ANALFABETISMO (dal gr. ἀ[ν] privativo e alfabeto)
È l'incapacità, dai sei anni in su, di leggere e di scrivere nella lingua che si parla. Non equivale a ignoranza, poiché l'analfabeta, può possedere a volte una cultura superiore a quella di chi sedette sui banchi della scuola; ma dell'ignoranza e del corteggio di pregiudizî e d'errori che l'accompagnano, è senza dubbio il più saldo puntello. La storia degli sforzi diretti a porvi rimedio si confonde con la storia dell'istruzione popolare, e rappresenta il maturarsi d'una più chiara coscienza del valore che la cultura assume nell'economia spirituale dell'individuo e dello stato.
Premesse storiche. - L'istruzione popolare, che con l'insegnamento orale era stata sempre promossa dalla Chiesa, ebbe nuovo impulso con l'insegnamento alfabetico nel sec. XVI. Il protestantesimo nel suo principio fondamentale del "libero esame" recava implicita l'esigenza dell'istruzione alfabetica; poiché facendo l'uomo responsabile della sua fede e collocando la fonte della fede nella Bibbia, contraeva l'obbligo di mettere ciascuno in grado di salvarsi mediante la lettura e la comprensione del sacro testo. A sua volta, la reazione cattolica per fronteggiare il proselitismo dell'eterodossia era spinta a promuovere la propaganda delle proprie dottrine: se per mezzo de' suoi nuovi istituti religiosi curò soprattutto l'istruzione media e superiore, non disdegnò quelle forme elementari di cultura, il cui presupposto è l'alfabeto. Prova ne sono le scuole della dottrina cristiana di S. Carlo Borromeo e le scuole pie di S. Giuseppe Calasanzio e dei loro predecessori.
Più libero dalle preoccupazioni teologiche è il Comenio (1592-1671), col quale abbiamo la prima chiara consapevolezza della necessità di estendere l'istruzione a tutti, in quanto egli stabiliva che "tutti i fanciulli di ambo i sessi dal decimo al dodicesimo anno fossero istruiti nelle cognizioni il cui uso si estende a tutta la vita". Di qui alla proposta del rimedio radicale contro l'analfabetismo non era grande il passo. Il conseguente obbligo scolastico, che doveva in tempi più vicini a noi entrare nella legislazione dei popoli civili, ebbe la sua consacrazione giuridica nello staterello di Sassonia-Gotha, dove nel 1642 per opera del Reyer, fervido seguace delle idee comeniane, il duca Ernesto I lo statuì pei suoi sudditi, decretando che tutti i fanciulli, maschi e femmine, dovessero frequentare la scuola dal quinto al quattordicesimo anno, pena un'ammenda. Lo stesso principio, ma con la limitazione dal quinto al decimo anno, sancì in Prussia il re Federico Guglielmo I con editto del 1717, e confermò Federico II. Gli altri governi furono alieni dal battere quella via, e le disposizioni stesse dei principi nominati, lontane per altro dal concetto moderno che l'istruzione è diritto di tutti, furono presso che sterili nella pratica.
Nei paesi cattolici, grazie all'apostolato del Santo francese Gian Battista De La Salle (1651-1719) e de' suoi discepoli, noti sotto il nome di "Fratelli delle scuole cristiane", si determinò un moto considerevole in favore dell'insegnamento popolare, del quale anzi egli proclamò le condizioni della gratuità e della obbligatorietà. Il suo concetto, benché inquadrato in un piano pedagogico in cui predominano l'indirizzo ascetico e la considerazione della cultura elementare come beneficenza, segna un indubbio progresso, il cui valore storico brilla maggiormente, se si pensa che proprio un celebrato pedagogista dell'età dell'illuminismo, il La Chalotais, non dubitò di far carico ai discepoli del De La Salle d'insegnare a leggere e scrivere a gente, la quale, a parer suo, non doveva essere condotta che a disegnare e a maneggiar la marra e la lima. Tuttavia l'insegnamento, di cui si caldeggia e si attua da quei benemeriti religiosi la diffusione, non esce dal dominio dell'iniziativa privata, e pur essendo qua e là appoggiato e favorito dall'autorità civile, ne rimane affatto indipendente.
Su questa posizione e sul pensiero enciclopedistico, al quale pure attingono per più versi, si elevano i napoletani Antonio Genovesi (1712-1769) e Gaetano Filangieri (1752-1788). Il primo avvertì la necessità di aprire in ogni villaggio scuole elementari del leggere e scrivere nella lingua nazionale, e affermò l'interesse dello stato in simile istituzione, che, innalzando il grado di cultura delle masse, avrebbe molto giovato al suo risorgimento economico. Il secondo, estendendo l'educazione a tutti i lavoratori del braccio, la volle obbligatoria e gratuita, data e sorvegliata direttamente dallo stato, perché si foggiassero cittadini ad esso devoti e utili. A parte l'esclusivismo di cui peccano entrambi, e l'astrattismo che giustamente si rimprovera al secondo, il problema teorico dell'educazione popolare ha compiuto con loro molto cammino verso la sua soluzione. La quale si ha finalmente nel concetto ispiratore dei rivoluzionarî francesi, che, strappando al privilegio le sue prerogative anche nel campo culturale, proclamarono il dovere che ha lo stato di istruire tutti i suoi membri, per rispetto alla loro umanità, per metterli in condizione di cooperare alla vita sociale, per cementare la coesione spirituale della nazione.
Col nuovo principio democratico il diritto all'alfabeto è tra i diritti di ogni uomo. All'azione dei popoli si apre così una nuova via, che, sgombrata delle scorie di un'ideologia caduca e d'interessi politici transitorî, non si cesserà di percorrere. Anche spenti i bagliori della grande rivoluzione, non si ha il coraggio di tornare indietro, di accreditare i sofismi di una politica che per regnare più pacificamente consigliasse le tenebre e preferisse governare esseri bruti e selvaggi anziché uomini. Al contrario, fin dai primi decennî del sec. XIX s'inizia praticamente negli stati civili, con più o meno fervore, con più o meno frutto, la crociata contro l'analfabetismo, per l'elevazione spirituale del popolo.
L'analfabetismo italiano. - In questa nobile gara non fu ultima a entrare l'Italia, come quella che per speciali condizioni storiche, sociali, politiche, economiche e geografiche aveva impellenti bisogni da soddisfare. Ma l'azione italiana attraversa due momenti.
L'uno coincide col tempo in cui gli uomini più rappresentativi e previdenti della nazione, dominati dal senso storico e dalla visione della realtà effettuale, si preoccupavano di farsi, con l'istruzione, alleato il popolo sia nel reagire al mondo delle idee forestiere importate dai rivoluzionarî, sia nel preparare il moto per la conquista della libertà e dell'indipendenza. Il problema educativo si complicava così col problema politico; e i propositi che si nutrivano sotto il duplice riguardo, per differenti che fossero, partivano da uno stesso principio, che il popolo, come intuì felicemente Vincenzo Cuoco, è il grande e vero agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, e convergevano al medesimo scopo, l'effettivo miglioramento culturale del popolo. In questa campagna, che si condusse col magistero personale, con libri, con la stampa periodica, nei congressi degli scienziati, e, dove si poté, nelle cancellerie di stato, si accordavano uomini di tendenze opposte, tra i quali basti menzionare il Mazzini, il Cavour, il Rosmini, il Gioberti, il Confalonieri, l'Aporti, il Cattaneo, il Boncompagni, Pietro Gioja, il Lambruschini, il Mayer, il Ridolfi, i Savarese, F. P. Ruggiero. I frutti apparivano nelle istituzioni degli asili infantili, delle scuole di mutuo insegnamento, delle festive, delle elementari, delle tecnologiche, delle scuole pei sordomuti e pei ciechi, dei patronati per le scuole, dei corsi agrarî. Ma la predominante tensione degli animi verso l'agognata meta politica e le difficoltà derivanti dal frazionamento della penisola, dalla diffidenza di alcuni governi, e dalla quietistica resistenza di parecchie popolazioni, impedirono di condurre a fondo e con metodi appropriati la santa battaglia.
L'altro momento comincia dall'atto di costituzione dello stato unitario, quando, dopo lo sforzo prodigioso compiuto, gl'Italiani, facendo il bilancio delle loro forze reali, scopersero le profonde lacune che secoli di umiliazioni e di altri guai avevano scavate in una gran parte della nazione; e si fecero accorti che era indispensabile iniziare subito con armi pacifiche una nuova rivoluzione nell'interno. Si capì che scarso guadagno era l'unità del regime e delle forme di governo, se non si cementava con una generale affinità di pensare e di sentire, con un patrimonio di idee e di sentimenti comune a tutti. La realtà che si trattava di modificare ab imis era quella che nel 1861 il primo censimento del regno rivelava con la spaventosa percentuale di analfabeti da sei anni in su: cioè 74,68%. La percentuale nel 1871 scendeva a 68,8%, nel 1881 a 62,8%, nel 1901 a 48,5%, nel 1911 a 43,1%, nel 1921 a 31%, e nel 1927 (secondo un calcolo approssimativo del Ministero della pubblica istruzione) a 25%. Il miglioramento ottenuto balza chiaro dalla differenza tra il 74,68% del 1862 e il 31% del 1921; e il suo ritmo accelerato sarebbe ancora più confortante, se non esistesse tuttavia un grande squilibrio tra il nord e il sud. La più bassa percentuale è data dalle regioni dell'Italia settentrionale, dove secondo la statistica del 1921 la Venezia Tridentina conta il 2% di analfabeti, il Piemonte il 7%, la Lombardia il 9%, la Liguria il 10%: la più alta si trova nel mezzogiorno e nelle isole, con 53% nelle Calabrie, con 52% nella Basilicata, con 49% nelle Puglie, in Sicilia, e in Sardegna. Il contrasto spiega il fatto doloroso emerso da due statistiche di emigranti analfabeti negli Stati Uniti di America, compiute negli anni 1903-1907 e 1913-1915: nella prima, eseguita su emigrati analfabeti di sedici nazionalità, figurano in testa gl'Italiani del sud con 55%; nella seconda, pur essendo discesi a 41,1%, sono superati soltanto dai Turchi, dai Portoghesi e dai Lituani.
Cause della lenta alfabetizzazione dell'Italia. - L'accennato bilancio alfabetico prova che, in comparazione ad altri popoli civili, l'analfabetismo italiano è più lento a scomparire. Il fenomeno si deve alla diversità delle condizioni in cui si trova il paese, le quali oppongono ostacoli talora insormontabili. Non bisogna dimenticare quale gravosa eredità avessero lasciata al nuovo stato italiano le precedenti amministrazioni del centro, del mezzogiorno e delle isole, dove tutto era non diciamo da rifare, ma da fare; e il fare quanto i bisogni richiedevano trovava sempre un limite nella capacità dell'erario, nei bilanci dei comuni e nella volontà delle popolazioni. Dopo tutto quello che s'è compiuto e si va compiendo, è ancora da lamentare l'insufficienza delle scuole e la disparità della loro distribuzione: inconveniente grave senza dubbio, poiché è costante il rapporto inverso tra il numero delle scuole e il numero degli analfabeti, ma al quale si ripara degnamente solo con un'azione tempestiva e graduale, che non si discosti dalla massima vichiana per cui le cose fuori dell'ordine naturale né vi si adagiano né vi durano. L'assenza di una radicata tradizione della scuola e la mancanza di una coscienza scolastica in molti luoghi ci spiegano come parte della popolazione consideri la scuola un lusso incomportabile col tenore di vita che conduce, e non si dia perciò pensiero di mandarvi i figli. Alla loro incuria corrisponde spesso la trascuratezza o l'indulgenza delle autorità locali, che si astengono dall'applicare la legge al riguardo, e a volte l'indifferenza del maestro o la meschinità dell'edificio della scuola, privo di quanto serve ad allettare gli alunni e a innamorarne le famiglie. La diserzione scolastica è pure favorita dalla deficiente sorveglianza dei genitori che lavorano, o dalla loro necessità di lasciare a casa i figli grandicelli a custodia dei più piccoli.
Queste cause valgono e per la classe operaia e per la classe agricola. Ma ad indurre i campagnuoli a tener poco conto della scuola intervengono insieme ragioni più strettamente connesse col loro mestiere: la facilità pei ragazzi di essere occupati nel lavoro dei campi e della pastorizia, particolarmente in faccende alle quali sono meglio adatti i piccoli; la smania dei contadini di ricavar presto un guadagno dai loro figliuoli; il sistema di prendere in affitto modeste possessioni di terreni, alla cui coltura provvede per economia tutta la famiglia; il costume che, massime nel mezzogiorno, ha il contadino di star fuori al campo tutto il giorno insieme coi suoi e con le bestie, e di tenere a guardia di esse e dei bambini i figli grandicelli. Nelle regioni, poi, dove le famiglie vivono sparse e lontane da ogni centro abitato, negli angoli più remoti delle campagne e delle valli o sui fianchi e nelle gole dei monti, anche le migliori disposizioni verso la scuola cadono per l'isolamento, per le grandi distanze da percorrere, per l'assenza di vie praticabili. Le difficoltà s'aggravano per la gente che le condizioni dei luoghi, il genere del lavoro e il bisogno costringono al nomadismo, come nell'Abruzzo e nel Lazio.
S'intende che la pressione delle cause cospiranti contro l'istruzione obbligatoria è diminuita negli ultimi anni pel concorso di varî fattori, tra i quali vanno ricordate la guerra e l'emigrazione. La prima dimostrò al soldato analfabeta di quale danno per il suo cuore bramoso di corrispondere con la famiglia lontana e trepidante fosse l'ignorare la tecnica dello scrivere; ond'egli, se pure non gli riuscì d'impararla in uno dei corsi improvvisati nelle Case del soldato o negli ospedali militari, è tornato al suo paese col desiderio di possederla o almeno di farla apprendere a' suoi figli. Oltre che per ragioni d'affetto, anche per la tutela d'interessi immediati l'emigrazione valse a suscitare il sentimento della necessità di leggere e scrivere, fattosi più vivo dopo che la nota legge americana del 1919 chiuse le porte degli Stati Uniti agli analfabeti.
Ma nonostante la minor efficacia di altre cause, rimane sempre all'alfabetizzazione il nemico peggiore: la miseria.
Provvidenze legislative. - Per sanare la piaga dell'analfabetismo italiano, la cui eziologia è così complessa, occorrono rimedi di varia natura. Non parliamo di quelli di carattere economico e sociale, i cui riflessi sulla cultura popolare sono innegabili, per la stretta interferenza che passa tra i valori culturali e i valori economici: un rimedio di vasta portata è, p. es., la bonifica idraulica e agraria, che, restituendo alla salute e alla coltivazione vaste zone già infestate dalla malaria e abbandonate, elimina la principale causa del nomadismo e favorisce il formarsi di nuclei etnici stabili, sui quali ê dato alla scuola di compiere l'opera di bonifica umana con frutti più abbondanti e più durevoli. Ma qui dobbiamo limitarci alle provvidenze più specificamente idonee, escogitate dal governo e dai privati per far sì che l'istruzione si diffonda a tutto il popolo.
Fin dai primordî del suo essere, lo stato italiano si preoccupò del problema dell'analfabetismo, e con la legge Casati del 13 novembre 1859, che fu il codice scolastico per mezzo secolo, cominciò a dichiarare obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare, in quanto addossò ai comuni l'obbligo di istituire almeno una scuola di grado inferiore pei fanciulli e un'altra analoga per le fanciulle, e impose ai genitori il dovere di mandarvi regolarmente i loro figli. Ma il fecondo principio così proclamato era più un principio teorico che una norma suffragata da disposizioni che ne garantissero l'efficacia. Mancava la sanzione: sicché la legge, trascurata dai sindaci e dalle autorità scolastiche, rimase lettera morta. A colmare la lacuna si provvide con la legge Coppino del 15 luglio 1877, che estese a tutte le provincie la legge Casati e sancì l'obbligo dell'istruzione elementare inferiore (comprendente tre classi) per tutti i fanciulli dai sei ai nove anni, stabilendo che i genitori inadempienti fossero ammoniti e successivamente puniti con ammenda. Passo inizialmente buono, ma non seguito, per aver valore, da altri più decisi. Il regolamento stesso che il Coppino annunziava, inteso a disciplinare l'applicazione e la riscossione dell'ammenda, non uscì che trent'anni dopo. E furono anni in cui, nonostante i tentativi di riforme studiate e non mai potute condurre in porto da varî ministri, l'istruzione obbligatoria fu lasciata in balia di sé stessa o meglio dei comuni, che, tranne i maggiori, non se ne diedero pensiero. In molti, o per indifferenza, o pel disordine dello stato civile e dell'anagrafe, non si ebbe premura di compilare gli elenchi degli obbligati; e quando, in base alla loro compilazione, venivano redatte dai maestri le note degli alunni iscritti ma non frequentanti, non se ne tenne conto.
Nondimeno, l'inosservanza dell'obbligo si doveva più che ai difetti della legge alle condizioni generali del paese. Né tra le ultime cause era il miserando organico dei maestri, ai quali recò un notevole sollievo la legge Nasi del 19 febbraio 1903, che regolava con utili provvedimenti tutta la materia della loro posizione giuridica ed economica. L'anno dopo, con la legge Orlando dell'8 luglio 1904, si estendeva l'obbligo fino al dodicesimo anno nei centri più ragguardevoli per popolazione, e per gl'inadempienti si comminavano più forti sanzioni, per le quali per altro, solo il 6 febbraio 1908 fu emanato il regolamento. L'allargamento del periodo scolastico obbligatorio trovava il suo corrispettivo nel nuovo assetto della scuola elementare, divisa in un primo corso di quattro anni comune a tutti, e in un secondo di due per coloro che non proseguivano negli studî; ma in pratica incontrò non poche difficolta, dove furono create le sei classi. Lo dimostrano la proroga e la modificazione deliberate per il decreto del 31 agosto 1910, col quale si vietava l'ammissione al lavoro in opifici ai fanciulli che non avessero frequentate le classi obbligatorie del corso superiore, nei luoghi dove esistevano. Ma la legge del 1904 va famosa anche per aver affrontato la questione gravissima dell'analfabetismo tra gli adulti, pei quali prescrisse la creazione di tremila scuole serali e festive (che in realtà furono autorizzate in quel primo anno in numero di 3450), a preferenza nei comuni di più alta percentuale d'analfabeti. Anzi impose l'obbligo di frequentarle a tutti i giovani analfabeti, che alla leva militare fossero stati assegnati alla terza categoria o dichiarati rivedibili o riformati.
Era una prova della crescente consapevolezza che il governo manifestava della gravità del male, benché l'effetto dei rimedî riuscisse alquanto scarso. Rimaneva sempre spaventoso lo squilibrio scolastico tra il nord e il sud: a eliminarlo, nel limite delle possibilità finanziarie, fu votata la legge speciale del 15 luglio 1906 per le provincie meridionali, per alcune del centro e per quelle insulari. In virtù di essa lo stato istituì numerose scuole elementari inferiori nelle borgate o frazioni che raccogliessero quaranta fanciulli obbligati, aprì duemila scuole serali e festive per adulti analfabeti, assunse per due terzi la spesa per sdoppiamenti di classi, stanziò trentacinque milioni per concessioni di mutui per edifici scolastici, e assegnò importanti somme all'assistenza scolastica, agli asili e ad altre istituzioni sussidiarie. Era così additata la via maestra per assicurare e diffondere l'efficienza della scuola. Pure quei provvedimenti si rivelarono parziali e inadeguati, e i risultati della legge speciale non furono molto sensibili. La ragione principale era che la maggior parte dei comuni, o per incomprensione o, specialmente, per i loro bilanci stremati, dimostravano di non sapere né poter dare al servizio scolastico l'estensione e lo sviluppo indispensabili a conseguire lo scopo delle disposizioni legislative. Si volle allora tagliare il male alle radici con la legge Daneo-Credaro del 4 giugno 1911, la quale e per il suo contenuto principale, che è l'avocazione della scuola elementare dai comuni minori allo stato, e per la riforma degli organi centrali e periferici che vi sovraintendono, e per il forte impulso dato con fondi considerevoli alla costruzione degli edifici e alla generalizzazione dei patronati scolastici, rappresenta lo sforzo più cospicuo che fino allora avesse mai fatto l'Italia per assicurare l'adempimento dell'obbligo dell'istruzione e per debellare l'analfabetismo. Basta pensare a quello che fu fatto in conseguenza di essa. In due soli anni dalla sua approvazione si accordarono per gli edifizî scolastici somme equivalenti a quelle concesse prima in venti anni; e in soli tre anni furono istituite più di settemila nuove scuole, quante se ne erano aperte in dieci anni. Che se qualche disposizione non fu tradotta in pratica, come quella che istituiva o riordinava le scuole elementari nelle carceri e negli stabilimenti penitenziarî, fu però applicata quella dell'istituzione o meglio del ripristino delle scuole reggimentali, la cui importanza appare evidente sol che si rifletta che si aveva una media di 53,31 analfabeti su cento reclute negli anni 1874-1879, di 47,38% negli anni 1880-1891, di 41,06% negli anni 1892-1898, di 37,54% negli anni 1899-1904: discesa consolante, ma che tuttavia non dispensava da amare considerazioni.
Grandemente si avvantaggiò senza dubbio la diffusione della cultura popolare nel decennio in cui ebbe vigore quella legge, la quale però non risolveva il problema dell'analfabetismo nella totalità de' suoi aspetti spirituali e materiali. All'ardua impresa, ma con ben altro concetto filosofico e con piena coscienza della funzione educativa dello stato, si accinse il governo fascista mediante la riforma Gentile, che resta la pietra angolare della legislazione scolastica del nuovo regime. Coi decreti del 1° ottobre e 31 dicembre 1923 non solo fu riaffermato il principio della gratuità, protratto l'obbligo scolastico, secondo i luoghi, fino al quattordicesimo anno ed esteso per la prima volta in Italia ai ciechi e ai sordomuti, e stabilite più gravi sanzioni (ammenda da lire due a lire cinquanta per gl'inadempienti; ammenda doppia pei datori di lavoro che occupino nella loro azienda fanciulli che non abbiano osservato l'obbligo; e altre disposizioni contenute nell'art. 17 del decreto 31 dicembre citato), ma, quel che più importa, fu ravvivata la scuola del popolo con una riorganizzazione più rispondente ai suoi fini e alla natura dell'alunno. L'istruzione elementare è stata ripartita in tre gradi: preparatorio, inferiore, superiore. Il primo, della durata normale di tre anni, comprende le scuole materne o asili, dov'è accolta l'infanzia che non ha ancora raggiunto l'età dell'obbligo scolastico; il secondo, di tre anni, e il terzo, di due anni, costituiscono l'insegnamento elementare propriamente detto: oltre il quale si aprono i corsi integrativi di avviamento professionale (classi sesta, settima e ottava), sostituenti il corso popolare della legge Orlando, e obbligatorî dove sono istituiti. La scuola elementare non è più subordinata alla secondaria attraverso l'esame di maturità; e il suo programma, sgombro di quel contenuto razionalistico ed enciclopedistico che l'aveva prima aduggiato, ha preso le mosse dalla concreta personalità dell'educando per condurlo a una consapevolezza sempre più chiara e più ampia di sé e del suo mondo. Gl'insegnamenti che vi si impartiscono sono i più acconci a coltivare tutte le inclinazioni e forme di interesse conoscitivo estetico e morale; e ad essi, in conformità dei principî cui la scuola s'informa, presiede quale fondamento di tutta l'istruzione l'insegnamento religioso. Con tale visione organica e armonica di educazione integrale il fanciullo è predisposto all'amore del sapere fin dai teneri anni; entrato nella scuola, lungi dal sentirvisi spiritualmente a disagio è spinto ad amarla, a non disertarla, perché vi trova senza contrasto i mezzi agevoli di sviluppo della propria sé il sentimento del valore della cultura, che, mentre affina le sue attitudini di lavoro, gli apre più vasti orizzonti e lo inserisce meglio nella vita della regione e della nazione.
Inoltre la legge Gentile, sia per far giungere a tutte le popolazioni italiane i benefici della scuola, sia per curare più efficacemente gli adulti che l'avevano disertata, ha accolto nel suo ordinamento un valido istituto, che, sotto il nome di "Comitato contro l'analfabetismo", riassume e coordina le iniziative private più benemerite e più agguerrite nella lotta contro questa piaga nazionale.
Provvidenze private e loro coordinamento. - Da tempo infatti attendevano a diffondere l'alfabeto, specialmente tra gli adulti, alcune associazioni, la cui opera si era rivelata efficacissima. Veri miracoli compiva dal 1904 l'associazione "Le scuole per i contadini dell'Agro romano e delle Paludi Pontine", sorta dall'apostolato di Angelo Celli e di Giovanni Cena, alla quale si deve l'istituzione in Italia, ma con gli opportuni adattamenti alle diverse condizioni ed esigenze etniche e locali, di quel tipo di scuola che già aveva tanto giovato a diffondere l'istruzione e a distruggere l'analfabetismo nelle immense regioni della Finlandia e della Scandinavia: vogliamo dire le scuole ambulanti, con materiale smontabile, che non aspettano l'alunno, ma lo cercano e lo accompagnano sul posto del lavoro. Con tale criterio predominante, il comitato aveva aperto pei contadini dell'Agro romano e delle Paludi Pontine scuole serali, diurne, festive ed estive, il cui numero crebbe da 1 nel 1904 a 3 nel 1906-1907, a 7 nell'anno dopo, a 15 nel 1908-1909, a 62 nel 1914, a 72 nel 1916-1917, a 73 nel 1921-1922. Si pensò che quanto era stato iniziato così felicemente nella campagna romana poteva applicarsi per altre categorie di lavoratori, nei cantieri, sui treni, sulle navi, nei boschi, sui monti; e la prova fu subito fatta, aprendo dal 1906 scuole serali nei cantieri della direttissima Roma-Napoli per gli operai che lavoravano in quella costruzione. L'esempio fu pure imitato in Abruzzo, dove a cominciare dal 1908 si stabilirono corsi estivi pei pastori che lasciano con le mandrie la pianura e cercano gli alti pascoli.
Missione non specificamente scolastica, ma fiancheggiatrice della scuola con la fondazione di asili, di biblioteche popolari, di varie opere d'assistenza, andava svolgendo l'Associazione nazionale per gl'interessi del Mezzogiorno, fondata nel 1910 dal senatore barone Leopoldo Franchetti. E la Società Umanitaria di Milano, mirante all'istruzione e all'educazione professionale del popolo, aveva esteso la sua attività anche nel campo scolastico con insegnamenti elementari, con educatorî e ricreatorî per orfani, e dalla provincia di Milano aveva spinto la sua espansione nelle provincie pugliesi e nelle terre liberate. Il Consorzio nazionale Emigrazione e Lavoro, sorto per l'assistenza morale e civile degli emigranti, aveva loro aperto in Terra di Lavoro brevi corsi di alfabeto. Il Gruppo d'azione per le Scuole del popolo, che intese in origine a dar incremento con alto indirizzo spiritualistico alla cultura dei maestri in Lombardia, aveva allargato il suo compito all'educazione delle campagne in tutti i suoi aspetti, cominciando dalla scuola rurale, di cui intese a migliorare le condizioni con una multiforme attività che andava dai sussidî didattici all'arredamento, dalle bibliotechine agli abbellimenti, dalle lezioni e proiezioni alla costruzione di edifici.
In queste e in altre istituzioni analoghe era un magnifico fervore di opere per la bonifica intellettuale d'Italia, con mezzi e metodi che, nonostante le differenze dei motivi ispiratori e delle pregiudiziali ideologiche, miravano tutti alla stessa meta. Tale lavorio divenne più intenso dopo la guerra, tanto che il governo, persuaso ormai dell'improrogabile necessità di spiegare un'azione più adeguata contro l'analfabetismo, pensò di valersene, coordinando quelle varie attività in un organo autonomo, finanziato e controllato dallo stato, ma sciolto dalle allentatrici pastoie della burocrazia e più svelto nelle sue articolazioni funzionali. Così, per non parlare dell'Ente per l'istruzione degli adulti analfabeti, che, creato dal ministro Baccelli con la legge del 2 settembre 1919, non ebbe modo di funzionare, venne costituita mediante la legge Corbino del 28 agosto 1921 l'Opera contro l'analfabetismo, diretta e amministrata da un comitato di otto membri, quattro di nomina ministeriale e quattro in rappresentanza delle associazioni culturali prescelte, che furono: l'Associazione nazionale per gl'interessi del Mezzogiorno, incaricata per la Calabria, la Basilicata, la Sicilia e la Sardegna; le Scuole per contadini dell'Agro romano e delle Paludi Pontine, a cui furono affidate la Toscana meridionale, le Marche, l'Umbria, il Lazio e gli Abruzzi; il Consorzio nazionale Emigrazione e Lavoro, per la Campania e il Molise; la Società Umanitaria, per le Puglie. Compito precipuo era di combattere l'analfabetismo negli adulti e nelle popolazioni sparse e fluttuanti, con aprire scuole diurne, serali e festive, e corsi invernali ed estivi, nei luoghi più opportuni, e preferibilmente nelle regioni di alta percentuale d'analfabeti.
Ma l'azione degli enti delegati si limitava a una porzione d'Italia, precisamente a trentacinque provincie. Occorreva estenderla a tutto il regno, e inoltre assicurare la scuola a centri che, secondo le leggi scolastiche sul numero degli alunni, non avrebbero potuto averla o potevano perderla. A ciò provvide il ministro Gentile, con la legge del 31 ottobre 1923, con la quale, trasformando l'Opera nel più ampio Comitato contro l'analfabetismo, vi incluse dieci associazioni di cultura, abbraccianti, per una più ragionevole distribuzione di zone, l'Italia intera. Oltre le quattro nominate, delle quali l'Umanitaria ebbe a sua nuova destinazione il Veneto e la Venezia Giulia, le altre sei sono: 1) l'Opera nazionale per l'Italia redenta, con l'assegnazione della Venezia Tridentina; 2) il Gruppo d'azione per le scuole rurali, per il Piemonte; 4) il Comitato ligure per l'educazione del popolo, per la Liguria; 5) l'Ente nazionale di cultura, per l'Emilia e la Toscana; 6) l'Ente pugliese di cultura, per le Puglie. Il numero è ora cresciuto, dopo che l'Associazione nazionale per gl'interessi del Mezzogiorno rinunziò con lettera del 31 marzo 1928 al mandato per la gestione delle scuole; poiché a succedervi furono delegati altri Enti, cioè, per la Sardegna l'Ente di cultura ed educazione della Sardegna, per la Basilicata l'Ente pugliese di cultura, per la Calabria e la Sicilia l'Opera nazionale Balilla. Oltre il consueto compito di aprire e amministrare le scuole per adulti analfabeti nelle forme convenute col commissario del comitato, gli Enti hanno la delega, rinnovabile ogni cinque anni, ma revocabile in ogni tempo dal potere centrale, di gestire le scuole diurne rurali non classificate, che sono di due specie: le cosiddette provvisorie, che, pur essendo identiche per contenuto e finalità didattiche alle classificate, sono frequentate da non più dì quaranta e da non meno di quindici alunni, e le sussidiate, quelle cioè che si giudicasse di istituire per quei minimi nuclei di popolazione che per la loro esiguità dànno alla scuola meno di quindici obbligati. In causa del nuovo mandato che le mette in maggiore contatto con la vita del popolo e co' suoi bisogni, le associazioni delegate hanno più occasioni di svolgere tutto un complesso di opere sussidiarie della scuola, comprendenti asili, refezioni, colonie marine o montane, assistenza sanitaria, biblioteche, corsi di cultura magistrale, corsi professionali. La libertà di cui godono, dentro i limiti del controllo e delle finalità dello stato, consente loro di far giungere i benefici del sapere e della beneficenza là dove la pesante macchina dello stato non potrebbe.
Opere di assistenza scolastica. - I cenni finali del paragrafo precedente hanno anticipato un argomento che meriterebbe una trattazione a parte: l'assistenza solastica. La quale è il corrispettivo inscindibile dell'obbligo dell'istruzione elementare, e sebbene si svolga fuori della diretta ingerenza del governo, trova in esso un incoraggiamento e un aiuto. Sta bene l'obbligo e la gratuità della scuola: ma che fare quando la miseria impedisce al fanciullo di adempiere quell'obbligo, di usufruire di quel beneficio? È necessario fornirlo dei libri e degli oggetti di cancelleria, somministrargli vestiti, calzature, refezioni, fornirgli il modo di rinfrancarsi nella salute, aiutarlo nello studio oltre la scuola, sottrarlo con giuochi e svaghi ai pericoli della depravazione. Ecco le forme più ordinarie dell'assistenza scolastica, a cui si sono aggiunte le cooperative scolastiche, le biblioteche scolastiche, la mutualità scolastica, il doposcuola: tutto un vasto campo che si apre alla carità privata e alla sollecitudine dei maestri, dove lo stato non può entrare che con incitamenti, con dotazioni, con leggi regolatrici e coordinatrici delle varie iniziative. Un primo e timido cenno del suo intervento si trova nel regolamento unico del 1888, che suggeriva l'istituzione dei patronati scolastici, formati di persone ragguardevoli. Più rigoroso appello al buon volere di tutti, perché sorgessero le istituzioni sussidiarie della scuola, venne dalla circolare 8 aprile 1897 del ministro Gianturco, che sortì un grande effetto, se è lecito congetturare dal numero di 844 patronati che si contarono diciotto mesi dopo la sua pubblicazione. Ma la prima affermazione legislativa dell'assistenza scolastica, sia pure sotto forma di una facoltà consentita anzi che di un obbligo imposto ai comuni, si ebbe con la legge Orlando dell'8 luglio 1904. Di tutte le istituzioni di assistenza la più importante è il patronato scolastico, che si può dire riassuma tutte le manifestazioni della beneficenza indirizzata alla scuola: ché suo scopo precipuo è di aiutare gli alunni, provvedendo ai loro bisogni di scarpe, vestiti, libri, quaderni, ecc., e spesso di pane. Tuttavia la sua sfera d'azione più si svolge là dove forse meno urge il bisogno, cioè nei grandi centri, mentre nei comuni minori, ma più bisognosi, o non esiste o fa una vita così stentata, che non giova gran che alla scuola e alla famiglia.
Ma a tutte queste forme di assistenza è destinata a dare un orientamento di maggiore adeguatezza ai bisogni e di più aderente conformità alle finalità scolastiche la giovanissima Opera Nazionale Balilla. Fiancheggiando con la sua esuberante vitalità la scuola e le opere esistenti in favore della scuola, e creandone delle nuove, essa è per divenire una grande alleata e promotrice dell'alfabetismo.
Così tutte le forze vive della nazione sono oggi maggiormente impegnate nella lotta che l'Italia combatte da quasi tre quarti di secolo. Dall'accelerato processo di diffusione dell'alfabeto nella penisola e dalla più effettiva coscienza che sotto il segno del littorio lo stato ha dei suoi doveri educativi verso i cittadini, si può arguire prossima la vittoria dell'istruzione popolare, per cui l'analfabetismo italiano dovrà essere relegato tra i ricordi storici.
Bibl.: Quanto ai principî generali, cfr.: V. Cuoco, Educazione popolare, articoli del 1804 riprodotti nelle raccolte moderne de' suoi scritti; R. Lambruschini, Sull'istruzione del popolo, memoria del 4 dicembre 1831, ristampata in A. Gambaro, Primi scritti religiosi di R. Lambruschini, Firenze 1918, pp. 239-254; E. Morpurgo, La democrazia e la scuola, Torino 1885; G. Gentile, Per la scuola primaria di stato, Palermo 1907; E. Codignola, La pedagogia rivoluzionaria, Firenze 1925, cap. VI.
Quanto al problema italiano e agli sforzi compiuti per risolverlo, cfr.: K. Mittermayer, Italienische Zustände, Heidelberg 1844, p. 188 segg.; A. Gabelli, L'istruzione elementare nel regno d'Italia in paragone con gli altri stati, in Politecnico, Milano, dicembre 1867; id., Sull'istruzione obbligatoria in Italia, in Monitore dei tribunali, Milano, 21 dicembre 1867; id., L'istruzione elementare in Italia secondo gli ultimi documenti pubblicati in Italia, in Nuova Antologia, gennaio 1870; id., L'istruzione obbligatoria in Italia, in Nuova Antologia, maggio 1870; scritti ristampati nel vol. di A. Gabelli, L'educazione nazionale, saggi pedagogici raccolti da E. Codignola, Firenze 1923, pp. 27-82 e 119-148; M. Ferraris, La lotta contro l'analfabetismo, in Nuova Antologia, 16 aprile 1907; N. Colajanni, L'avocazione della scuola allo Stato, in Rivista popolare, 15 marzo 1907; L. Credaro, voce Analfabeta, in Dizionario illustrato di pedagogia; G. Donati, L'anlfabetismo e la legge Credaro, in La Voce, Firenze, 16 marzo 1911; Gh. Ferreri, Sulla soglia della vita: la donna e l'analfabetismo italiano, Roma 1911; E. Fabietti, Come progredisce la coltura popolare in Italia, in La coltura popolare, 15 ottobre 1914; A. Marcucci, Per la scuola rurale. la scuola per adulti analfabeti, in La coltura popolare, Milano 1919, nn. 1-2; G. De Robbio, L'istruzione obbligatoria per i fanciulli e per gli adulti, Firenze 1920; A. Marcucci, L'opera contro l'analfabetismo, in La coltura popolare, Milano 1922, nn. 3, 4, 5; G. Lombardo-Radice, Vita nuova della scuola del popolo, Palermo 1925; id., L'ideale educativo e la scuola nazionale, Palermo 1928.
Sulla legislazione relativa a provvedimenti contro l'analfabetismo italiano, cfr.: A. Namias, Trattato di legislazione scolastica comparata, Torino 1904, p. 46 segg.; C. Corradini, L'istruzione primaria e popolare in Italia, Torino 1911; G. Nardi, Raccolta sistematica della legislazione vigente sulla istruzione elementare, Torino 1922; Ministero per la Pubblica Istruzione, L'opera contro l'analfabetismo. Relazione del Comitato direttivo per l'anno 1921-1922, Roma 1923; id., Relazione del Comitato direttivo per l'anno 1922-1923, Roma 1925; id., Relazione a S. E. il ministro intorno alle condizioni della scuola elementare nell'anno 1924-1925, estratto del Bollettino (n. 44, parte 2ª, 1927), Roma 1927; G. Nardi, Il regolamento generale sull'istruzione elementare, ecc., Torino 1928.
Sull'analfabetismo in speciali regioni o in speciali classi sociali, cfr.: G. Longo, Analfabetismo nel mezzogiorno d'Italia, Reggio Calabria 1907; G. Ruberti, L'analfabetismo nel mezzogiorno d'Italia, in Annali dell'istruzione elementare, Roma, maggio-giugno 1928; G. Salvemini, La scuola popolare in provincia di Reggio Calabria, in Nuova Antologia, 15 marzo 1910; U. Zanotti, Il martirio della scuola in Calabria, Firenze 1925; Associazione nazionale per gl'interssi del Mezzogiorno, L'opera contro l'analfabetismo in Calabria, Roma 1923; idem, L'opera contro l'analfabetismo nella Sicilia occidentale, Roma 1923; id., L'opera contro l'analfabetismo nella Sicilia centrale, Roma 1923; id., L'opera contro l'analfabetismo nella Sicilia orientale, Roma 1923; id., L'opera contro l'analfabetismo in Sardegna, Roma 1923; A. Garau, L'analfabetismo nel Sulcis, Iglesias 1919; A. Benzi, L'analfabetismo nella provincia di Parma, Parma 1908; A. Marcucci, L'apostolato educativo di Giovanni Cena, Roma 1928; Le scuole serali e festive per i contadini dell'Agro. Relazione, anno 1908-1909, Roma 1909; Relazione per gli anni 1909-1912, Roma 1913; G. Cena, Le scuole dell'Agro Romano, in Nuova Antologia, 1° giugno 1914; R. Dalla Volta, L'analfabetismo nella immigrazione negli Stati Uniti d'America, in La riforma sociale, Torino-Roma 1906, pp. 703-716; Paulo G. Brenna, L'emigrazione italiana nel periodo ante-bellico, Firenze 1918; C. Corradini, Il compito dell'esercito nella lotta contro l'analfabetismo, in Nuova Antologia, 16 marzo 1907; G. Andreani, Le scuole reggimentali in Italia, in Rivista pedagogica, marzo 1925; F. Zugaro, L'esercito nella lotta contro l'analfabetismo, in Gerarchia, agosto 1928.
Statistica dell'analfabetismo.
La statistica dell'analfabetismo attinge in generale ai censimenti della popolazione o in particolare alle osservazioni su gruppi scelti demografici, per esempio su gl'inscritti delle scuole primarie, su gli arruolati alle leve, su gli sposi al momento della celebrazione del matrimonio. Per gli sposi si prende nota unicamente se hanno o non hanno saputo apporre la propria firma all'atto; indizio non sempre sicuro della capacità, potendo darsi che taluno abbia appreso solo a disegnare il proprio nome per esigenze della vita degli affari; o che, pur avendo appreso di più in altra età, non abbia ritenuto per difetto di esercizio che il ricordo della firma.
Il saper leggere e scrivere ha una considerevole importanza come fattore di coesione tra gli abitanti di un paese, dei quali le relazioni si moltiplicano e intrecciano in ambiti più vasti e con maggior continuità nel tempo, aiutando il formarsi di una coscienza nazionale. Da ciò varî stati furono indotti a proclamare obbligatoria l'istruzione primaria, riguardata di pubblico interesse come il servizio della sicurezza interna ed esterna e della giustizia, per quanto in sottordine rispetto a questi maggiori compiti di governo. In Italia l'obbligo fu scritto nella legge del 15 luglio 1877; la legge francese è del 28 marzo 1882; la belga del 19 maggio 1914, ecc.
In Europa l'analfabetismo è più diffuso e persistente tra i popoli slavi che tra i latini, e più tra i latini che tra quelli di stirpe germanica; più diffuso e persistente nelle campagne che nelle città, tra le donne che tra gli uomini, tra le classi anziane che tra le giovani. Nelle città stesse i quartieri differiscono per frequenza di analfabeti, secondo che vi prevalga o no il ceto operaio.
Nel seguente prospetto non figurano né gli stati scandinavi, né la Germania, l'Inghilterra, l'Olanda, dove l'analfabetismo si può dire scomparso, qualche residuo concernendo solo individui immigrati da paesi meno colti o individui del luogo deficienti, ciechi, ecc. Le variazioni territoriali conseguenti alla grande guerra non dànno possibilità di confronti rigorosi, in un quadro che non ammette ingombro di note esplicative e questioni metodologiche; bastino le date dei censimenti a far avvisato il lettore.
L'Ungheria ridotta del 1920 censiva 13,1% analfabeti tra i maschi e 17,1% tra le femmine; la Cecoslovacchia, nel 1921, rispettivamente 6, e 7,8. La Russia europea del 1920 ne registrava 49,9 tra i maschi e 71,8 tra le femmine; quanto ai territorî staccati da essa, della Finlandia e della Polonia abbiamo detto; sappiamo della Lituania che nel 1923 era alle quote di 36,0 e 38,8; della Lettonia che nel 1925 era a quelle di 16,9 e 21 ,9, e dell'Estonia che nel 1922 noverava soltanto 9,4 analfabeti su 100 maschi d'oltre 5 anni d'età e 15,5 su 100 femmine.
Lasciando il continente europeo per l'asiatico, ecco, per i paesi per cui si hanno censimenti attendibili, alcuni dati non privi d'interesse.
Ai nostri antipodi, la Confederazione Australiana vantava nel 1921 le basse percentuali di 4,7 e 3,8 tra gli abitanti dai 5 anni d'età in su, esclusi gl'indigeni, e la Nuova Zelanda (cens. 1916) quelle di 4,4 e 3,8; cioè, in entrambi i paesi, meno analfabeti tra le femmine che tra i maschi.
Nell'Unione Sud-Africana si era, nel 1911, alle quote di 69,9 e 72,2; in Egitto, nel 1917, a quelle di 86,4 e 97,9, esclusi ancora i bambini fino a 5 anni.
Per i paesi d'oltre Atlantico, di cui si hanno dati recenti, abbiamo le seguenti notizie:
Ai progressi dell'istruzione elementare negli Stati Uniti durante l'ultimo cinquantennio ha partecipato in misura molto considerevole anche la popolazione di colore (Negri, Indiani, Cinesi, Giapponesi).
Dato questo rapido sguardo per il mondo, torniamo per maggiori particolari all'Italia.
Il primo censimento nazionale (31 dicembre 1861) mise a nudo la gran povertà di cultura dei vecchi stati italiani.
Per gli Stati sardi le notizie risalgono anzi al 1848, anno in cui si registrarono, nel Piemonte propriamente detto, 65,3 analfabeti per 100 abitanti, senza distinzione d'età e di sesso; 76,6% nella Liguria; 93,7 in Sardegna. Si può ritenere che quella del Piemonte fosse la percentuale più bassa e quella della Sardegna la più alta di tutta l'Italia geografica d'allora.
Il ducato di Parma nel 1857 trovò l'84,2% di analfabeti tra la popolazione in generale.
Nel sessantennio di vita nazionale tra il 1861 e il 1921 le provincie settentrionali progredirono maggiormente delle meridionali; ma risultati più confortanti anche per queste ultime si attendono dal prossimo censimento, in seguito all'impulso dato nel dopo guerra alla scuola primaria.
I numeri tra parentesi per il Veneto e il Lazio riguardano l'anno 1871; dati anteriori mancano. Non si son potute comprendere nel confronto le provincie ultime redente.
Un modo interessante di constatare i progressi della cultura elementare è quello delle tavole a tripla lettura.
Si desidera sapere, ad es., quanti su 100 individui sopravviventi di una stessa generazione rimangono analfabeti in una serie di censimenti consecutivi; oppure quanti su 100 appartenenti alle diverse classi d'età si dissero analfabeti in uno stesso censimento, infine quanti analfabeti contava una data classe, scelta entro limiti fissi d'età, nei varî censimenti. La risposta alla prima domanda si ha dalle due tavole che seguono, con la lettura da sinistra a destra secondo le linee orizzontali; alla seconda con la lettura in senso verticale dall'alto in basso; alla terza con la lettura in senso diagonale da sinistra a destra.
Le cifre di questi due prospetti devono considerarsi approssimative, essendo difficile far corrispondere le dichiarazioni di età, che presentano particolari errori in alcuni censimenti, ai precisi decennî di nascita dei censiti. I dati mancanti del 1891 (anno in cui non fu fatto il censimento) potrebbero ottenersi da una doppia interpolazione delle serie prese in senso orizzontale e in senso diagonale.
Sussidiariamente, come dicemmo, servono per la valutazione dell'analfabetismo, le statistiche degli atti di matrimonio, che l'uno o l'altro degli sposi, o entrambi, non abbiano saputo sottoscrivere. Qui possiamo dare per qualche paese, non contemplato nei precedenti quadri, notizie d'un tempo abbastanza remoto da noi. Così per l'Inghilterra e Galles sappiamo che nel 1841 la percentuale degli analfabeti era di 32,7 fra gli sposi e 48,8 fra le spose; nel 1883 essa era discesa a 12,6 e 15,5, nel 1914 a 0,8 e 1,0. La Scozia noverava, nel 1855, 11,4% sposi e 22,9% spose incapaci di apporre la firma all'atto; ma li riduceva a 0,7 e 1,1 nel 1914. Per l'Olanda si hanno notizie del 1877: 7,5 analfabeti per 100 sposi; 14,8 per 100 spose; nel 1915 queste percentuali erano abbassate a 0,4 e 0,7.
In Prussia bisogna risalire al 1883 per ritrovare le quote di 3,5 e 5,4%; nel 1912 esse non son più che 0,2 e 0,3. In Francia le percentuali del 1855 (32,2 e 48,4) sono diminuite prima con lentezza poi con rapidità; nel 1911 non erano più che 1,8 e 3,0.
Rispetto ai paesi nominati l'Italia è rimasta di gran lunga addietro nella gara, anche tenuto conto del punto più arretrato di partenza. Peraltro non sono meno di quindici le provincie dell'Italia settentrionale, dove l'analfabetismo tra gli sposi si può dire scomparso. La conquista del Mezzogiorno coronerà l'opera della presente generazione. Ecco, per compartimenti, i dati di confronto tra il 1866 e il 1925.
Nei 76 capoluoghi di provincia del 1925 la proporzione degli analfabeti era di 4,9% tra gli sposi e di 7,3 fra le spose, mentre nel resto d'Italia entro i nuovi confini era di 11,6 e 18,8. Probabilmente i comuni contermini dei capoluoghi indicherebbero valori intermedî tra questi e quelli, risentendo essi della vicinanza delle città, centri di imitabile organizzazione della cultura elementare.
L'Annuaire statistique des grandes villes pubblicato dall'Institut international de statistique (L'Aia 1927) fa una rassegna di capitali e d'altre grandi città del mondo, riportandone per dati abbastanza recenti le proporzioni degli analfabeti nei due sessi; proporzioni sempre più basse che quelle degli stati rispettivi.
È stato osservato, a proposito dell'analfabetismo (e così per molt'altri caratteri) che gl'individui di gruppi simili si preferiscono tra loro e i dissimili no.
Basta per ciò mettere a confronto il numero di coppie registrate d'ogni combinazione col numero che si dovrebbe avere in un'equa ripartizione. S'intende che dietro il velo del sapere o non saper leggere e scrivere si celano altre circostanze, per cui si rende facile l'intesa tra i gruppi simili; p. es., l'analogia di condizioni economiche (professionali specialmente), la prossimità di abitazione, ecc. Ma fu anche osservato che basta la disuguaglianza numerica degli elementi posti a fronte per rendere in certo modo obbligate alcune forme di combinazioni anche fra gruppi dissimili e perciò in generale non simpatizzanti tra loro. Così in Italia nel 1923 essendosi presentati alle nozze 285.042 sposi letterati in concorso di 35.792 analfabeti; e 261.130 letterate in concorso di 59.704 analfabete, è ovvio che se tutti i letterati si fossero prese per estrema ipotesi tutte le letterate, 23.912 di loro (quant'è la differenza tra 285.042 e 261.130) avrebbero pur dovuto acconciarsi con analfabete; e se invece i primi si fossero anzitutto prese le analfabete, ben 225.338 di loro (quant'è la differenza tra 285.042 e 59.704) avrebbero dovuto impalmare le donne del gruppo simile. La conclusione è che tanto fra i gruppi simili, quanto fra quelli d'incrocio, vi sono delle combinazioni, per così dire obbligate, e delle combinazioni aperte, alle quali ultime soltanto sarebbe di rigore l'applicazione del noto calcolo, che tende a stabilire l'indice di attrazione fra i gruppi.