anafora
. Figura retorica appartenente al genere della repetitio, e designata appunto in latino col nome di repetitio, o anche di iteratio e relatio: consiste nel ripetere la medesima parola al principio di una serie di due o più membri sintattici, di due o più versi. Nelle poetiche tardomedievali predomina la denominazione di repetitio. Tale schema era frequente soprattutto nell'arte oratoria in corrispondenza con una ricerca di stile veemente e concitato, e si accompagnava generalmente alla giustapposizione di membri brevi. Ma, oltre a ricorrere frequentemente nella poesia classica e medievale, l'a. è spesso presente nei testi sacri e costituisce uno degli schemi preferiti dei Salmi.
L'uso dell'a. assume in D. una duplice funzione: da una parte infatti concorre alla costruzione organica del periodo, distinguendo e nello stesso tempo legando, attraverso il parallelismo dei nessi iniziali, i membri contigui di un discorso; dall'altra parte svolge la funzione propriamente emotiva che ha di solito la ripetizione, o s'inserisce come elemento dello stile grave. v. anche RIMA 14.
Nella Vita Nuova è la stessa struttura del periodo, non ancora elaborato in complessi architettonici, come avverrà nella più matura e raziocinante prosa del Convivio, a richiedere l'uso dell'a. come semplice metodo organizzativo di una serie di immagini disposte secondo una successione narrativa. Si aggiunga, in questa prosa giovanile, la particolare propensione alla repetitio, che costituisce insieme il segno di un'ingenua esperienza prosastica e di un particolare gusto rappresentativo pieno di stupore e d'incanto. Si veda ad esempio, in Vn XXIII 5, l'a. ottenuta con la ripetizione di vocaboli frequenti e tipici del ‛ libello ': e vedere mi parea... e pareami vedere... e pareami che, dove tuttavia la variazione della formula e la distanza della ripetizione vanifica quasi lo schema (e si possono aggiungere gli esempi dei paragrafi successivi). Più evidente esso appare invece in XIII 8 3-6, dove l'enumerazione dei pensieri che parlano d'amore al poeta si risolve in una serie di versi paralleli introdotti da ‛ altro ' (ch'altro mi fa voler sua potestate, / altro folle ragiona il suo valore, ecc.). Lo schema, in questo caso, si riproduce nella prosa, ma per perdere il suo effetto drammatico, diluito in un'esplicazione, nella quale la ragione della varietà prende il sopravvento: l'uno de li quali era questo... l'altro era questo... l'altro era questo... lo quarto era questo (XIII 2-5).
Altrove, nei versi della Vita Nuova, la ricerca dell'a. è rara e, lì dove appare, è appena accennata, se pensiamo a casi come ogne dolcezza, ogne pensero umile (XXI 3 9), e Io veggio li occhi vostri... e veggiovi tornar (XXII 10 12-13), dove la ripetizione è piuttosto dissimulata che ostentata.
Altrettanto rara è l'a. nelle Rime: essa ricorre preferibilmente per rinforzare una preghiera (Digli che 'l buon col buon non prende guerra ... digli ch'è folle chi non si rimove, XCI 101-103), o un'apostrofe, ancora in una ‛ tornata ' (Canzone, uccella con le bianche penne; / canzone, caccia con li neri veltri, CIV 101-102), o un'imprecazione (Maladetta tua culla / ... Maladetto lo tuo perduto pane, CVI 78-80). Quest'ultima canzone (Doglia mi reca) riccamente contesta di schemi retorici, presenta ripetutamente l'a. quale modo per insistere su taluni concetti: Omo da sé vertù fatto ha lontana; / omo no, mala bestia (vv. 22-23); lietamente esce da le belle porte, / a la sua donna torna; lieta va e soggiorna; lietamente ovra suo gran vassallaggio (vv. 32-34), dove l'alternarsi dell'avverbio e del predicato non attenua l'a., ma vi aggiunge un gioco di variatio. Nella stessa canzone l'a. interviene ben due volte a distinguere i membri paralleli del periodo: chi con tardare, e chi con vana vista, / chi con sembianza trista (vv. 119-120); prima con lei t'arresta, / prima a lei manifesta (vv. 155-156).
La terza canzone del Convivio offre due tipici esempi d'a., in cui il ripetersi della congiunzione serve a disporre parallelamente una serie di argomentazioni o di enunciazioni: ché prima puose 'l falso e, d'altro lato, / con difetto procede; / ché le divizie, sì come si crede, / non posson gentilezza dar né torre (vv. 47-50); e io così per falsi li riprovo, / e da lor mi rimovo; / e dicer voglio omai... / e dirò i segni (vv. 76-80), dove la quadruplice ripetizione della locuzione congiuntiva introduce due coppie parallele di membri sintattici.
La funzione dell'a. nella prosa del Convivio consiste in realtà nel determinare la simmetria del discorso logico e quindi va considerata come un elemento del parallelismo (v.). È opportuno tuttavia segnalare quei casi in cui lo scrittore ricorre a questo schema retorico, piuttosto che affidarsi, come talora avviene, alla sola disposizione dei membri paralleli, o ricercare una varietà di nessi equivalenti. Meno notevoli sono i casi consistenti nella ripetizione di una congiunzione come onde per tenere insieme una lunga argomentazione (Cv I V 8-13; ma al § 11 la ripetizione di dicemo nasce da una più immediata intenzione didascalica); ciò vale anche per il con ciò sia cosa che, ripetuto per istituire il parallelo fra due successive premesse (II VIII 4). Il ripetersi di dico in II VII (in particolare ai §§ 9-10 ; cfr. III VI) e di dice in II X 7 è in relazione con la funzione esegetica della prosa. Un'esigenza didascalica di chiarezza trapela dalla lunga a. di II V 7-11, che sottolinea il fondamento della molteplicità delle gerarchie celesti. La variazione dei nessi segue rigorosamente l'articolazione del sistema angelico nelle sue divisioni e corrispondenze, sicché alla definizione delle tre gerarchie attraverso l'indicazione dell'oggetto della contemplazione si accede attraverso un iniziale si può, seguito dalla duplice ripetizione di e puotesi contemplare, e la suddivisione delle gerarchie, ciascuna in tre ordini caratterizzati dal ‛ modo ' della contemplazione, viene introdotta da un triplice puotesi considerare, ed esemplificata solo per quanto riguarda la prima gerarchia che contempla il Padre, mentre con si puote, asimmetricamente disposto, si conclude alludendo all'analoga suddivisione delle altre due gerarchie. Altrove, invece, il ripetersi identico dell'a. è collegato con una struttura classificatoria non altrettanto complessa; è il caso di Cv II XIII 11-28, in cui le similitudini suggerite dai cieli trovano ciascuna una distinta enunciazione (E lo cielo de la luna... E lo cielo di Mercurio... ecc.). Analogamente la triplice motivazione dell'uso del volgare si articola attraverso l'a., che conserva l'unità organica del complesso ragionamento: mossimi prima... mossimi secondamente... mossimi ancora. Più vicina alla funzione classica dell'a. è la ripetizione in Cv II III 11 questo è lo soprano edificio... questa è quella magnificenza..., dove invece l'effetto di enfasi si giustifica con l'esigenza di richiamare alla mente del lettore, quasi meravigliosa scoperta, la validità dei testi classici e biblici. Così la triplice ripetizione di riluce in IV XIX 5 mette in evidenza, con enfasi progressiva, i pregi della nobiltà.
Nella prosa latina l'uso dell'a, è non solo più frequente, ma anche più corrispondente alla funzione più tipica, quella oratoria, dello schema. La ritroviamo infatti nel De vulg. Eloq. quando D. lamenta l'estinguersi della fioritura della scuola siciliana: Quid nunc personat tuba novissimi Federici? Quid cornua...? Quid... tibiae? (I XII 5), cui segue subito un'altra a.: Venite... venite... venite. Il carattere polemico del trattato e la passione che lo anima si rivelano anche altrove attraverso l'a., fra le pieghe del serrato discorso dimostrativo. In I XVIII 1, dove si parla del carattere cardinale del volgare illustre, l'interrogazione retorica e la paronomasia si collegano appunto all'a. e alla transumptio per designare animatamente l'opera proficua dei letterati illustri: Nonne cotidie extirpat sentosos frutices de ytala silva? Nonne cotidie vel plantas inserit vel plantaria plantata?
È ben testimoniato tuttavia l'uso dell'a, per ragioni di chiarezza didascalica. Così in VE I XVI 3 la ripetizione di in quantum distingue le attività dell'uomo con una sorta di gradatio, che corrisponde alla progressiva specificazione delle sue funzioni (‛ homo ', ‛ civis ', ‛ latinus '); in II VI 5 un'analoga gradazione, la famosa distinzione dei tre stili, è articolata attraverso l'a.: est et pure sapidus... est et sapidus et venustus... est et sapidus et venustus etiam et excelsus. Così l'enunciazione di una serie di condizioni o di fatti analoghi si organizza preferibilmente attraverso la simmetria anaforica: cfr. in II X 4 la quadruplice ripetizione del si, e nel capitolo successivo la quadruplice ripetizione di quandoque. Una funzione più specificatamente dialettica ha l'a. in II I 5, dove la ripetizione di exigit, usata la prima volta per definire una questione con una norma generale (exigit ergo istud sibi consimiles viros...), e la seconda per riportare l'aforisma al caso particolare del genere sommo (Exigit enim magnificentia magna potentes...), serve a insistere sul fondamento logico di tutta l'argomentazione, ossia la necessità imprescindibile di tener conto del rapporto fra lo stile e l'ingegno di chi lo usa. Un effetto più spiccatamente letterario, che si ricollega al linguaggio narrativo, ha la ripetizione di pars in I VII 6, dove essa concorre a creare l'immagine della frenetica ed empia costruzione della torre di Babele.
Non diversamente nella Monarchia accanto all'a. richiesta dalle esigenze del discorso logico (frequente è il caso della ripetizione di aliud est per definire i concetti in quel che essi hanno di specifico; cfr. III IV 18, V 3, VI 4-5), va registrato l'uso della ripetizione in una forma affatto tradizionale come quella che si accompagna con l'interrogazione retorica, per attribuire vivacità persuasiva al trattato: cfr. in II V 8-13 la serie Nunquid... Nonne... Nonne... Nunquid... Nonne, che intende sottoporre al lettore evidenti esempi storici per provocarne l'assenso; e in IX 6 la serie degli et si che intende dedurre immediatamente da indubitabili premesse, accettate anche dai gentili, proposizioni utili al prosieguo della trattazione. Né manca l'a. come elemento dell'amplificazione, quale la troviamo specialmente in III III 18 (quam pius filius matri, pius in Christum, pius in Ecclesiam, pius in pastorem, pius in omnes...) e in III 11 (Non enim peccatur in Moysen, non in David, non in Iob, non in Matheum, non in Paulum...).
Nelle epistole la ricerca dell'a. s'infittisce in corrispondenza con l'impostazione stilistica di esse e il fondo emotivo del discorso. La ripetizione viene adoperata infatti soprattutto per dar forma al lamento e al rimprovero, sia che prevalga una specie di trenodia (Doleat ergo, doleat progenies... doleant omnes, II 3; Iacet Gregorius tuus... iacet Ambrosius... iacet Augustinus, XI 16), sia che prevalga la minaccia (Videbitis aedificia vestra... igne cremari. Videbitis plebem circumquaque furentem..., VI 16; attendatis ad funiculum, attendatis ad ignem, XI 7), o lo sdegno (Vere matrem viperea feritate dilaniare contendit... Vere fumos... vitiantes exhalat... Vere " De ordinatione " resistit, VII 25-26; vobis ignem de caelo missum despicientes... vobis columbas in tempio vendentibus, XI 6). Ma anche nell'esortazione finale dell'Ep XI D. affida all'a, la funzione di rappresentare la carica emotiva del suo appello: pro sponsa Christi, pro sede quae Roma est, pro Ytalia nostra... pro tota civitate (§ 26).
Né è il caso di insistere su comunissime a. ricorrenti nelle Ecloghe (I 63-64, II 44-45).
Nella Commedia l'a. è assunta nella maggior parte dei casi per una ragione di enfasi espressiva e ovviamente segue, e anzi sottolinea, la spezzatura del ritmo strofico. La ripetizione si ritrova infatti generalmente all'inizio di una serie di due o più terzine, o all'inizio dei tre versi di una terzina, o solo di due: quello di Pg XXII 97-99 è un raro caso in cui l'a. (dimmi... / dimmi...) riguarda il primo e il terzo verso della terzina. Talvolta la corrispondenza con la misura del verso viene artificiosamente evitata: D. non tiene conto allora dei versi, ma dei membri sintattici, delle ‛ sententiae ', che non corrispondono alla misura del verso. Cfr. If XXVIII 130-132, dove il primo vedi inizia il secondo colon del v. 130, mentre il secondo vedi è evidenziato al principio del v. 132; e specialmente Pd XXX 128-131, dove i tre membri sintattici paralleli, equivalenti nel senso tanto da costituire una specie di amplificazione, un'expolitio (Mira / quanto è 'l convento de le bianche stole! / Vedi nostra città quant'ella gira; / vedi li nostri scanni sì ripieni), sono delimitati dall'a., ma, come è perseguita la variatio nella ripetizione dei termini iniziali (mira - vedi; i trattati retorici la designavano come ‛ epibolé ') così il primo termine è spostato in rima. I due casi citati appartengono a quella serie di ripetizioni del verbo ‛ vedere ', che presuppone il rapporto fra guida e discepolo: cfr. If I 116-118 (vedrai li antichi spiriti... / e vederai...), Pg II 31-34 (vedi che sdegna... / vedi come l'ha dritte), IX 50-51 (vedi là il balzo... / vedi l'entrata). Analogo è il caso di If V 64 ss., dove però il ‛ vedi ' ora è spostato mediante l'a. dalla posizione iniziale e ‛ naturale ', ora è collocato nel mezzo del verso, per evitare la monotonia dell'enunciazione.
Talora l'a. divide il verso nei due ‛ cola ' e l'enfasi è affidata non solo alla ripetizione (Isidoro chiamava epanaphora quella che si verifica all'interno di un medesimo verso, " per principia sensuum ", I XXXVI 9) ma all'interpretatio, ossia alla ripetizione del medesimo concetto con parole diverse: tutti lo miran, tutti onor li fanno (If IV 133); quanti dolci pensier, quanto disio (V 113); grida i segnori e grida la contrada (Pg VIII 125); in voi è la cagione, in voi si cheggia (XVI 83).
In If IV 46 (Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore), e in Pg XXII 73 (per te poeta fui, per te cristiano) si costituisce invece una sorta di gradatio.
Più complesso è il caso di Pd XXXIII 19 (In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s'aduna / quantunque in creatura è di bontate), in cui alla sostanziale equivalenza semantica dei quattro sostantivi, distinti in coppie di sinonimi (magnificenza significa in questo luogo " magnanimità ", quindi " bontà " nel senso di " benignità ") corrisponde la simmetria nella disposizione sintattica solo per i primi tre. E notevole è il caso di Pd XV 130-132 (A così riposato, a così bello / viver di cittadini, a così fida / cittadinanza, a così dolce ostello), dove l'a. è ancora un elemento dell'expolitio e rifiuta sistematicamente la collocazione normale, favorendo l'enjambement.
L'a. è soprattutto, nella Commedia, un elemento importante dello stile grave e sentenzioso. Si pensi alla triplice ripetizione di Per me si va di If III 1-3, e alla triplice ripetizione di Amor all'inizio di tre successive terzine in If V 100 ss., dove Francesca richiama la dottrina d'amore; si pensi alla digressione colta, nella quale D. dichiara la superiorità del suo racconto rispetto a quello degli antichi poeti (Taccia Lucano... / Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, If XXV 94, 97), e alla ripetizione che introduce una triste profezia con allusione alla passione di Cristo (veggio in Alagna... / Veggiolo un'altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele / ... Veggio il novo Pilato, Pg XX 86-91).
L'uso dell'a. è, in quest'ultimo caso, dosato con particolare artificio: infatti il veggio, ricorrente ai vv. 80 e 86, nel verso centrale di due terzine separate da una digressione, viene ripetuto con effetto intenso nei primi due versi della terzina successiva, e ripreso all'inizio della terzina che conclude la profezia. Si vedano in special modo i canti XV e XIX del Paradiso, che affidano alla forza oratoria dell'a. gli eloquenti discorsi di Cacciaguida e dell'Aquila in riprovazione della decadenza morale e politica. In Pd XV, a parte l'a. dei vv. 55-61 (Tu credi ... / Tu credi...), i vv. 100-109 sono scanditi attraverso la intermittente ripetizione del non all'inizio del verso per denigrare tutto quello che i bei tempi andati non conoscevano (cfr. in XII 91-93 una simile soluzione stilistica per il medesimo tema nell'invettiva di s. Pietro), cui si aggiunga l'a. dei vv. 130-132 sopra citati.
In Pd XIX, ancora più largamente impiegata, l'a. compare sin dai primi versi (Parea... / Parea, 1-4) e diviene l'elemento coordinatore dei vv. 115-141, contenenti la profezia e la minacciosa invettiva: le terzine si susseguono collegate a tre a tre mèdiante la ripetizione iniziale di Lì, Vedrassi, E, ciascuno ripetuto appunto tre volte. Ma in questo stesso canto anche il parlare di D. si fa eloquente e ricorre volentieri all'a.: cfr. 31-32 (Sapete come attento io m'apparecchio / ad ascoltar; sapete qual è quello / dubbio), cui si ricollega il ben so del v. 28; e ancora 77-78 (ov'è questa giustizia... / ov'è la colpa sua...). Un impiego altrettanto ampio dell'a., e quasi un gusto architettonico nella disposizione delle terzine è in Pg XII 25-57, dove la descrizione dei bassorilievi rappresentanti la superbia punita è articolata in tre gruppi di quattro terzine, il primo caratterizzato dalla ripetizione, all'inizio di ogni terzina, di Vedea, il secondo dalla ripetizione dell'esclamativa (0), il terzo da quella di Mostrava.
Non è opportuno insistere sui casi in cui l'a. non ha altra funzione che quella di contribuire all'intensità di certi effetti. Scopertamente oratorio è il tono di s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, / s'io meritai di voi assai o poco... (If XXVI 80-81), che accompagna la ‛ captatio benevolentiae ' di Virgilio nei confronti di Ulisse e Diomede. Rientra nei modi consueti dell'invettiva la ripetizione di Vieni, con cui D. apostrofa Alberto tedesco (Pg VI 106-112) accusandolo di aver indirettamente causato le sventure d'Italia (Vieni a veder si ripete all'inizio di tre terzine, interrotte da una terzina che comincia col semplice Vien, ripetuto nel corso del medesimo verso). Nello stesso canto due terzine ironiche (130-135) sono legate dall'a. (Molti han giustizia in cuore... / Molti rifiutan...). E ad evidenziare l'invettiva è volta la ripetizione di Pg XIV 115-118 (Ben fa Bagnacaval... / Ben faranno i Pagan...). La duplice similitudine con intento di amplificazione è naturalmente sostenuta dall'a.: Sì si starebbe un agno intra due brame l ... sì si starebbe un cane intra due dame (Pd IV 4-6); Così la neve al sol si disigilla; / così al vento... (XXXIII 64-65). L'a. può ribadire talora un concetto con esito affatto prosastico e didascalico (Creata fu la materia ch'elli hanno; / creata fu la virtù informante, Pd VII 136-137), o corroborare il tono eloquente con cui il poeta ribadisce la sua consapevole ‛ carità ' (Sternel la voce del verace autore / ... Sternilmi tu ancora, XXVI 40-43), o infine contribuire all'articolarsi di una 'descrizione, secondo un modulo che si è visto già nella prima esperienza poetica di D. (altre vanno via sanza ritorno, / altre rivolgon sé onde son mosse, / e altre roteando fan soggiorno, XXI 37-39).
Bibl. - C. Segre, Il " Convivio " di D.A., in Lingua, stile e società, Milano 1963, 265-270.