anarchismo
Dottrina che propugna l’abolizione di ogni governo sull’individuo e, di conseguenza, l’abolizione dello Stato. Non c’è un’ortodossia anarchica, né un corpo di principi dogmatici, e neppure una tradizione organizzativa unitaria dell’anarchismo. Nel suo significato più ampio esso comprende un insieme di dottrine e di tendenze che si sviluppano in un arco di tempo di oltre tre secoli, dalla rivoluzione inglese del 17° sec. alla fine del 20° secolo. Al centro di questo insieme variegato di posizioni e di correnti vi è la convinzione comune che il governo è tanto dannoso quanto inutile. Di qui deriva il termine «anarchismo», la cui radice greca significa «mancanza di governo». Verso la metà del 1 ° sec., l’a. assunse una fisionomia particolare ed ebbe, in un primo tempo, un carattere quasi esclusivamente filosofico; in seguito, l’a. fu inteso come dottrina di un determinato assetto giuridico e sociale, in cui è eliminato, o ridotto al minimo, il potere centrale dell’autorità. Questo a. politico ha il suo classico fondamentale in P.-J. Proudhon, ed è stato particolarmente sviluppato, nella teoria e nella pratica, da M. Bakunin (che nella I Internazionale si scontrò duramente con K. Marx) e da P. Kropotkin, oltre che celebrato, in campo letterario, da L. Tolstoj. Esso si impernia sull’idea di un estremo decentramento dei poteri amministrativi della società, perché i lavoratori possano organizzare da sé, partendo dai nuclei più piccoli e nel modo più diretto, la proprietà e l’amministrazione dei mezzi di produzione e, in genere, dell’intera ricchezza; quindi, pur condividendo pienamente (e anzi accentuando anche maggiormente) l’ideale collettivistico e anticapitalistico del comunismo, si oppone radicalmente al suo centralismo autoritario. Il movimento anarchico, in questo senso, ebbe largo sviluppo nella seconda metà del sec. 19° e anche nei primi decenni del 20° (per es. in Spagna) e avversò qualsiasi forma di governo sia autoritario sia liberale. Numerosi furono gli attentati e i moti rivoluzionari ispirati dall’a.: l’uccisione del presidente francese Carnot a opera dell’italiano Caserio (1894), quella del presidente spagnolo Cánovas del Castillo (1897), quella di Umberto I (1900) per mano di G. Bresci, in risposta all’eccidio del generale Bava Beccaris. Durante la rivoluzione russa del 1917 gli anarchici si opposero al Partito bolscevico e alla dittatura del proletariato; hanno poi svolto una parte di primo piano nella rivoluzione e nella guerra di Spagna (1936-38).
In Italia l’a. fu diffuso attorno alla metà del 19° sec., intrecciandosi con le vicende del movimento operaio. Raggiunta l’unità del Paese, ex mazziniani e garibaldini, influenzati da Bakunin, che soggiornò per qualche tempo in Italia, si avvicinarono all’anarchismo. Una nuova leva, tra cui spiccavano E. Malatesta, A. Costa e C. Cafiero, prese quindi le redini del movimento, che nel congresso di Bologna (1872) prevalse sulle tendenze marxiste. I piani rivoluzionari del 1873-74 furono però stroncati, provocando un ripensamento in particolare in Costa, che divenne uno dei leader del movimento socialista. Dopo l’attentato di Bresci, l’a. italiano fu perseguito e colpito, perdendo intanto terreno sul piano politico. Le azioni terroristiche del marzo 1921 finirono col favorire la reazione fascista. Durante il regime, l’a. fu duramente represso. Dopo la caduta del fascismo, riprese vita un movimento anarchico o libertario che nel sett. 1945 costituì la Federazione anarchica italiana. Entrato successivamente in crisi a causa di dissidi interni, il movimento anarchico italiano, analogamente a quanto accadde in vari paesi europei, ebbe una momentanea ripresa alla fine degli anni Sessanta sull’onda del fenomeno della contestazione giovanile.