Anagni
(lat. Anagnia)
di M.L. de Sanctis
Città del Lazio, in prov. di Frosinone. Si erge su uno sperone tufaceo, che domina la valle del Sacco e la principale via di collegamento fra Roma e il Napoletano.Anagnia sorse come città sacra del popolo degli Ernici, intorno al sec. 8° avanti Cristo. Nel 307-306 a.C. presiedette la lega (con Alatri, Ferentino e Veroli) contro i Romani, dai quali fu però conquistata e trasformata in prefettura prima e poi in municipio. La città arcaica si sviluppava tutta sulla parte più alta del colle, poi occupata in età medievale dall'acropoli romana e dalla contrada Castello. Il ritrovamento dei resti di due necropoli nell'area del giardino comunale meridionale e lungo la via Nuova ha permesso di ipotizzare nella direttrice via Trivio-via Bagno la delimitazione della città ernica (Mazzolani, 1969). La localizzazione dei poli più importanti della vita cittadina, a S-E (acropoli con il tempio di Saturno), a S (centro civico con il tempio di Diana Trivia) e a N-O (con il tempio di Cerere-Demetra), determinò la formazione di un nucleo urbano impostato secondo una configurazione triangolare (Proia, 1976). La cinta muraria in opera poligonale, all'interno della quale la città poté espandersi fino al sec. 13°, risale a un'epoca di poco successiva alla conquista romana; alcuni tratti (identificabili in poderosi arconi di sostruzione) sono ancora visibili presso la porta Principe Umberto, su via Dante e negli 'arcacci' di Piscina (Mazzolani, 1969). La viabilità interna, la cui direttrice principale era costituita dall'attuale via Maggiore, trovava sbocco nella porta del Sole (od. S. Francesco), nella porta degli Idoli (od. S. Maria) e nella porta Cerere. Nel sec. 2° d.C. furono aperte anche la porta Tufoli a N-E, la porta del Rio a N e la porta di Ponente (od. S. Remigio); sempre a un periodo posto fra il sec. 1° e il sec. 2° d.C. risale la costruzione delle prime due strade rotabili, che collegavano il centro della città con la valle e con le strade consolari che portavano verso Roma e la Campania: la via del Capitolo e la via Magna (Proia, 1976).
A. è documentata fra le sedi vescovili appartenenti al Patrimonio Labicano fin dal sec. 5° (Duchesne, 1892) e fece parte dei beni assegnati a Pasquale I dall'imperatore Ludovico (Fabre, Duchesne, 1889-1952, I).
Durante l'Alto Medioevo A. fu governata, fino al sec. 8°, da tribuni eletti dall'esarca di Ravenna e, fino a tutto il sec. 9°, da duchi nominati dal papa. Nel sec. 11° sembra possibile ipotizzare la presenza a capo della città di veri e propri signori locali, come il dux Adrianus, nominato in un documento del 1009 (Ambrosi-De Magistris, 1889a; Falco, 1919-1926; Panza, Ferretti, 1981). Fu con il sec. 12° che la città cominciò a partecipare ai grandi avvenimenti legati alla storia europea. A., al centro della politica dei grandi pontefici del sec. 13°, si trovò coinvolta nella lotta tra Papato e Impero. Allo stesso periodo e al ruolo assunto dalla città va riportato l'affermarsi delle prime strutture comunali e di nuove classi di mercanti e artigiani, insieme all'inizio del processo di inurbamento dei baroni, all'origine del costituirsi di vere e proprie signorie.
La città, che nel periodo altomedievale risultava fortemente contratta nelle dimensioni, arroccata sulla parte alta del colle, conobbe durante il sec. 12° una prima ripresa dell'attività edilizia. Già nella seconda metà del sec. 11° si era d'altra parte dato inizio, nella contrada Castello, sostituitasi all'antica acropoli saturnia e protetta da poderosi bastioni, alla costruzione della nuova cattedrale. Alla stessa epoca sono da ascrivere porta Oscura, porta del Trivio, porta di S. Nicola (Proia, 1976).
È comunque al sec. 13° che devono attribuirsi, contemporaneamente al significativo ruolo politico e amministrativo assunto dalla città, quegli interventi urbani ed edilizi che ne hanno maggiormente caratterizzato la struttura e l'aspetto.
Tra il palazzo civico e le contrade sovrastanti (Castello, Torre, Trivio, Tufoli) lo sviluppo urbano, che rimase sostanzialmente compreso all'interno delle mura romane, assunse carattere monumentale, mentre il versante meridionale, attraversato dalla via Nova, conservò l'aspetto di una contrada intensamente popolata. La via Maggiore, che rappresentava l'arteria principale della città, nel primo tratto (da porta Cerere al palazzo comunale) segue l'andamento serpeggiante della strada romana, mentre nel secondo (che giunge alla contrada Castello e si sviluppa tra due cortine di edifici duecenteschi) è da attribuire a un omogeneo intervento del 13° secolo. Lungo questa strada si elevano gli edifici sede del potere ecclesiastico e civile (la cattedrale e il palazzo comunale, che, costruiti fra i secc. 11° e 12°, furono radicalmente trasformati nel corso del sec. 13°, nonché i palazzi di Gregorio IX e Bonifacio VIII), le residenze della nobiltà cittadina (a testimonianza delle quali rimangono ancora alcune case-torri e palazzi ad atrio porticato), i più interessanti esempi di edilizia residenziale e religiosa (alcune chiese erano infatti localizzate nelle immediate adiacenze, ma comunque comunicanti direttamente con la strada principale: S. Andrea, S. Balbina, S. Agostino, S. Giovanni Battista, S. Michele, S. Giovanni de Duce, S. Biagio, Ss. Cosma e Damiano).
La cattedrale fu fatta ricostruire fra 1072 e 1102 dal vescovo Pietro sul luogo di quella precedente dedicata a s. Magno; alcune iscrizioni permettono di datare al sec. 9° i frammenti scultorei riutilizzati nella struttura più tarda. L'edificio sorgeva nella parte della città che era stata occupata dall'acropoli romana; nelle tracce di strutture antiche riscontrate nei sotterranei e lungo i fianchi della cattedrale sono stati ipotizzati resti di un tempio (Mazzolani, 1969). Alla penetrazione del Romanico lombardo, durante gli ultimi anni del sec. 11°, è da riferire la decorazione ad archetti del transetto, mentre per la decorazione delle absidi, attribuibile alle maestranze lombarde impegnate nella costruzione del palazzo comunale, è stata proposta una datazione più avanzata entro il sec. 12° (Matthiae, 1942). Lo spazio interno a tre navate con pilastri alternati a sezione quadrangolare e circolare, transetto e tre absidi, è comunque per molti aspetti frutto di trasformazioni da porre intorno alla metà del sec. 13° (Matthiae, 1942; Panza, Ferretti, 1981). A questa fase vanno ricondotte le coperture della navata centrale (a tetto sorretto da arconi trasversali), del transetto e del coro (con volte costolonate), delle navate laterali (con volte a crociera).
In corrispondenza della parte absidale si sviluppa la cripta, consacrata nel 1255, che custodisce le reliquie di s. Magno e che conserva, insieme a una ricca decorazione pittorica, un pavimento datato al 1231, opera di Cosma di Jacopo e dei figli Luca e Jacopo, ben conservato nei propri caratteri originari. Il pavimento della chiesa, opera dello stesso artefice e terminato entro il 1227, è stato invece oggetto di un ampio rifacimento seicentesco. Nel presbiterio si trovano il ciborio duecentesco e il candelabro pasquale (due sfingi e due leoni sorreggono una colonna tortile sulla quale è un uomo con una patera sul capo); quest'ultimo, insieme al seggio episcopale, affiancato da due leoni e ornato da un disco con la funzione simbolica di nimbo, datato 1263, è opera di Vassalletto (Claussen, 1987).
Sul finire del sec. 13° fu annessa al lato sinistro della cattedrale la cappella di famiglia dei Caetani, all'interno della quale si trova un sepolcro a baldacchino di forme gotiche realizzato dai fratelli Adeodato e Giovanni di Cosma (1299 ca.), in cui sono collocati due sarcofagi cosmateschi di epoca precedente (Sibilia, 1936; Fenicchia, 1948; Lydholm, 1982). All'opera degli stessi artisti viene riferita la statua di Bonifacio VIII posta in un tabernacolo sulla facciata sud della cattedrale (Lydholm, 1982).
Il campanile, terminato nel 1141, sorge isolato di fronte alla cattedrale; recenti restauri hanno notevolmente rimaneggiato le aperture (un ordine di monofore, uno di bifore e tre di trifore).
Il ruolo di modello svolto dalla cattedrale in un periodo successivo ai lavori della metà del sec. 13° è desumibile dall'esame delle soluzioni spaziali e formali adottate nelle chiese minori di A., che in gran numero furono costruite o ristrutturate in questo periodo. La maggior parte delle strutture ecclesiastiche di origine medievale è stata soggetta a radicali trasformazioni o demolizioni, che consentono oggi di risalire all'aspetto primitivo unicamente attraverso testimonianze storiche. Conservano ancora significativi elementi riferibili alla fase medievale le chiese di S. Andrea, costruita contemporaneamente alla cattedrale, e quella di S. Angelo, con abside pensile e navata centrale scandita da pilastri alternatamente quadrati e cilindrici, entrambe fornite di campanile in facciata e ristrutturate verso la metà del sec. 13° (Panza, Ferretti, 1981).
Il palazzo comunale (1159-1163), che sorge all'inizio del nuovo tratto della via Maggiore, è attribuito all'architetto Giacomo da Iseo, di passaggio nel 1159 come ambasciatore di Brescia presso Adriano IV, ma fu completamente ricostruito intorno alla metà del sec. 13° (Panza, Ferretti, 1981). Vi si apre un grande passaggio con travature lignee sorrette da archidiaframma, che permette il collegamento fra la via Maggiore e una piccola piazza su cui si eleva il prospetto settentrionale, meglio conservato.Gregorio IX fece erigere, nel primo quarto del sec. 13°, un palazzo, acquistato in seguito (1297) da Pietro Caetani (Panza, Ferretti, 1981). Una parte della critica ne riferiva la costruzione a Bonifacio VIII (Marchetti-Longhi, 1920; Zander, 1951; Sibilia, 1967), al quale sono da attribuire piuttosto notevoli rifacimenti all'interno della struttura. Attualmente inglobato in un monastero cistercense, l'edificio mostra il susseguirsi delle numerose fasi costruttive; Carbonara (in corso di stampa) ne individua quindici, di cui nove da situare tra i secc. 10°-11° e gli inizi del 14° secolo. Attraverso ampliamenti e rifacimenti, partendo dall'accorpamento di due case romaniche, il palazzo ha assunto l'aspetto attuale. La presenza costante di un sistema di copertura ad arconi trasversali deve essere con ogni probabilità ricondotta all'influenza esercitata dai modelli architettonici realizzati dalle maestranze cistercensi che operarono nelle abbazie di Fossanova e Casamari, influenza alla quale rimandano anche gli elementi di scultura architettonica, eseguiti durante la trasformazione dell'edificio attuata a partire dalla seconda metà del 13° secolo. L'applicazione di questi elementi, insieme alla datazione precoce del complesso, consente di ritenerlo una tappa significativa nel processo di rapida diffusione del nuovo linguaggio gotico, nella particolare accezione che questo assunse all'interno dei cantieri cistercensi del Lazio.
Anche nel seicentesco palazzo Trajetto sono stati individuati resti di costruzioni medievali, riferiti (Panza, Ferretti, 1981) all'iniziativa di Bonifacio VIII intorno all'ultimo quarto del sec. 13° o a Pietro Caetani (Marchetti-Longhi, 1920; Zander, 1951; Sibilia, 1967). Il lato settentrionale è la parte più compatta e omogenea del complesso: caratterizzato da alte arcate a collegamento degli speroni, può essere messo in relazione non solo con l'arte cistercense borgognona e italiana del sec. 13°, ma anche con i resti di strutture romane visibili ad A. stessa.
Bibliografia
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di A. Bianchi
Nonostante la città possieda opere di grande importanza per la pittura medievale, non è possibile individuare in A. i caratteri di una scuola pittorica originale. Per la storia della pittura la sua importanza è connessa alla posizione geografica, tra la zona di influenza papale e il regno dell'Italia meridionale, e al notevole ruolo politico giocato dalla seconda metà del sec. 12° alla fine del 13°, legato anche al fatto di aver dato i natali a quattro fra i maggiori papi del Duecento: Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241), Alessandro IV (1254-1261), Bonifacio VIII (1294-1303). L'arte testimoniata nella città è da ricondurre sostanzialmente all'area romana, però non senza elementi che indirizzino verso il mondo italo-meridionale.
Il monumento più importante è la decorazione della cripta della cattedrale, una delle massime testimonianze della pittura medievale preassisiate. La cattedrale fu costruita dal vescovo Pietro di Salerno fra il 1072 e il 1102 sopra una precedente chiesa dei secc. 8°-9° e la sua cripta, triabsidata, a tre navate trasversali, coperta da ventuno volticine su colonne, ospita un complesso di affreschi di oltre m2 500, giunto quasi completamente integro. La decorazione comprende cicli agiografici relativi ai santi locali Magno e Secondina, un ciclo apocalittico (abside centrale, pareti interabsidali e volte prospicienti), Storie dell'arca dell'alleanza e di Samuele, soggetti particolari (Elia ed Eliseo, Abramo e Melchisedec, Angeli, Tetramorfi, ecc.) e una inusuale rappresentazione della struttura del mondo (Microcosmo e Macrocosmo, Diagramma degli elementi, Ippocrate e Galeno, ecc.) nello spazio prospiciente uno degli ingressi.
Pietro Toesca, autore dello studio più importante su questa decorazione (1902), ne indicò il periodo di esecuzione nel secondo quarto del sec. 13° basandosi sull'esistenza di alcune epigrafi relative a lavori realizzati nel 1231 (rimozione dell'altare di s. Magno), sulla consacrazione del 1255 e sulla certezza di datazione al 1228 degli affreschi della cappella di S. Gregorio al Sacro Speco di Subiaco, dove individuò uno degli artisti attivi nella cripta. Divise il lavoro fra tre personalità: il Maestro delle Traslazioni, autore della maggior parte della decorazione (zona absidale, intera navatella prospiciente, Microcosmo e Macrocosmo, ecc.), il Maestro Ornatista e il Terzo Maestro, all'opera su buona parte delle altre due navatelle e sulla parete d'ingresso. Del primo individuò il contesto culturale in ambito romano, ponendolo in relazione a lavori quali l'abside di S. Silvestro a Tivoli e giudicando la sua opera una discendenza dalle migliori espressioni dell'arte romana a cavallo tra il sec. 11° e il sec. 12°, quali gli affreschi della chiesa inferiore di S. Clemente e quelli di Castel Sant'Elia presso Nepi. Pose l'Ornatista in rapporto alla corrente bizantineggiante presente a Roma attorno al cantiere dell'abside di S. Paolo f.l.m. - cui lavoravano tra il secondo e il terzo decennio del sec. 13° artisti veneziani - e ne vide i riflessi nell'oratorio di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati a Roma (1246). Del Terzo Maestro, quello all'opera anche a Subiaco, indicò la cultura nella più eletta tradizione dell'ellenismo bizantino, ponendolo fra i precursori degli esiti cavalliniani.
La cronologia di Toesca è stata successivamente accettata da tutta la critica, al di fuori di Van Marle (1921), che datò il Maestro delle Traslazioni al tempo di Alessandro III (1159-1181) e di Boskovits (1979), che ne ha proposto la retrodatazione al primo decennio del 12° secolo. Nel saggio di quest'ultimo studioso è riportata la bibliografia completa, nonché le varie proposte di attribuzione di altre opere ai tre artisti (Maestro delle Traslazioni: Sacramentario anagnino, Roma, BAV, Arch. S. Pietro, F. 13; Maestro Ornatista: affreschi di S. Nicola a Filettino; Terzo Maestro: tavola del S. Francesco conservata a Parigi, Louvre; tavola della Madonna con il Bambino già nella Coll. Stoclet di Bruxelles).
Negli affreschi, dove convivono correnti pittoriche molto differenziate, i problemi di cronologia sono strettamente connessi a quelli stilistici. È quindi di essenziale importanza la certezza di datazione al secondo quarto del sec. 13° per il Terzo Maestro, l'artista senz'altro più moderno dei tre, perché pone in anni precedenti la metà del secolo fatti che saranno importanti anche per gli sviluppi dei decenni successivi. Esente dall'espressionismo di marca tardocomnena che allora era diffuso nella pittura monumentale italiana sull'onda delle imprese del duomo di Monreale e del cantiere di S. Marco a Venezia, questo pittore, o meglio una delle personalità che ne compongono la figura - quella attiva sulle volte nelle raffigurazioni storiche - non sembra possa essere definito bizantineggiante neanche in senso lato. Tale è la mano che ha dipinto i santi sulla parete d'ingresso (la stessa presente a Subiaco) ma non il pittore delle Storie dell'arca e di Samuele, portatore di un naturalismo e di una capacità di resa drammatica a pieno titolo occidentali. A cominciare da Longhi (1948), che riservò a questo artista un apprezzamento pienamente positivo sottolineandone la lontananza dagli influssi bizantini e giudicandolo un precursore del Maestro di S. Martino, sino a Demus (1968) e a Bologna (1969), la pertinenza occidentale è stata riconosciuta come giusta chiave di interpretazione della sua arte, anche se a tutt'oggi non è possibile indicare un contesto certo al di là di un generico riferimento italo-meridionale e federiciano (Bologna, 1969). Non convincenti risultano invece le affermazioni di Boskovits, che ne ha proposto la provenienza romana alla confluenza di influssi di lontana origine monrealese per il tramite della Dormitio Virginis di S. Maria in Grotta a Rongolise (Caserta) e di elementi umbri tratti dall'ambito di Alberto Sotio.
Più comprensibile nei riscontri coevi è il Maestro Ornatista, generalmente riferito al bizantinismo venezianeggiante romano del secondo-terzo decennio, addirittura potendosi ipotizzare una sua attività come mosaicista nel cantiere stesso di S. Paolo (Boskovits, 1979). La sua pittura, dominata da un linearismo che lo allontana nettamente dal convinto naturalismo del Terzo Maestro, ha riscontri persuasivi negli affreschi di Filettino e in quelli, inferiori per qualità, dei Ss. Quattro Coronati.
È però per il Maestro delle Traslazioni che la questione cronologica riveste il ruolo più importante. È emersa più volte nella critica una certa problematicità nell'inserirlo nel quadro del Duecento, dato che i suoi referenti stilistici più importanti e persuasivi vanno ricercati in opere dell'inizio del sec. 12°, nel cui ambito ben si inserisce, tra l'altro, il suo repertorio decorativo di sapore paleocristiano. Lo stesso Garrison (1956), nel riconoscergli a piena ragione il citato Sacramentario vaticano, sottolineò che i caratteri paleografici del codice erano estranei al sec. 13°, ben inserendosi invece nel precedente. Da ciò la proposta di Boskovits (1979) di situarlo direttamente nel primo decennio del sec. 12° - negli anni cioè in cui si portava a compimento la fabbrica della cattedrale - e di vedervi l'autore di una originaria intera decorazione, successivamente solo in parte rifatta dal Terzo Maestro e dall'Ornatista. Questa ipotesi, che comporta la retrodatazione al primo quarto del sec. 12° anche dell'abside di S. Silvestro a Tivoli, potrebbe, se accertata, portare a una semplificazione del quadro dell'arte romana della prima metà del Duecento e accorpare in un unico contesto, al principio del sec. 12°, opere di coerente cultura pittorica.
Ostano però seri problemi inerenti soprattutto la cripta anagnina, legati ai motivi di un rifacimento solo parziale di un'opera di grande complessità iconografica, nel cui contesto è impossibile intervenire senza sconvolgerne il significato complessivo. Peraltro, dato che il Maestro delle Traslazioni è autore della prima delle volte occupate dalle Storie dell'arca, è evidente che il tema era sviluppato già nell'originaria ipotetica decorazione: si sarebbe trattato quindi, almeno per questa parte dell'opera, di un mero rifacimento che avrebbe ragioni esclusivamente di carattere stilistico, fatto piuttosto difficile da accettare.
Al Terzo Maestro, comunque, già Toesca (1902) e poi il resto della critica ha riferito altri affreschi posti in vari ambienti della cattedrale: Cristo fra i ss. Luca e Cataldo nel portico adiacente il lato settentrionale della cripta, Madonna in trono con il Bambino su un pilastro della chiesa superiore, Cristo fra santi nel corridoio tra la cripta e l'oratorio di S. Tommaso.
Questo ambiente, in cui il santo inglese canonizzato nel 1173 è rappresentato a lato del Cristo in trono sulla parete di fondo, è ornato da un ciclo di affreschi molto rovinati comprendente un piccolo Giudizio con la rappresentazione dell'episodio delle Vergini savie e delle Vergini stolte sulla parete d'ingresso, da un ridotto ciclo vetero e neotestamentario sulla volta e sulla parete settentrionale, dai dodici apostoli, sette santi benedettini, ecc. sulla parete meridionale. Attribuiti generalmente a un seguace del Maestro delle Traslazioni e datati quindi alla stessa epoca della cripta, è stata indicata per essi da Boskovits (1979) una datazione all'ultimo quarto del sec. 12°, con un riferimento alla corrente umbra di cui sono esempio le pitture di S. Paolo inter vineas presso Spoleto.Altri dipinti murali della cattedrale: Cristo in piedi fra due sante nell'abside della c.d. cappella della Sacrestia (tra il sec. 12° e il 13°); Madonna in trono con il Bambino tra santi e donatori della tomba Caetani (porzione di fabbrica realizzata a partire dal 1292), databile all'epoca di Bonifacio VIII (1294-1303); Madonna con il Bambino fra santi della lunetta sovrastante l'ingresso principale, riferibile all'ultimo decennio del 13° secolo. Una Madonna con il Bambino e santi e un Cristo in trono e santi posti nel corridoio che dalla cripta conduce all'oratorio di S. Tommaso e una Madonna con il Bambino affrescata sul portico adiacente alla cripta concludono i dipinti murali della cattedrale e sono da riferirsi ad artista debitore del Terzo Maestro, ma a esso successivo, al quale appartengono persuasivamente anche gli affreschi duecenteschi di S. Pietro in Vineis.
Questa chiesa, realizzata nella prima metà del sec. 12° poco al di fuori di A. e appartenuta nel sec. 13° a una comunità di Clarisse, presenta, in un ambiente posto al di sopra della navatella destra, diversi affreschi sovrapposti, il cui elemento più importante è una Passione conclusa con la Stimmatizzazione di s. Francesco nella quale è presente s. Chiara, canonizzata nel 1255. La datazione di questo ciclo al terzo quarto del sec. 13° e il suo riferimento ad autore sulla scia del Terzo Maestro sono elementi importanti per la comprensione degli sviluppi della pittura laziale del secondo Duecento, dato che a partire da Bertelli (1970) si è quasi unanimemente accettato di accostare alla mano di questo pittore il primo livello degli affreschi dell'abbazia di S. Nilo a Grottaferrata, la quale risulta in questo modo inserita in un continuum che parte dal terzo-quarto decennio del secolo.
In questo stesso ambiente e nel sottostante lato dell'antico chiostro sussistono ancora molte sovrapposizioni dei secc. 14° (Stimmatizzazione di s. Francesco, Crocifissione, Madonna con il Bambino e donatrice) e 15° (S. Pietro in trono e donatrice, ecc.), queste ultime vicine alle quattrocentesche Storie di s. Benedetto della chiesa inferiore del Sacro Speco di Subiaco, generalmente poste in rapporto con l'ambiente umbro di Ottaviano Nelli da Gubbio. Nell'area presbiteriale della chiesa, sulla volta e sugli archi adiacenti, restano frammenti di una decorazione probabilmente duecentesca di buona qualità, ma di stile completamente diverso dalla Passione precedentemente descritta, comprendente episodi forse dell'Infanzia di Gesù e di Maria attorno a un angelo a figura intera posto in un clipeo al centro della volta.
Nella chiesa di S. Andrea e nel Tesoro del Duomo si conservano le uniche tre opere su tavola della città. In S. Andrea un trittico del Salvatore con Maria e S. Andrea all'interno (ai piedi di quest'ultimo il donatore Gregorius Francisci), S. Magno e S. Secondina all'esterno degli sportelli, un'opera generalmente datata tra l'inizio e il terzo decennio del sec. 14° e posta in relazione ai modi romani di fine sec. 13°: torritiani e cimabueschi secondo Toesca (1951) - il S. Magno presenta effettivamente marcati caratteri cimabueschi - che la poneva in rapporto alla volta della chiesa inferiore del Sacro Speco di Subiaco; molto vicina agli affreschi di S. Maria in Vescovio secondo Maltese (Arte nel Frusinate, 1961).
Nel Tesoro del Duomo è conservata una tavola con brani superstiti di pittura raffigurante una Madonna con il Bambino (parte centrale di un trittico). A essa si riferisce un'epigrafe murata su un pilastro della chiesa che ne ricorda la renovatio avvenuta nel 1316 per iniziativa del canonico Pietro Guidone, il quale vi si fece ritrarre come donatore. Riferita da Ilaria Toesca (1972), che ne diresse il restauro nel 1971, ad ambiente cavalliniano vicino all'autore dell'affresco con la Morte della Vergine in S. Lorenzo Maggiore a Napoli - per Bologna (1969) di Montano d'Arezzo - l'immagine odierna sostituisce una più antica di cui non restano che vaghe tracce e il cui modello è forse ravvisabile nella Madonna con il Bambino affrescata dal Terzo Maestro su un pilastro della stessa chiesa e che rappresenta Maria Regina, secondo un'iconografia non più attuale all'epoca della sua esecuzione. Leone de Castris (1986) ha recentemente indicato l'autore della tavola nell'artista del secondo livello degli affreschi di Grottaferrata che, secondo lo studioso, documentano l'evoluzione dei modi cavalliniani tra il secondo e il terzo decennio del 14° secolo. Una seconda opera su tavola del Tesoro, fortunatamente conservatasi in modo migliore della precedente, è la Madonna con il Bambino e il donatore Rainaldo, datata da un'iscrizione al 1325. La tavola, che ha il fondo d'oro tempestato di gigli angioini, è stata riferita da Toesca (1951) in poi alla stessa mano dell'affresco con il vescovo s. Pietro e sante del 1324 nella cripta, e generalmente posta in rapporto alla cultura napoletana dopo un giudizio di generico riferimento cavalliniano di Toesca stesso. Bologna (1969), sottolineando gli stretti legami con il mosaico di S. Restituta in Napoli firmato da Lello da Orvieto e datato 1322, ha proposto per entrambe l'attribuzione all'artista umbro, mentre Boskovits (1983) vi ha riconosciuto la mano di Pietro Cavallini.
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di A. Lauria
Il nucleo più consistente degli oggetti d'arte compresi nella raccolta risale alla generosa elargizione di Bonifacio VIII (Boldetti, 1720), mentre non si conserva traccia alcuna delle donazioni fatte alla cattedrale dai pontefici Leone IV (847-855), Innocenzo III (1198-1216), Alessandro IV (1254-1261), attestate dal Lib. Pont. (Sibilia, 1914).
Relativamente ai tessuti, di notevole rilevanza è il fatto che nel Tesoro sia presente almeno un esemplare di ciascuno dei principali lavori ad ago medievali: ricami in opus cyprense, anglicanum, theutonicum, romanum.
Appartengono al tipo di ricamo che gli inventari medievali denominano opus cyprense una pianeta, un piviale e due dalmatiche. L'intero parato detto 'di Bonifacio VIII' è in tessuto di sciamito purpureo a ricami con filo d'oro. La decorazione, che si snoda secondo un andamento piuttosto regolare, tipico più dei tessuti che dei ricami, presenta uno schema orbicolare, che si estende su tutta la superficie della stoffa e che ingloba grifi, pappagalli affrontati, aquile bicipiti: negli interstizi tra i clipei è presente un motivo decorativo di tipo floreale cruciforme. La denominazione opus cyprense sembra far riferimento al filo d'oro proveniente da Cipro. La tecnica, assai diffusa e apprezzata in Europa, fu imitata anche in Italia, soprattutto in Sicilia, dalle cui manifatture tessili è presumibile provenga il superbo arredo, per il quale pare adeguata una ascrizione alla seconda metà del 13° secolo. Di estremo interesse è lo stolone, probabilmente raffigurante l'Albero di Iesse, che rifinisce la parte anteriore e posteriore della pianeta, sul quale entro riquadri poligonali, formati da un motivo a intreccio, sono inserite figure a mezzo busto.
Nel Tesoro sono poi presenti numerosi esempi di opus anglicanum, ricamo diffuso nei secc. 13° e 14°, originario dell'Inghilterra e frequentamente usato in Francia tra la metà del sec. 13° e la metà del 14°, la cui peculiarità consiste in un disegno regolare che spartisce le superfici mediante archi, riquadri e arcatelle. Uno dei più antichi esemplari presenti ad A. di questo particolare tipo di lavoro ad ago, attribuibile a manifatture inglesi, sembra essere il piviale della Vergine, sulla cui superficie sono raffigurate scene cristologiche e mariane inserite in medaglioni. L'ascrizione al sec. 13° è suffragata dalla presenza del modulo decorativo circolare rifinito da una sottile, triplice profilatura, peculiare dei manufatti inglesi duecenteschi e sostituito successivamente da scomparti architettonici ad archi acuti. L'attribuzione a laboratori anglosassoni sembra la più appropriata anche per la pianeta di S. Nicola, databile anch'essa al sec. 13°, ricavata dalla manomissione di un paramento preesistente (Mortari, 1963, nr. 8). Scene della vita di s. Nicola di Bari sono inglobate in cornici circolari che ripropongono il medesimo schema decorativo utilizzato nel piviale della Vergine, rispetto al quale la pianeta mostra una maggiore accuratezza nell'esecuzione: l'immediato e vivace gusto narrativo che impronta gli episodi è lo stesso che anima le raffigurazioni del piviale, ben lontano dalle cadenze gotiche ravvisabili in un altro esemplare di opus anglicanum conservato nella raccolta, il piviale con Storie di santi. Quest'ultimo paramento è stato ricondotto al suo assetto primitivo nel 1975, nel corso di un restauro che ha seguito l'ipotesi ricostruttiva di Christie (1926). La superficie è suddivisa regolarmente da cornici polilobate che inglobano scene della vita di santi e, nella parte centrale, episodi della vita di Cristo e della Madonna, mentre negli spazi intermedi sono collocate figure di serafini atteggiati in pose diverse. Nel piviale si individua un gusto narrativo più accentuato e vivace che negli altri due esemplari a opus anglicanum, elemento questo che depone a favore di una posticipazione cronologica rispetto agli altri due paramenti di fattura inglese, da circoscriversi alla seconda metà del 13° secolo.
Alla raccolta appartiene anche il paliotto della Beata Vergine e dei santi, caratterizzato da una straordinaria raffinatezza d'esecuzione, frequente nei lavori ad ago dell'Italia centrale nel sec. 13° indicati negli inventari medievali con la dicitura opus romanum. La superficie rettangolare del paliotto è suddivisa in due registri orizzontali: nell'ordine superiore, entro nove arcatelle trilobate, sono inserite l'immagine della Vergine in trono con il Bambino, angeli e figure di santi, mentre nella zona sottostante arcate ogivali circoscrivono la raffigurazione della Crocifissione e scene relative agli apostoli Pietro e Paolo. Il paliotto, che deve considerarsi uno degli esemplari più preziosi di tale tipo di manufatti, palesa la mano di un artista assai colto e aggiornato sui modi delle maestranze attive nell'ambiente romano contemporaneo. Esso offre infatti singolari riscontri iconografici con i perduti cicli di affreschi delle basiliche romane di S. Paolo f.l.m. e S. Pietro, come ha evidenziato Bertelli (1972), che propende per una datazione dell'opera non oltre l'ottavo decennio del 13° secolo.
Di straordinario interesse è poi un altro paliotto conservato nel Tesoro, sul quale si snoda una raffigurazione dell'Albero della Vita: l'evidente misticismo di matrice nordica che impronta la suggestiva rappresentazione, la resa espressionistica dei particolari anatomici delle figure, la presenza di numerose scritte esplicative che corrono sul paliotto, depongono a favore di un'attribuzione dell'opera a maestranze d'Oltralpe, probabilmente germaniche, operanti nel 13° secolo. Nell'elenco dei tessuti si possono annoverare poi quattro mitre, due borse, una stola, un manipolo, databili tra la fine del sec. 12° e il 13° (Mortari, 1963, nrr. 11-14, 16, 17, 19, 20) e alcuni galloni e fasce ricamate probabile risultato di manipolazioni subite dagli arredi stessi del Tesoro.
Oltre agli arredi in stoffa è compresa nella raccolta una vasta campionatura di suppellettili ascrivibili soprattutto ai secc. 12° e 13°, tra le quali tre cassettine in piombo databili tra il sec. 11° e il 12°, due cofanetti e un pastorale in avorio della seconda metà del sec. 12° provenienti dalla Sicilia (Mortari, 1963, nrr. 21-24). Un oggetto di particolare pregio, non destinato però all'uso liturgico, è il cofanetto detto 'di Ercole', opera renana del sec. 13°, che presenta una struttura lignea ricoperta da lamine d'argento lavorate a sbalzo. Raffinata si rivela l'esecuzione di due oggetti liturgici di Limoges, un pastorale smaltato con riccio a guisa di serpente, risalente al 1200 e il cofanetto reliquiario di s. Tommaso Becket con la rappresentazione del martirio del santo, ascrivibile al secondo quarto del sec. 13° e composto da piastre in rame dorato e smaltato. La presenza ad A. dell'urna risulta coerente con la popolarità e la diffusione nel Lazio del culto riservato al santo martire, canonizzato nel 1173 a Segni.
In epoca più tarda rispetto alle datazioni delle opere menzionate si collocano poi un reliquiario in argento dorato risalente al Trecento, due pissidi, di cui una in metallo dorato e l'altra in argento dorato, ascrivibili rispettivamente ai secc. 14° e 15°, una croce in rame dorato rivestita di smalti champlevés (al centro della quale è posta una teca reliquiario con iscrizione contenente, secondo la tradizione, le reliquie della santa Croce), databile al sec. 14°, e un incensiere in argento dorato a base circolare per il quale pare adeguata una assegnazione tra la fine del sec. 14° e gli inizi del 15° (Mortari, 1963, nrr. 27-29).
Nel 1975, in occasione dell'allestimento del Mus. del Duomo, sono stati inglobati nella raccolta una Madonna su tavola del sec. 13° (Toesca, 1971-1972), un'altra tavola datata 1325 raffigurante la Madonna con il Bambino (Della Pergola, 1945) e una cattedra lignea risalente al Duecento.
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