amplificazione
Nella tradizione retorica occidentale il termine amplificazione (lat. amplificatio, exaggeratio; greco áuxesis, da auxánō «accrescere») indica un complesso di tecniche che intensificano i discorsi con finalità pratiche, come argomentare tesi, suscitare passioni o commuovere (Lausberg 1969: 53-60; Mortara Garavelli 1997: 109).
In senso moderno, l’amplificazione esprime la trasformazione tematica di un argomento unitario che si sviluppa secondo svariate prospettive. In particolare, consiste nel far variare segmenti del discorso col mantenere, l’aggiungere o il ricapitolare le informazioni via via offerte.
La latinità riceve il termine dalla tradizione greca e lo diffonde attraverso la Retorica a Erennio (opera del I sec. a.C. per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone), indicandolo come il mezzo tecnico più efficace per conseguire gli scopi del discorso, sia dilatando sia comprimendo le informazioni. In questo senso essa è una pars orationis inserita nella narrazione dei fatti (narratio), dopo l’esposizione degli argomenti e a conclusione del discorso. Cicerone nel De oratore indica nell’amplificazione il principale insieme di tecniche per confezionare i discorsi: «Summa autem laus eloquentiae est amplificare rem ornando» («Il più alto merito dell’eloquenza è amplificare la materia adornandola»: Or. III, 26, 104). Proprio l’insistenza sulle tecniche dell’amplificazione tenderà a creare nei secoli l’effetto di esagerazione calcolata e non sincera con un conseguente velo di discredito sulla retorica (Leeman 1965; trad. it. 1974: 410-411).
L’Institutio oratoria di Quintiliano segnala quattro piste per amplificare i discorsi (VIII 4. 4-25). La prima si ottiene per incrementum (accrescimento di informazioni minori); la seconda per comparationem (confronto tra un esempio e il fatto di cui si sta parlando); la terza per ratiocinationem (ragionamento, attraverso sentenze o esempi che presuppongono un collegamento col fatto); la quarta, infine, per congeriem (accumulo di informazioni apparentemente non collegate ma ricomposte dall’uditorio; una tecnica che sembra non estranea alla poesia italiana moderna; si veda Montale, “L’estate”, in Occasioni (vv. 9-15):
Ecco l’omero acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle –
e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna …
Occorrono troppe vite per farne una
La lezione di Quintiliano entra saldamente nella pedagogia retorica: da lì infatti proviene la tendenza a prevedere lo svolgimento ampliato di un argomento a partire da una consegna. Dall’XI secolo queste tecniche si confermano grazie ai nuovi diffusi manuali di maestri come Matteo di Vendôme e Goffredo di Vinosalvo. Denominati artes poetriae («tecniche per scrivere in versi»), i manuali precisano l’idea secondo cui l’allestimento dei discorsi comporta la dilatazione (dire molto a partire da poco) e la brevitas (dire poco a partire da molto). Essi indicano otto procedimenti specifici per ampliare i discorsi (Faral 19622: 61-85):
(a) l’interpretatio e l’expolitio (parafrasi interpretativa e ritocco testuale);
(b) la perifrasi (o circumlocutio «giro di parole» per definire qualcosa);
(c) la comparatio (o paragone, confronto per facilitare la conoscenza);
(d) l’apostrofe (o exclamatio; svolta discorsiva per creare interesse);
(e) la prosopopea (o personificazione);
(f) la digressione (deviazione dall’argomento principale del testo);
(g) la descriptio («descrizione», ipotiposi o evidentia; trasformare le parole in immagini);
(h) l’oppositum (negare il contrario della materia per affermarla).
Quest’idea dell’amplificazione, trasmessa fino a tutto il XIII secolo, impone nuove tecniche per imparare a scrivere versi, come dimostrano le trame retoriche dei maggiori autori del secolo, come Geoffrey Chaucer e Dante. Consideriamo la perifrasi, forse la più chiara espressione dell’amplificazione: nella Commedia ne sono state contate più di 150 (Curtius 1948; trad. it. 1992: 305-309). Esse riguardano per lo più il sapere astronomico e geografico, ma rinviano a ogni aspetto enciclopedico: ad esempio, l’età infantile: «anzi che tu lasciassi il pappo e ‘l dindi» (Purg. XI, v. 105); l’estate: «nel tempo che colui che il mondo schiara / la faccia sua a noi tien meno ascosa» (Inf. XXVI, vv. 26-27); Omero, «rispuose il duca mio – siam, con quel greco / che le Muse lattar più che altro mai» (Purg. XXII, vv. 101-102); o Virgilio, «e quel savio gentil, che tutto seppe» (Inf. VII, v. 3), e «Io mi volsi al mar di tutto il senno» (Inf. VIII, v. 7).
Sin dal tardo medioevo l’amplificazione spinge dunque all’estremo l’idea della variazione sinonimica e testuale, assecondando le lingue più espressive e più vicine al latino (quali l’italiano). Essa diventa così centrale nelle pratiche educative del Cinquecento, con umanisti come Erasmo da Rotterdam, col suo fortunatissimo manuale per l’apprendimento della scrittura, il De duplici copia verborum ac rerum commentarii duo (1512), che potremmo tradurre col moderno «Come abbondare nelle parole e nelle idee quando si scrive».
Le tecniche dell’amplificazione diminuiscono in intensità didattica a partire dall’Ottocento per il nuovo contesto ideologico e culturale (romanticismo), fino a svanire del tutto nel Novecento, esclusa la ripresa programmata dei discorsi politici totalitari (fascismo e nazismo). Dopo di allora, l’artificio più ampolloso dell’amplificazione viene messo da parte e si profilano nuovi espedienti teorici e retorici testimoniati dalla poesia italiana del Novecento (Pascoli, Gozzano, Montale o Ungaretti, ad esempio, che fanno prevalere figure retoriche specifiche come l’antifrasi, la metonimia o la metafora).
Nel secondo Novecento, i testi in lingua italiana sembrano prediligere un nuovo modo di concepire l’amplificazione secondo le indicazioni delle avanguardie di punta della poesia novecentesca dei primi tre decenni del secolo, a partire appunto da Montale. In questo caso, l’amplificazione si proietta lungo due canali distinti. In primo luogo, essa prevede un mescolamento delle tecniche previste dall’antichità coinvolgendo le figure più tradizionali in un gioco sapiente di modulazione retorica. Un esempio si ha in “Falsetto” (da Ossi di seppia, vv. 42-49):
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo si incide contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi e come spiccata da un vento
t’abbatti tra le braccia
del tuo divino amico che ti afferra
dove l’innalzamento procede attraverso un sapiente uso di perifrasi classiche stemperate da un gusto parodico che le traduce in un vortice di figuralità discorsive, compresa la citazione e la similitudine dissimulata.
In casi più recenti, ma avviati dalla poesia italiana di inizio XXI secolo, l’amplificazione può realizzarsi attraverso la dilatazione e il prolungamento di una figura retorica che fa da regia discorsiva rispetto a un tessuto verbale in cui si contrappongono le figure con un effetto di antitesi complessivo. Così, ad esempio, in Oliver Scharpf, “N. 13” (da Uppercuts):
quando alla quinta ripresa del match
tra mike tyson e frank bruno a las vegas
del venticinque febbraio dell’ottantotto
bruno andò giù
tutti in piedi
e decine e decine di flash
che sbocciarono come magnolie
dove la congeries nominale e paratattica si inserisce, come nella lingua più colloquiale, in un forte mistilinguismo a cui si contrappone il blocco dell’ultima parola, antitetica anche nel suo riferimento denotativo.
Attualmente, la variante di italiano trasmessa da televisione, radio, Internet riporta l’amplificazione quasi esclusivamente al piano della brevitas per effetto dell’opulenza informativa contemporanea. In questo caso, i messaggi ad alta diffusione di massa si traducono spesso in motti d’arguzia rapidissimi per lo più affidati al climax, ma tali comunque da imprimersi con facilità nella mente degli ascoltatori (anche per il loro effetto per lo più antifrastico). L’amplificazione torna dunque in scena, ma nel suo senso ricapitolativo e di sintesi, mentre si profilano nuovi scenari di composizione testuale: ad esempio, quel copia-e-incolla amplificante reso possibile dalla strumentazione elettronica e contrassegnato da un accumulo di brandelli testuali di varia provenienza, segnati dal passaggio di molti e ricuciti assieme come le tessere di un mosaico.
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, in Id., Tutte le opere di Cicerone, Milano, Arnoldo Mondadori, 33 voll., vol. 32°.
Cicerone, Marco Tullio (1994), Dell’oratore, a cura di E. Narducci, Milano, Rizzoli.
Montale, Eugenio (1980), L’opera in versi, a cura di R. Bettarini & G. Contini, Torino, Einaudi.
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Institutio oratoria, a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2 voll.
Scharpf, Oliver (2004), Uppercuts, Faenza, Moby Dick.
Curtius, Ernst Robert (1948), Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, A. Francke (trad. it. Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992).
Faral, Edmond (1924), Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen âge, Paris, Champion (2ª ed. 1962).
Lausberg, Heinrich (1949), Elemente der literarischen Rhetorik. Eine Einführung für Studierende der romanischen Philologie, München, Max Hueber Verlag (trad. it. Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1969).
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der literarischen Rhetorik, München, Max Hueber Verlag, 2 voll.
Leeman, Anton D. (1965), Orationis ratio. The stylistic theories and practice of the Roman orators, historians and philosophers, Amsterdam, Hakkert Publishers (trad. it. Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi latini, Bologna, il Mulino, 1974).
Mortara Garavelli, Bice (1997), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.