Anassagora
. Filosofo greco, nato a Clazomene tra il 500 e il 496 a.C. Ad Atene, dove si era trasferito, entrò in contatto con Socrate e fu maestro di Euripide e Pericle, per la cui amicizia fu coinvolto in un processo (432 circa). Accusato di empietà per aver sostenuto che Luna e Sole non erano divinità, ma terra e pietra, fu condannato, riuscendo però a riparare a Lampsaco, dove morì nel 428. Filosofo naturalista d'ispirazione ionica, A. concepiva la realtà come una materia cosmica, unica e infinita, composta di infinite qualità (‛ semi ' o ‛ omeomerie ' ), concorrenti tutte quante alla formazione di ogni singola cosa. Inoltre, a presiedere il moto e l'ordinamento del tutto, A. poneva un principio animatore, l'Intelletto.
D. cita il nome di A. tra quelli dei filosofi greci, nel Limbo, in lf IV 137 Dïogenès, Anassagora e Tale, / Empedoclès, Eraclito e Zenone. A comprendere la sua presenza nel Limbo dantesco, giova ricordare come A. fosse passato alla tradizione come un campione della vita contemplativa, spregiatore delle ricchezze, dedito alla scienza e alieno da ogni preoccupazione pratica (cfr. Diogene Laerzio Vitae philos. II 3, Vincenzo di Beauvais Speculum historiale III 23, Gualtiero Burley De Vita et moribus philosophorum XVIII). Di lui si narrava che affermasse come unico scopo della vita la contemplazione del cielo, che considerava sua unica patria (cfr. Calcidio Comm. in Tim. 266); che, indifferente alle ricchezze, lasciasse l'eredità ai familiari (Cic. Tusc. V XXXIX 115; Valerio Massimo VII II 12, VIII VII 6; Giovanni di Salisbury Policraticus VII 13, e anche 5; Brunetto Latini Tresor II 47; in Vincenzo di Beauvais Spec. doctrinale v 129 compare come un exemplum del contemptus saeculi), e che, informato della condanna e della morte del figlio, rispondesse di sapere di averlo generato mortale (cfr. Cic. Tusc. III XIV 30, e v. anche I XLIII 104; Valerio Massimo V X 3; s. Girolamo Epist. LX 5).
Una seconda citazione di A. è in Cv II XIV 6, dove D. espone le antiche opinioni sulla galassia: Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò [la Galassia] era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro.
In realtà, il testo che ha presente D. (Aristotele Meteor. I 8, 345a 25 ss.), sia nella translatio vetus che in quella nova, non riporta tale opinione come di A. e Democrito. È detto infatti: " Qui... circa Anaxagoram et Democritum lumen esse lac astrorum quorundam aiunt. Solem enim sub terra latum non respicere quaedam astrorum... horum proprium lumen aiunt. Manifestum est autem quod et hoc impossibile ", per essi cioè la Galassia sarebbe formata dal lume proprio delle stelle non illuminate dal sole, per l'interposizione della terra. Commenta Averroè (ad l.): " Inquit Socii autem Anaxagorae, et Democriti dixerunt quod Galaxia est lumen stellarum, ad quas non pervenit lumen solis cum terra occultat ipsas... Sermo iste est erroneus duobus modis ", e Alberto Magno (Meteor. I II 3): " Illi autem qui imitabantur Anaxagoram et Democritum, dixerunt quod Galaxia est lumen mutuatum a sole quibusdam stellis: et hoc modo dicitur lumen illarum stellarum. Ponunt enim isti quod radius solis non incidit omnibus stellis, sed potius propter terrae interpositionem retrahitur a quibusdam... Dico autem quod istud stare non potest ". Invece il lume di sole ripercusso in quella parte [cioè della galassia] è una terza opinione ', senza citazione d'autore, esposta da Aristotele immediatamente dopo quelle dei Pitagorici e di A. e Democrito (Meteor. 18, 345 b 10 ss.); " Amplius autem est tertia quaedam suspicio de ipso. Dicunt enim quidam lac esse refractionem nostri visus ad solem, sicut et stellam cometam. Impossibile autem et hoc ". Averroè, nello stesso luogo, commenta: " Inquit Alii autem dixerunt quod Galaxia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum sicut reflectitur radius a speculo super parietem... Hoc autem est error ", e Alberto Magno (Meteor. I II 4): " Fuerunt autem alii qui dixerunt, quod galaxia est lumen quod redditur orbi stellato, reflexum in ipsum ab aere humido quod est sub ipso: et huius simile ponunt in speculo ", dove è da notare che nella confutazione della tesi, Alberto usa l'espressione lumen repercussum: " Dico autem quod iste sermo istorum est error, quia nos videmus quod omne lumen repercussum sive a speculo vel a superficie corporis humidi... semper repercutitur ad oppositum corporis luminosi, a quo incidit radius ".
D. dunque sembrerebbe aver attribuito impropriamente una tale tesi ad A. e Democrito, pur avendo presente, come esplicitamente afferma, il testo aristotelico. Ma a rendere più problematico il passo c'è l'espressione finale e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Se, conformemente all'uso di D., ‛ riprovare ' è nel significato di " confutare ", non avrebbe senso affermare che i due filosofi greci confutarono la loro stessa opinione. Ma oppinioni è al plurale, e dovrebbe quindi includere anche quella dei pitagorici (citata al § 5), mentre, invece di " confutarono ", riprovaro dovrebbe intendersi, con accezione insolita, " confermarono ". Ma questo non trova conforto nei testi citati, in cui non compare nessuna ‛ ragione dimostrativa ' arrecata da A. e Democrito in appoggio alla loro tesi e a quella dei Pitagorici. Piuttosto, come s'è visto, quelli che ‛ confutarono ' tale tesi furono Aristotele e, dietro di lui, i suoi commentatori, che a ognuna delle opinioni facevano seguire la confutazione (Tommaso, ad esempio, usa per questo il termine reprobare: cfr. Comm. in Meteor. lect. XII " reprobat [Aristotele] hanc opinionem [di A. e Democrito] per duas rationes "; e, ancora, alla lect. XIII, " reprobatis opinionibus aliorum de circulo lacteo, hic ponit [Aristotele] propriam opinionem "). Quindi è fortemente improbabile che soggetti di riprovaro siano A. e Democrito. Ci troveremmo così di fronte a un passo lacunoso del Convivio. Del resto, che D. seguisse da vicino l'esposizione di Aristotele, è provato dal parallelismo del Convivio con i Meteorologica. D. riporta l'opinione dei Pitagorici (Cv II XIV 5 = Meteor. I 8, 345a 13 ss.), poi quella di A. e Democrito (§ 6; cfr. Meteor. 345a 25 ss., il cui contenuto non corrisponde a quello dantesco, che è invece quello di 345b 10 ss., cioè la ‛ terza opinione ') e infine quella di Aristotele (§ 7 = Meteor. 345b 32 ss.). Un rapporto così stretto tra i due testi ci autorizza a ritenere che non mancasse in D. l'esposizione della tesi di A. e Democrito quale appare in Aristotele, ma che poi cadde per un errore di copista, rimanendo attribuita ad essi la tesi di Meteor. I 8, 345b 10 ss. Parimenti, la difficoltà d'intendere riprovaro suggerirebbe una giunta che abbia come soggetti Aristotele e i suoi commentatori che, questi sì, usarono di ragioni dimostrative nel ‛ confutare ' le tesi di Pitagora, A. e Democrito.