terra, inteso a subordinare alle ragioni della specificità del sito e della sua storia ogni singolo atto che potesse incidere sull'equilibrio di tale relazione.
Ma per il resto, per tutto ciò che si muove entro le maglie di una trama siffatta, vale un principio, espresso in modo assai esplicito nel decreto del 1535 istitutivo della commissione di due savi all'"ornar e commodar la città" con il compito di operarvi "aggiungendo e removendo": quello della deliberata rinuncia a qualsivoglia strumento coercitivo, dell'operare "senza violenzia" nei confronti dei singoli (39).
Affermazione non secondaria, non solo perché confermata dai fatti (nel progetto di isolamento con canali dello stesso Arsenale, ad esempio, si cercherà con estrema cura di evitare espropri) (40); ma anche perché del tutto antitetica a quanto si affermerà necessario invece per la buona riuscita delle trasformazioni territoriali avviate dal magistrato sopra i beni inculti: l'imporre "ordine e regola à particulari" per prevenire azioni negative di questi ultimi causati da loro "confusione, [...> ignoranzia o malizia" (41).
Alla città di San Marco e al suo territorio, dunque, si guarda con occhio e con giudizio diversi.
Nella prima non si eserciterà alcun atto di forza: al di là dei vincoli che abbiamo ricordato, il suo appare riconosciuto come spazio di libertà.
E in effetti la ricostruzione del pensiero cinquecentesco veneto sul "far la città" fa riemergere più volte e conferma lo stesso concetto (42).
Lo riprende Nicolò Zeno, per intanto, nel ricostruire il mitico apologo di Zeno Daulo allo scopo di chiarire ai propri contemporanei il vero ruolo dell'architettura nella società civile. Se l'austera nobiltà veneta delle origini aveva deliberato "per più aguaglianza e similitudine [...> di lasciar i palagi e le abitazioni magnifiche, fermando per legge che tutte le abitazioni fossero pari, simili, di una medesima grandezza e ornato e il vestire con questo indifferente tra tutti. Cosa che fin al dì d'oggi si osserva", se si era deciso una volta per sempre "che le case superbe e i palazzi si abandonassero da noi", ciò era accaduto per non perdere con l'uguaglianza la libertà, "questa libertà [...> che abbia a essere il nostro fine" (43).
La circostanza della pubblicazione del pensiero dello Zeno non è casuale. Essa avveniva infatti all'indomani di due notevoli eventi culturali: la pubblicazione da parte del Marcolini del Vitruvio commentato dal Barbaro (1556) e l'apertura dell'imponente cantiere del palazzo dei Grimani a San Luca, dove questi ultimi affidavano alle vigorose forme trionfali concepite dal Sanmicheli un'opera architettonica di straordinaria portata autocelebrativa. Quello dello Zeno si pone pertanto come un severo richiamo alla misura e ai valori fondamentali dello Stato tanto nei confronti delle scoperte aspirazioni classiciste dell'opera di Daniele Barbaro, quanto in quelli di una committenza di audace superbia architettonica come i parenti Grimani mostrano di essere.
Ai quali intende rammentare l'antico principio di Roma repubblicana, continuato nella Venezia delle origini:
odit Populus Romanus privatam luxuriam
publicam magnificentiam diligit (44)
metro autentico di una Rinascenza marciana.
Ma lo stesso Barbaro, a sua volta, ricorre al tema del primato della libertà per dare ragione di talune precise scelte già operate in precedenza dalla Repubblica Serenissima.
Se queste, infatti, hanno fatto dell'Arsenale luogo del silenzio della forma, di un'architettura intesa dunque come sola firmitas e pura funzione, come capacità di dare ordine efficace e meraviglioso allo spazio e alle cose, ciò è accaduto perché si è individuata altrove la sede appropriata delle magnificenze pubbliche e alla macchina dell'Arsenale - da poco riordinata proprio dallo stesso amico Nicolò Zeno - si è assegnato un unico scopo: quello di "levare anche le voglie a chi volesse in alcun modo turbare la libertà" veneta (45).
Ma, ancora, era stata proprio la questione del "mantenere quella equalità e libertà che si è mantenuta sin qui" a determinare - anche in senso tecnico - le scelte progettuali conclusive per la difesa di Venezia. Quando si ricostruiscono le strutture dei due Castelli portuali di San Nicolò e di Sant'Andrea, infatti, emerge con forza la specificità del problema fortificatorio veneziano. Nella progettazione delle difese del "cuore ed anima" dello Stato, infatti, mediante una considerazione di natura squisitamente politica, Francesco Maria della Rovere, il capitano generale, induce il consiglio dei dieci a ben considerare "quel contrario che potrebbe portare il veder fare e poi esser fatte queste doe fortezze in una città di tanta reputazione e libertà quanto è questa" (46). La ricostruzione dei due Castelli in termini convenzionali, infatti, sarebbe interpretabile tecnicamente come l'inserimento di una cittadella - potenziale "occasione alla tirannide" già secondo Aristotele - nella città che fino dai tempi del Petrarca è indicata come sede della Libertà. E i bastioni di San Nicolò e di Sant'Andrea, dunque, vennero edificati componendo progettualmente la "fortezza che conviene ad una Repubblica in la pace", vale a dire modificandone il concetto sanmicheliano per mantenere disarmate e strutturalmente vulnerabili le fronti verso la città. Ben altre sono invece le funzioni attribuite nelle altre città degli Stati veneti alle rocche intraurbane: come il castello di San Felice a Verona che "spia de' terrieri e viandanti i passi", o il castello del porto di Chioggia con il quale "se viene [...> ad privar quelli da Chioza de ogni libertà che al presente hano di esso porto [...> et cum tal mo' se li vien a poner il freno" (47). La Dominante vive secondo modi propri e inimitabili, non riproducibili.
Un'idea costante, dunque, sembra guidare le riflessioni, le discussioni, i deliberati sul far e sull'ampliar la città attraverso tutto il '500 e più oltre ancora: quella di fare della stessa forma urbis specchio dello Stato; del configurare lo spazio urbano, del definirne i modi di organizzazione, del concepire i segni architettonici che vi sono apposti come riferimenti simbolici a immagine stessa della res publica.
Una forma urbis, pertanto, da essere intesa come opera d'arte somma.
Poiché persino sul piano del diritto vi è chi afferma come Venezia non sia isola (poiché tali non possono essere considerate le case costruite direttamente sul fondo del mare) ma assoluto artificio. E come in questo carattere, già originario, di artificioso manufatto - di res aedificata potremmo dire - stia il fondamento stesso, principio e fine, della sua libertà: "civitas quia in mari fundata iure suo libera est" (48).
1. Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1494-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 21; A.S.V., Savi alle decime, b. 101 cond. 246, b. 102 cond. 456, b. 103 cond. 917, b. 164 cond. 913. I grandi temi dell'organizzazione dello spazio urbano nella Venezia del '500, dei suoi meccanismi funzionali e del rapporto architettura-città sono stati affrontati di recente in visioni d'insieme alle quali rimandiamo anche per i più articolati riferimenti al folto repertorio di fonti e di bibliografia: AA.VV., Architettura e Utopia nella Venezia del Cinquecento, Catalogo della mostra di Venezia - Palazzo Ducale, Milano 1980; Giorgio Bellavitis - Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985; Venezia nell'età del Gritti, a cura di Manfredo Tafuri, Venezia 1984; Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985; Deborah Howard, The Architectural History of Venice, London 1987; Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 1989.
2. Giovanni Orlandini, Il veneto Magistrato alle Acque, "Ateneo Veneto", 29, nr. 1, 1906, pp. 200-249 e 257-309; AA.VV., Mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970; Francesco Marzolo - Augusto Ghetti, Fiumi, lagune e bonifiche venete. Guida bibliografica, Padova 1949; Materiali per una bibliografia sulla laguna e sul golfo di Venezia, a cura di Michele Pellizzato - Margherita Scattolin, Venezia 1982; AA.VV., Laguna, lidi, fiumi. Cinque secoli di gestione delle acque, Catalogo della mostra di Venezia - Archivio di Stato, Venezia 1983.
3. Oltre a quanto segnalato nella nota precedente v. Ugo Mozzi, I magistrati veneti alle acque ed alle bonifiche, Bologna 1927.
4. Bernardo Canal, Il Collegio, l'ufficio e l'archivio dei Dieci Savi alle Decime in Rialto, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1901, pp. 115-150 e 279-310; Fabio Besta, Bilanci generali, I, 1, Venezia 1912, pp. CXLIII-CLIII; Ennio Concina, Structure urbaine et fonctions des bâtiments. Une recherche à Venise, Venezia 1982; Maria Francesca Tiepolo, Architettura "minore" veneziana e fonti d'archivio: una ricerca interdisciplinare, in AA.VV., Dietro i palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia. 1492-1803, Catalogo della mostra, Venezia 1984, pp. 25-26.
5. V. principalmente Giuseppe Mazzariol - Terisio Pignatti, La pianta di Jacopo de' Barbari, Venezia 1962; Jürgen Schulz, The Printed Plans and Panoramic Views of Venice. 1486-1797, Firenze 1970; Giorgio Bellavitis, L'evoluzione della struttura urbanistica di Venezia attraverso i secoli: i primi documenti cartografici, "Bollettino C.I.S.A.", 18, 1976, pp. 225-239; Giocondo Cassini, Piante e vedute prospettiche di Venezia. 1479-1855, Venezia 19822; Giandomenico Romanelli - Susanna Biadene, Venezia. Piante e vedute. Catalogo del fondo cartografico a stampa. Museo Correr, Venezia 1982; Jürgen Schulz, La cartografia tra scienza e arte. Carte e cartografi nel Rinascimento italiano, Modena 1990, pp. 13-63; Piero Falchetta, La misura dipinta, rilettura tecnica e semantica della veduta di Venezia di Jacopo de' Barbari, "Ateneo Veneto", 178, 1991, pp. 273-305.
6. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Rinaldo Fulin et al., I-LVIII, Venezia 1878-1903.
7. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 278-289; E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 105-125 e la precedente bibliografia citata nei due lavori; Id., Arca del seme antico. "Res publica" e "res aedificatoria" nel Lungo Rinascimento veneziano, in Venedig und Oberdeutschland in der Renaissance. Beziehungen zwischen Kunst und Wirtschaft, a cura di Bernd Roeck - Klaus Bergdolt - Andrew John Martin, Sigmaringen 1993, pp. 209-222.
8. A.S.V., Senato Terra, reg. 37, cc. 94-95, 18.12.1550.
9. Ennio Concina, La macchina territoriale. La progettazione della difesa nel Cinquecento veneto, Roma-Bari 1983.
10. A.S.V., Savi alle decime, b. 95 cond. 456, b. 103 cond. 668, b. 95 cond. 454, b. 96 cond. 241, b. 95 cond. 430.
11. Per un quadro più articolato v. il nostro Venezia nell'età moderna, pp. 53-71
12. M. Sanudo il Giovane, De origine, p. 29; Francesco Sansovino - Giustiniano Martinioni, Venetia città nobilissima et singolare, Venetia 1663, p. 382.
13. Enrico III di Francia a Marie de Clèves, principessa di Condé; da Venzone, 10.7.1574.
14. Andrea Calmo, Le lettere, a cura di Vittorio Rossi, Torino 1888.
15. F. Sansovino - G. Martinioni, Venetia, p. 363.
16. L'ipotesi storiografica intorno al programma del Loredan è stata delineata nel nostro Una fabbrica "in mezzo della città": la chiesa e il convento di San Salvador, in AA.VV., Progetto San Salvador, Venezia 1988, pp. 73-153.
17. Oltre ai lavori citati nella n. 1 v. Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a Venezia, Padova 1969 e Deborah Howard, Jacopo Sansovino. Architetture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven - London 1975.
18. Emilio Padoan, Il Fondaco dei Tedeschi a Venezia, "Emporium", 1939, pp. 287-292; Manlio Dazzi, Sull'architetto del Fondaco dei Tedeschi, Venezia 1940; Ferdinando Forlati, Il restauro del Fondaco dei Tedeschi, "Palladio", 4, 1940, pp. 164-166; AA.VV., Il Fondaco nostro dei Tedeschi, Venezia 1941; Vincenzo Fontana, Fra' Giovanni Giocondo architetto. 1433-1515, Venezia 1988, pp. 64-66; Donatella Calabi, Magazzini, fondaci, dogane, in AA.VV., Storia di Venezia, XII, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 789-817.
19. A.S.V., Notarile, Atti V. Maffei, b. 811o, c. 422r, 1556. Quanto al significato dell'espressione "lavorar di quadro" v. il nostro Pietre, parole, storia. Glossario della costruzione nelle fonti veneziane. Secc. XV-XVIII, Venezia 1988, ad vocem. Altra interpretazione è data in Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto, le fabbriche e il ponte, Torino 1987, P. 157.
20. F. Sansovino - G. Martinioni, Venetia, p. 365.
21. Sulle vicende del ponte v. principalmente Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto: l'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934; D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, le fabbriche e il ponte.
22. Rimandiamo ai lavori citati in n. 1.
23. M. Sanuto, I diarii, LVII, col. 274. Per la commissione dei savi v. Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983, pp. 72-73.
24. E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 42-46.
25. Sulla vicenda del progetto di fra Giocondo cf. i lavori citati nella n. 21 e V. Fontana, Fra' Giovanni Giocondo.
26. Giorgio Vasari, Le vite [...>, a cura di Gaetano Milanesi, V, Firenze 19062, p. 1; Marc'Antonio Coccio Sabellico, Del sito di Venezia città [1502>, Venezia 1957, p. 29.
27. Quanto alla storia urbanistica del Ghetto di Venezia v. Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La città degli Ebrei. Il Ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991, con repertorio completo della precedente bibliografia sull'argomento.
28. Ricerche su quest'argomento sono tuttora in corso da parte nostra.
29. A.S.V., Notarile, G.B. Monte, b. 8253, c. 30v; b. 8250, cc. 18r e 23r; b. 8249, c. 23v; b. 8256, c. 35r; b. 8255, cc. 37r e 42r.
30. Sull'argomento v. principalmente Frederic C. Lane, Venetian Ships and Shipbuilders of the Renaissance, Baltimore 1934, riedito con aggiornamenti bibliografici in Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965; Giorgio Bellavitis, L'Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983; Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo all'età moderna, Milano 1984; Id., La casa dell'Arsenale, in AA.VV., Storia di Venezia, XII, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 147-210.
31. Edmund Warcupp, Italy in Its Originali Glory, Ruine and Revivall, London 1660, p. 15.
32. V. le fonti citate in n. 10.
33. A. Calmo, Le lettere, pp. 172-173.
34. Sul tema dell'edilizia abitativa a Venezia v. Egle R. Trincanato, Venezia minore, Milano 1948; AA.VV., Dietro i palazzi; Paolo Maretto, La casa veneziana nella storia della città, dalle origini all'Ottocento, Venezia 1986; E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 127-176.
35. Adolf K. Placzek - James S. Ackerman - Myra Nan Rosenfeld, Sebastiano Serlio on Domestic Architecture. The Sixteenth-Century Manuscript of Book VI in the Avery Library of Columbia University, Cambridge (Mass.) - London 1978, c. 47v.
36. V. la bibliografia citata nella n. 7.
37. La notevole immagine è di M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 43.
38. La corrispondenza di date è segnalata espressamente dal Forestiero Illuminato intorno le cose più rare e curiose antiche e moderne della città di Venezia, Venezia 1740, p. 303.
39. V. n. 23.
40. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Comuni, f. 144, 1580.
41. Il summario di tutte le leggi et parti [...> in materia delli Beni Inculti, Venezia 1558, c. 6v.
42. L'espressione "far la città" compare in Giovan Jacopo Leonardi, Libro delle fortificazioni de' nostri tempi, a cura di Tommaso Scalesse, "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura", serr. XX-XXII, 115-126, numero unico, Roma 1975. L'autore è a lungo oratore a Venezia di Francesco Maria I della Rovere, capitano generale della Serenissima.
43. Nicolò Zeno, Dell'origine de' barbari che distrussero per tutto 'l mondo l'imperio di Roma, onde hebbe principio la città di Venetia, Venetia 1557 e 1558; nella II ediz., rivista sul manoscritto dell'autore, a p. 15.
44. Cit. in Thesaurus linguae latinae, Leipzig 1936-1966, alla voce luxuria.
45. Daniele Barbaro, I Dieci Libri di M. Vitruvio, Vinegia 1556, p. 163.
46. John R. Hale, Terra Ferma Fortifications in the Cinquecento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Firenze 1980, pp. 169-187; E. Concina, La macchina territoriale, pp. 41-45.
47. La prima citazione da Maurizio Moro, Pomposi fregi di Verona, Verona 1611, p. 20; la seconda da A.S.V., Consiglio dei Dieci, Secreta, reg. 4, "Depositio trium propisorum super aquis circa fortificacionem et deffensionem Civitatis Veneciarum", 2.1.1535.
48. Marc'Antonio Peregrino, De privilegiis et iuribus fisci. Libri octo, Vicetia 1626, p. 358.