Archeologia, Analisi spaziale per la
Le analisi spaziali in archeologia hanno una particolare applicazione nel campo della storia e dell’archeologia dei paesaggi. Nella letteratura archeologica moderna il concetto di archeologia spaziale venne formulato, per la prima volta, da alcuni esponenti dell’archeologia processualista inglese (Clarke 1977, p. 9; Hodder, Orton 1976). Per archeologia spaziale va inteso lo studio delle distribuzioni archeologiche sulla base di concetti desunti dalla geografia umana ed economica; il recupero di informazioni dalle relazioni spaziali fra configurazioni archeologiche; lo studio dei modi in cui le comunità usarono gli spazi.
In anni recenti si è tentato di usare le analisi archeologiche spaziali per la valutazione degli assetti demografici del mondo antico (Botarelli, in Cambi 2011). Benché si tratti di sperimentazioni estremamente accattivanti, occorre premettere che l’eventuale successo finale è strettamente condizionato dalla quantità e qualità delle fonti utilizzate. Una massa critica di documenti archeologici consolidati (database di siti con relative mappe) può produrre risultati interessanti. Una raccolta non sistematica di dati eterogenei, per contro, rischia di condurre a conclusioni prive di fondamento. È preferibile parlare di tendenze delle reti insediative, in maniera più neutra, piuttosto che di distribuzione del popolamento, un obiettivo destinato a restare un miraggio per la maggioranza delle ricerche archeologiche.
Il complesso settore delle analisi spaziali applicate all’archeologia può essere sintetizzato nelle seguenti tipologie.
L’analisi dei bacini di approvvigionamento consiste nello studio di un contesto sulla base del rapporto fra la disponibilità delle risorse naturali e il potenziale produttivo del bacino (Cambi, Terrenato 1994, pp. 233-35; Botarelli, in Cambi 2011). Analizzando ampie superfici di terreno situate attorno a un sito si può tentare di ricostruire le scelte preferenziali insediative, la produzione agraria e quella manifatturiera. In questo modo si può arrivare a descrivere le destinazioni d’uso (pascoli, zone arabili, boschi, paludi) delle diverse superfici e a tentare alcune proiezioni demografiche, come i limiti di crescita della popolazione. Affine alla site catchment analysis è l’analisi dei costi di percorrenza che, basata su algoritmi matematico-geografici (Botarelli, in Cambi 2011), consiste nel verificare il rapporto tra la distanza di un’area coltivabile, il luogo di residenza dell’agricoltore e il tempo che questi impiega per raggiungere la località in questione. Questo tipo di ragionamento si basa su presupposti economicistici non sempre applicabili alle società precapitalistiche, come l’assunto per cui non converrebbe coltivare zone raggiungibili in più di due ore di cammino.
Il modello, ideato agli inizi del 19° sec., è utile per lo studio delle aree di influenza di siti di grandi dimensioni, come le città. Johann Heinrich von Thünen pensava a una città isolata al centro di una pianura orizzontale, uniformemente fertile, senza corsi d’acqua navigabili e circondata dalla natura incontaminata. Il modello mostra la formazione di zone concentriche di produzione agricola attorno alla città centrale (fig. 1). Il limite principale del modello di von Thünen risiede nel suo inevitabile conflitto con la natura articolata dei territori oggetto di studio, spesso ben lontana dalle condizioni ideali che ne sono alla base (Botarelli, in Cambi 2011).
Questo metodo si basa sul calcolo delle distanze medie tra singoli siti, utile a descrivere le zone di pertinenza o di influenza di ciascun sito (fig. 2). Tracciando una linea retta passante per i punti equidistanti fra più insediamenti si delinea una serie di poligoni. Ciascuno di essi avrà un numero dei lati pari al numero dei punti che circondano un determinato sito. Prerequisiti di questo approccio sono la omologa grandezza gerarchica dei siti e la certezza che la loro distribuzione sia nota e completa (Cambi, Terrenato 1994, pp. 237-40). Nell’applicazione a contesti del passato caratterizzati da set incompleti di informazione, il metodo dei poligoni può presentare significative criticità, eventualmente accentuate dalle intrinseche peculiarità dei singoli siti. Vanno, inoltre, tenuti in conto i rapporti di potere tra insediamenti e la differenza dei rapporti fra questi e le caratteristiche fisiche e le risorse naturali di un determinato bacino geografico (Botarelli, in Cambi 2011).
La teoria dei luoghi centrali deriva dal modello elaborato agli inizi degli anni Trenta del 20° sec. dal geografo tedesco Walter Christaller (Botarelli, in Cambi 2011). Il modello analizza la posizione dei siti rurali intorno a un centro allo scopo di comprendere le dinamiche economiche che governano tale distribuzione. Trattandosi anche in questo caso di un modello ideale, ci sono alcuni presupposti fondamentali che stanno alla base della teoria: il territorio deve essere isomorfo e isotropo; i centri urbani devono essere disposti a distanze regolari e avere lo stesso numero di popolazione; la popolazione rurale deve essere distribuita uniformemente e altri ancora. In archeologia questo modello, affascinante nella teoria quanto difficilmente applicabile nella pratica, può fornire spunti interessanti per l’analisi della distribuzione dei beni e dei servizi all’interno di un territorio antico (Cambi, Terrenato 1994, pp. 241-42; Botarelli, in Cambi 2011).
Consiste nell’analisi della distribuzione dei siti, intesi nella loro valenza puntiforme, al fine di comprendere le dinamiche insediative di un dato contesto, come la tendenza all’aggregazione o la pianificazione del popolamento (fig. 3; Botarelli, in Cambi 2011). L’analisi si basa sul calcolo della distanza di un sito da quello più vicino; ripetendo questa operazione per tutti i siti e facendone la media si ottiene un valore numerico da confrontare con quello che viene definito il valore atteso, ovvero la distanza media dei siti se la distribuzione fosse casuale. Se la media calcolata è inferiore al valore atteso allora si è di solito di fronte a una concentrazione, mentre se il valore è superiore si è in presenza di una distribuzione regolare dei siti (Cambi, Terrenato 1994, pp. 240-41).
Questo tipo di analisi permette l’individuazione delle aree visibili da un determinato punto di visuale. Il punto di partenza è la costruzione di un modello digitale del terreno che riproduca in maniera dettagliata e affidabile le caratteristiche geomorfologiche del territorio oggetto di studio. La definizione dell’orizzonte visibile da una determinata posizione della superficie terrestre soddisfa una delle finalità dell’archeologia dei paesaggi, ovvero la complessa ricostruzione delle possibili relazioni tra la morfologia del paesaggio e i sistemi insediativi (Di Paola, Trotta 2013).
L’archeologia ha mutuato dalla geografia molti strumenti di analisi (Botarelli, in Cambi 2011). Negli ultimi tempi l’uso di queste strategie di indagine è stato molto ridimensionato, tanto che il loro impiego appare sempre più raro nelle edizioni scientifiche di surveys recentemente apparse. L’adozione di questi strumenti, avvenuta durante le fasi di massima diffusione della New archaeology e della Social archaeology, sembra aver portato a un distacco progressivo dal paesaggio che gli stessi dovevano in teoria contribuire ad analizzare con maggiore efficacia (Botarelli, in Cambi 2011).
I. Hodder, C. Horton, Spatial analysis in archaeology, Cambridge 1976; D. Clarke, Spatial archaeology, London 1977; C. Vita-Finzi, Archaeological sites in their settings, London 1978; F. Cambi, N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Roma 1994; F. Cambi, Manuale di archeologia dei paesaggi, Roma 2011 (in partic. L. Botarelli, Archeologia dei paesaggi e geografia, pp. 199-205); G.M.F. Di Paola, V. Trotta, La viewshed analysis in ArcGis 10.1. I casi di Populonia e Segesta, «Archeomatica», 2013, 3, pp. 13-20; F. Cambi, Archeologia medievale e storia e archeologia dei paesaggi, «Archeologia medievale», 2014, nr. speciale: Quarant’anni di archeologia medievale in Italia, a cura di S. Gelichi, pp. 63-73; G. Volpe, R. Goffredo, La pietra e il ponte. Alcune considerazioni sull’archeologia globale dei paesaggi, «Archeologia medievale», 2014, 41, pp. 39-53.