Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine analogia indica in genere una relazione tra più cose, aventi in comune qualche determinato aspetto. Si possono distinguere usi diversi, non necessariamente coerenti tra loro, che sono tuttavia specchio di modi differenti di interpretare unitariamente la relazione tra l’uomo, l’esistenza delle cose e il loro principio ultimo. Alla luce del confronto tra le due concezioni, per così dire, classiche, ovvero l’analogia di proporzionalità e quella di attribuzione, emergono nel corso del pensiero medievale vari modi di intendere tale relazione, secondo la particolare lettura, tra gli altri, di Agostino, Tommaso, Enrico di Gand, Duns Scoto e infine di Ockham.
Il significato originario e proprio del termine analogia si riferisce alla proporzione in quanto indica un’uguaglianza tra rapporti: a / b = c / d La formula risale al pensiero matematico, in particolare a Euclide, e viene detta per lo più analogia di proporzionalità. Tuttavia, già nel Timeo, Platone delinea con essa rapporti tra i principi cosmogonici: terra, acqua, aria e fuoco. La posizione intermedia degli enti matematici rispetto alle idee, da un lato, e al mondo sensibile; dall’altro, in effetti attribuisce loro caratteri comuni a tutta la realtà, sicché la capacità di sintesi della proporzione ne risulta in qualche modo legittimata. Anche Aristotele ne parla nel senso di una uguaglianza di rapporti. Se nell’Etica Nicomachea considera l’analogia in maniera nettamente distinta rispetto alla attribuzione a un’unica causa o a un unico fine, nella Metafisica Aristotele affronta la questione della proporzionalità più sistematicamente, ad esempio a proposito dell’unità dell’ente. L’unità analogica costituisce in tal modo il grado massimo d’astrazione e di universalità oltre l’unità degli stessi sommi generi o categorie, e quindi presuppone e al tempo stesso implica tutti i gradi inferiori. Sempre nella Metafisica, Aristotele insiste sulla funzione unificatrice del ragionamento proporzionale, in particolare a proposito dei principi di potenza e atto.
Nel IV libro della Metafisica Aristotele afferma invece che l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento a un unico principio: alcune cose sono dette “esseri” perché sono sostanza; altre perché affezioni della sostanza; altre ancora perché sono vie che portano alla sostanza.
È stato correttamente osservato (ad esempio da Enrico Berti) che a tale proposito Aristotele non parla di analogia, intendendo per tale termine la proporzionalità, bensì propriamente di omonimia relativa. Tuttavia Aristotele rimane una fonte importante della tradizione medievale anche sotto questo profilo. La scolastica, infatti, sviluppa una dottrina originale per cui l’analogia non indica una somiglianza di rapporti, bensì un riferimento intermedio tra univocità ed equivocità. Ricordiamo che univoco è un termine quando esso si dice di realtà del tutto simili, cioè che appartengono alla medesima specie o definizione (quiddità): “uomo”, ad esempio, può stare per tutti quegli esseri che sono animali razionali, ed è pertanto predicato univocamente di Socrate. Si dice, al contrario, equivoco un termine quando sta per realtà tra loro del tutto differenti. “Cane”, ad esempio, può indicare sia l’animale sia la costellazione.
In questo contesto, allora, un termine si dice analogo se fa riferimento a un rapporto o correlazione avente fondamento nella realtà, come nel caso dell’univocità: cosa che può verificarsi nonostante i modi del riferimento, come avviene nell’equivocità, non siano direttamente riconducibili a un unico concetto o definizione. L’aggettivo “sano” infatti può venir predicato correttamente di molte cose diverse: il corpo dell’animale, individuo in carne e ossa; un certo sintomo, come il colorito della pelle o l’urina; il cibo o il farmaco, in quanto causa, a diverso titolo, della salute.
Nella cosiddetta analogia di attribuzione o di proporzione, quindi, la correlazione indica una effettiva dipendenza di molteplici significati rispetto a un unico senso; si tratta di una gerarchia (ordo ad unum) che segue un modello di derivazione del tipo principale/derivati. Per proseguire con il nostro esempio, “sano” si riferisce principalmente all’animale, e soltanto in secondo luogo indica un certo rapporto reale del soggetto stesso con le altre cose. Più in generale, l’essere si dice direttamente della sostanza e solo successivamente delle altre categorie; ne consegue che l’ente è la nozione più onnicomprensiva che l’intelletto possa concepire, poiché va oltre la distinzione tra i sommi generi, includendo tanto l’essere della sostanza quanto quello dell’accidente.
L’attribuzione, tuttavia, secondo l’idea originale di Tommaso – poi respinta da Duns Scoto e da Guglielmo di Ockham – non vale solo sul piano logico-ontologico della omonimia relativa, circa i rapporti mutevoli tra il soggetto e le sue affezioni, ma diviene metafisicamente prioritaria rispetto alla stessa univocità della sostanza quale nucleo necessario e formale dell’essere. Una scelta dalle conseguenze amplissime, se si considera che nella semantica aristotelica l’univocità garantisce, nella definizione dell’essenza, la certezza e l’oggettività scientifica del suo riferimento. Infatti le parti del discorso rispecchiano ciò che è unito e ciò che è diviso nelle cose stesse, a patto che il soggetto sia veramente un’essenza individuale sussistente, e non una sommatoria qualunque di predicati.
La tradizione platonica e quella aristotelica non sono le sole ad attraversare le riflessioni medievali sull’analogia. Agostino d’Ippona imprime in tal senso una svolta decisiva, nella misura in cui la tematica analogica s’intreccia fatalmente con la novità della fede cristiana. L’analogia non si limita più alla questione della sostanza e alla relazione uno/molti in un universo sempre identico a se stesso; e nemmeno può risolversi in una formula matematizzante. Con Agostino è il pensiero stesso che si fa analogico, l’analogia ne costituisce, per così dire, il ritmo e il respiro.
Partendo dall’idea che ogni creatura, e quindi anche l’uomo, è essenzialmente un riflesso proporzionale delle relazioni sussistenti tra le persone divine, l’analogia agostiniana sembra funzionare, per così dire, come una sorta di potente strumento di ricerca in grado di delineare, di volta in volta, un preciso percorso attraverso una fitta rete di rimandi e di richiami reciproci tra piani differenti: la realtà naturale fatta sapientemente secondo misura, numero e peso (mensura, numerus et pondus), nei quali si rende intelligibile il Creatore; la dimensione interiore, dove il soggetto è relazione tra memoria, intelletto e volontà; la dimensione trascendente, infine, dove la molteplicità, e dunque la relazione stessa, hanno pieno diritto di cittadinanza allo stesso titolo dell’unità, in quanto Dio si rivela insieme Padre, Figlio e Spirito, ovvero mens, notitia e amor.
Riconoscendo nel suo modo di pensare, di essere e di volere la somiglianza e nel contempo la differenza con il modo di pensare e di dire le cose, cioè di volerle e di porle nel mondo, da parte di Dio, l’uomo scopre di essere nella verità. La realtà, rivelandosi riflesso del Verbo divino, consente così all’uomo di pensare se stesso e concepire la sua relazione con la mente divina. L’uomo scopre di essere parte di un ordine e di un significato trascendente che non può mai ricercare, pena l’infelicità.
Non cerchiamo perciò una precisa formula agostiniana dell’analogia, ma proviamo a coglierla operativamente nel farsi stesso del pensiero orientato, senza soluzione di continuità, alla conoscenza tanto della realtà quanto del suo principio fondante. Nel libro X delle Confessionici viene offerta una testimonianza illuminante: Interrogatio mea intentio mea et responsio eorum species eorum. Sembrano così posti in relazione rispettivamente la domanda, cioè il momento razionale e discorsivo, con lo sguardo, cioè con l’attività percettiva e cognitiva del soggetto. A loro volta le creature rispondono, in un certo senso parlano rivelando la loro natura di segni, sia pure non linguistici, se posti in relazione alla loro bellezza, alla loro appartenenza al disegno provvidenziale, in quanto parole per così dire del logos divino. Si tratta di una corrispondenza che trova un ampio sviluppo programmatico nell’analogia dei due libri: il libro della natura, accessibile a tutti, e quello della rivelazione, destinato invece ai colti e ai sapienti. Un’immagine fondamentale per la stessa civiltà cristiana dell’alto Medioevo, i cui riflessi per altro non vengono meno nelle età successive.
La tradizione monastica interpreta e sviluppa con devozione l’insegnamento di Agostino, unitamente al progressivo approfondimento di altre fonti: l’opera di Boezio, Plotino, Porfirio, il neoplatonismo dello Pseudo Dionigi, con la sua riflessione sulla predicazione e i nomi divini, filtrato attraverso il pensiero di Giovanni Scoto Eriugena.
Dunque il paradigma analogico agostiniano sembra fondersi e confondersi con l’allegorismo medievale, con la cosiddetta pansemiosi, secondo cui non c’è alcuna cosa visibile e corporea che non significhi qualcosa di incorporeo e di intelligibile, come sostiene ad esempio Scoto Eriugena. Il modello agostiniano convive perciò con un uso più vago e indistinto, per il quale la realtà creata sembra dissolversi quale cifra evanescente del divino, in quanto universale teofania, più che rappresentare un elemento costitutivo della proporzione stessa, degno come tale di attenzione e di adeguato interesse conoscitivo.
Per quanto possa apparire paradossale, un segnale di crisi del modello agostiniano è forse riscontrabile nel pensatore che ne ha chiarito più di ogni altro il funzionamento: Anselmo d’Aosta. Nel tentativo di fissare in modo rigoroso l’incessante rincorrersi dei rimandi analogici tra i vari livelli del reale, tentativo il cui apice è rappresentato nel Proslogion dalla famosa prova dell’esistenza di Dio, Anselmo perviene a una definizione astratta e formale che può essere letta in modo autonomo rispetto al fluire continuo della riflessione agostiniana. Isolata dal suo contesto dinamico, tale razionalizzazione è destinata a soccombere nel serrato confronto con la precisione analitica del metodo aristotelico.
Tale cedimento sembra evidenziato ancor più chiaramente dalla vivace ripresa nel corso dei secoli XI-XII delle dispute teologiche, che ad esempio coinvolsero Giovanni di Fécamp, Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia, maestro di Anselmo d’Aosta, e dai loro riflessi logico-metafisici nell’ambito della questione degli universali, pensiamo ad Abelardo, Roscellino, Anselmo di Laon e Guglielmo di Champeaux. Abelardo, soprattutto, sembra incarnare più che mai nelle sue opere teologiche questa sorta di intensa e sofferta fase di ripensamento del problema trinitario, alla luce del modello aristotelico. Pare avviarsi così una sorta di transizione verso gli aristotelismi del XIII secolo, quando l’opera di Aristotele viene acquisita integralmente dall’Occidente latino.
Con la piena circolazione dei testi aristotelici, seguiti alle traduzioni e ai commenti greco-arabi, la trattazione filosofica e teologica dell’analogia muta ancora. Se già Alberto Magno ne indaga i fondamenti in quella chiave semantico/definitoria che abbiamo già anticipato, sarà Tommaso d’Aquino a giungere alla lucida comprensione del problema, sviluppando una lettura originale di Aristotele cui non è estranea, peraltro, una riflessione critica sul De Trinitate di Boezio. Si deve a Tommaso l’aver posto al centro della riflessione analogica il problema della sostanza, tagliando definitivamente i ponti sia con il modello trinitario agostiniano sia con quello dell’emanatismo neoplatonico.
Per Tommaso, Dio può essere conosciuto solo mediante i suoi effetti; e siccome con la potenza della loro causa non si dà proporzione, per l’infinita distanza del primo principio, non è possibile risalire dimostrativamente alla sua essenza, bensì solo alla sua esistenza (In De Trin, q. 1, a. 1). L’uomo, su questa terra, non può afferrare alcun concetto determinato di Dio, da cui dedurre l’essere; dunque nessuno spazio per la prova ontologica. Né la trinità può essere colta a partire dalla stessa efficacia causale, dal momento che essa si riferisce a Dio inteso unitariamente, e non alle singole persone divine: ““perciò quantunque in qualsivoglia ente creato si trovi qualche trinità, non si può tuttavia concludere da ciò che essa abbia luogo anche in Dio, se non soltanto dal punto di vista della considerazione mentale”” (In De Trin, q. 1, a. 4). L’articolazione trinitaria è logicamente possibile, ma ciò non basta perché essa rientri nella concezione della realtà, come invece avviene per la tradizione agostiniana; tanto meno basta per provarne l’effettività: in tal senso l’atto di fede è essenziale, originario, ed estraneo al ragionamento stesso.
Si tratta di un progetto ambizioso, nell’ambito del quale la risposta di Tommaso alle difficoltà del modello agostiniano, emerse con la diffusione dell’aristotelismo quale esempio alternativo di coesione e di sintesi filosofica, si concretizza in certa maniera sostituendo la relazione trinitaria con i risvolti analogici della metafisica della sostanza. Infatti è l’analogia entis che regola l’uso degli stessi nomi divini, e che perciò presiede tanto alla razionalizzazione e rigorizzazione della esegesi scritturale, quanto alla fondazione della conoscenza della natura.
Nella Summa Theologiae Tommaso rileva come non sia possibile attribuire il termine sapiente univocamente a Dio e alle creature: nel caso delle nature esso indica una perfezione separata dall’essenza, poiché ad esempio l’uomo è uomo anche se non è sapiente; la stessa cosa è impossibile per quanto riguarda Dio, data la sua assoluta semplicità. D’altra parte, non è nemmeno ipotizzabile un’attribuzione equivoca, altrimenti sarebbe improponibile qualsiasi teologia. Non resta che ammettere che per qualsiasi perfezione si affermi di Dio e delle creature, essa si dice in modo analogo, cioè ““per il rapporto che le creature hanno con Dio, in quanto principio o causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose. E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e la semplice univocità”” (I pars, q 13, a 5).
L’attribuzione, quindi, opera in senso teologico secondo un uso chiaramente trascendentale, poiché superata ogni divisione ontologica giunge a conquistare l’ente in quanto ente, ovvero il rapporto stesso di dipendenza di tutto ciò che è rispetto a Dio. Perciò la teologia naturale è scienza, anzi scienza prima come la metafisica aristotelica, pur non avendo una nozione determinata di Dio, giacché ha per oggetto l’ente quale supremo concentrato di tutte le massime perfezioni possibili (uno, vero, buono ecc.) e poiché include quindi molte verità quali preambolo razionale della fede. Tutte le altre scienze subordinate non fanno a loro volta che entrare più nel dettaglio di tale rapporto, esplicitandolo sotto questo o quell’altro profilo.
Tommaso evita così, da un lato, possibili letture panteistiche; dall’altro, rielabora sottilmente la teologia boeziana della forma essendi e della distinzione tra quo est e quod est, frequentatissima in tutto il Medioevo. Infatti l’ente non trasmette alcuna determinatezza formale, ma pone al suo interno la prima differenza rispetto alla infinita semplicità di Dio; sicché a sua volta l’ente creato non può che essere, per contrasto, composto. Applicando a questo caso limite la polarità tipica dell’analogia, Tommaso sviluppa pertanto la dottrina dell’alterità di essenza ed essere nelle nature, a fronte della perfetta identità di tali principi in Dio (De ente et essentia). Pertanto, ciò che esiste non è l’essere stesso (differenza), ma ha o riceve l’essere per causazione o partecipazione (somiglianza).
Sicché l’ente creato è composto di essenza ed essere, e come tale rappresenta un’unità infinitamente più debole di Colui che è (l’Ego sum qui sum dell’Esodo). D’altro canto l’essere è pur sempre riconducibile a Dio come a un primo assoluto, più o meno come avviene per il termine sano. Alla luce della concezione di Dio come Atto puro tale dottrina assume poi una valenza ulteriormente dinamica: l’ente diviene pertanto composizione di potenza e atto.
Nonostante l’indiscusso carisma, tra i contemporanei la posizione di Tommaso non ha gran seguito e non poche sono le reazioni. La sua dottrina viene poi ufficializzata come manifesto dell’ordine, ma nello stesso ambiente universitario domenicano emergono subito prese di posizione e divergenze importanti come nel caso di Robert Kilwardby e Durando di San Porziano.
Tra le soluzioni più originali, presso i maestri secolari si segnala invece la posizione di Enrico di Gand, che, al fianco della via aristotelica, si muove in direzione di un recupero della tradizione agostiniana. In merito all’univocità dell’ente (e alla relazione ad altre nozioni principali quali unum, bonum ecc.) sostiene che esse si predicano sì in modo analogico, ma la loro unità dipende dall’attività dell’intelletto. Rompendo così con il realismo di Tommaso, Enrico sostiene che vi è un duplice concetto di ens, uno predicabile di Dio e l’altro delle creature (Summa Quaest. Ord., 24, quaest. 6). Il nostro intelletto, considerata la loro somiglianza, sulle prime non li distingue e li coglie in modo confusamente unitario. Al di là degli aspetti tecnici, si apre in questo modo una via per cui anche la predicabilità delle nozioni prime (trascendentali) riposa sugli atti di conoscenza (più o meno chiari) e sulla volontà del soggetto - una concezione di evidente ispirazione agostiniana.
È anche in reazione a questa forma di volontarismo e alla sua duplicità, che Duns Scoto pone il problema della scientificità della teologia e dell’oggetto della metafisica. Nella sua dottrina non ci sono margini per una concezione analogica dell’ente. Per Scoto, infatti, il soggetto della scienza metafisica e dunque l’oggetto ultimo dell’intelletto, l’ente in quanto ente, è univoco, non analogo.
Sulla base di tale concezione Duns Scoto riprende dal canto suo la formula avicenniana della neutralità, cioè dell’indifferenza dell’ente sia rispetto all’universalità sia all’individualità, che pure contiene: equinitas est equinitas tantum. L’uomo può in tal modo risalire dimostrativamente dalla dimensione del contingente e della conoscenza sensibile fino alle determinazioni più generali dell’ente, rappresentate in primo luogo non dalla separazione tommasiana tra essenza ed esistenza, bensì dai modi dell’infinito e del finito. Infatti il concetto dell’essere di Dio è altro dal concetto di questo o di quello, e così è neutro di per se stesso, ma è tuttavia formalmente incluso in ambedue, e dunque non può che essere univoco (Op. Ox. I, d. 3, q. 2, a. 4).
In altre parole, è necessario un concetto unico a tutti gli effetti; mentre l’analogia, intesa come prossimità o rassomiglianza tra nozioni diverse, non offre alcuna garanzia di autentica unità formale e concettuale. Senza tale sintesi, del resto, non sarebbe nemmeno concepibile in termini aristotelici alcuna scienza, né alcuna metafisica, cioè nessuna conoscenza di un primo principio trascendente, poiché due concetti anche molto simili non fanno per questo un unico concetto.
Pertanto, venendo meno l’unità analogica dell’ente, viene meno l’oggetto che consente alla teologia di svilupparsi come una scienza speculativa, ovvero come un sapere in grado di conquistare per via dimostrativa e razionale alcune verità o preamboli della fede. La metafisica, infatti, dal canto suo può certamente giungere alla dimostrazione di un primo principio, infinito e necessario, più o meno come è stato fatto dagli antichi; ma non può pervenire alla dimostrazione di un Dio personale, creatore onnipotente, assolutamente libero. Dunque la teologia secondo Duns Scoto si distingue dalla metafisica per il suo oggetto proprio, ed è scienza solo in senso relativo, ovvero è scienza pratica, in quanto ha essenzialmente il compito di regolare il comportamento umano in funzione del messaggio divino e in vista della vita futura.
Un passo ulteriore in tal senso viene compiuto da Guglielmo di Ockham, poiché a suo giudizio l’analogia dell’ente si risolve in una forma di equivocità. Nella Ordinatio (d. 2, q. 9) Ockham sostiene che solamente una parola, un termine, in quanto nome imposto convenzionalmente, può essere equivoco, cioè comune a più concetti differenti. Così si dice appunto “sano” l’animale, il cibo e l’urina, nella misura in cui viene riscontrata una certa somiglianza nelle cose. Al termine, quindi, non al concetto, vengono ricondotti deliberatamente concetti e cose diversi, e ciò non avviene a caso, bensì in base a un tale riconoscimento effettivo, cioè a consilio.
Secondo Ockham, i concetti universali, in quanto segni naturali generati spontaneamente dall’intelletto, colgono sempre gli individui e le loro qualità, sia pure in maniera meno precisa dal punto di vista conoscitivo; dunque non possono che essere univoci. Ockham riconosce tre livelli di univocità, a seconda del grado di somiglianza delle realtà intese. Il primo, poiché si riferisce a individui della medesima specie, distinti pertanto solo numericamente, è quello dove la somiglianza è più stretta. Il secondo denota una similarità più larga, cioè si riferisce agli individui di uno stesso genere, e pertanto coglie aspetti condivisi dalle differenti definizioni, non però una natura universale comune: in tal modo uomo e asino nel loro concetto condividono la forma animale, ma non per questo esiste l’animalità. Il terzo tipo di univocità, infine, non ha alcuna rispondenza reale e si riduce a una somiglianza puramente concettuale, del tutto astratta.
È in quest’ultimo significato che secondo Ockham è possibile predicare l’essere di Dio e delle creature, senza che per questo venga implicata alcuna comunanza reale o analogia: ““conformemente al modo in cui noi usiamo questo nome, ente rappresenta tutte le cose da esso significate secondo un’unica imposizione, un solo concetto e un solo modo di significare, per il fatto che indica tutti gli enti direttamente. Pertanto dico che ente si predica di Dio univocamente”” (Quodlibet, IV, q. 16).
Ockham sembra così riportare l’analogia dell’ente all’omonimia relativa aristotelica, ovvero al livello dei predicati accidentali e perciò al piano contingente dell’essere. Viene cioè negata qualsiasi interpretazione del problema analogico in chiave trascendentale, e dunque viene negato l’ente quale composizione di essenza ed essere. Ockham, e con lui buona parte della riflessione nominalistica del XIV secolo, si muove all’interno di una metafisica assai ridimensionata, ma come per Duns Scoto tale reductio sorregge una concezione autonoma della teologia, volta più che altro alla comprensione del testo rivelato, come esegesi razionale o scienza pratica, e non come scienza prima, da cui tutte le altre discipline deriverebbero i rispettivi principi e oggetti.