FONTEBUONI (Fontibuoni, Fontibonius), Anastagio (Anastasio, Astasio, Stagio)
Figlio di Piero di Stagio, nacque a Firenze il 21 sett. 1571., come risulta dall'atto di battesimo (Papi, 1986, p. 91); la famiglia abitava nella parrocchia di S. Simone e il padrino di battesimo fu Camillo degli Albizzi, a cui i Fontebuoni erano forse legati da rapporti di vicinato (Firenze, Archivio dell'Opera di S. Maria del Fiore, Battesimi - Maschi, 1571-77, I-Z, f. 123v).
Del resto già il Baglione (1642) e il Baldinucci (1688) lo ricordano come fiorentino e sembra che la famiglia vantasse titoli di nobiltà se - come risulta da una lettera del 1615 del fratello Bartolomeo (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 2712, cc. 134 s.) - disponeva di una stemma. Tuttavia Tolomei (1821) annovera la famiglia del F. tra quelle di Pistoia e in effetti la medesima fonte epistolare rende nota l'esistenza di un ramo pistoiese dei Fontebuoni.
Sono di nuovo il Baglione e il Baldinucci a indicare la formazione del F. nella bottega di D. Cresti, il Passignano, notizia confermata da una nota a margine all'atto di immatricolazione all'Accademia del disegno, dove venne accolto l'8 luglio 1590 e della quale fu console nel 1594 e poi nel 1622. Non sono state rinvenute opere risalenti agli anni di apprendistato, ma possiamo affidarci al Baldinucci (1688, p. 333) che ne ricorda gli esordi nella chiesa gesuita di S. Giovannino a Firenze, dove dipinse una Crocifissione di s. Pietro, un Martirio di s. Bartolomeo, nonché un'Annunciazione con angeli musicanti (affresco, in controfacciata), opere in mediocri condizioni già al tempo del Baldimicci e che possono risalire agli inizi degli anni Novanta, quando la prima decorazione della chiesa stava ormai per essere completata.
Il 18 marzo 1599 il nome del F. compare per l'ultima volta nei registri cinquecenteschi dell'Accademia del disegno (Papi, 1986, p. 91): è il terminus post quem per l'inizio del ventennale soggiorno romano. Il trasferimento fu dovuto non solo a generiche prospettive di lavoro connesse all'imminente scadenza giubilare, ma soprattutto alla possibilità di partecipare alla decorazione pittorica della chiesa di S. Prisca sull'Aventino, prima traccia della presenza del F. a Roma, nonché della sua attività pittorica.
Il radicale restauro dell'edificio, promosso dal cardinale B. Giustiniani, che lo affidò all'architetto aretino C. Lambardi, venne condotto in tempi molto stretti, tra il 1599 e il 1600. In tali condizioni non è difficile immaginare gli allievi del Passignano - che da Firenze inviò la pala per l'altare maggiore - portare avanti un lavoro di équipe, diretta, come lasciano intendere le fonti, dallo stesso Fontebuoni. La scelta dell'architetto e dei pittori conferma l'orientamento toscaneggiante del committente, legato al cardinale Alessandro de' Medici.
Impresa pittorica a più mani, dunque, quella di S. Prisca: in tale contesto la Sricchia Santoro (1974) riconosce il pennello del F. nelle due grandi scene disposte ai lati del presbiterio, il Martirio e la Traslazione del corpo di s. Prisca. Chiarezza narrativa e severità nella composizione sono molto vicine alla maniera del Passignano, caratteri stilistici che non emergono con altrettanta evidenza nella decorazione della navata e della cripta.
Vicina nello spazio e nel tempo è la decorazione pittorica dell'abside di S. Balbina, commissionata dal cardinale titolare Pompeo Arrigoni in occasione del giubileo. Nel (molto ridipinto) Cristo in gloria tra santi e angeli musicanti è concordemente riconosciuta una prima reazione - e in questo si nota uno stacco con i dipinti di S. Prisca - al mondo figurativo romano. Più che all'esempio di Caravaggio o del Commodi a S. Vitale (Papi, 1986, p. 91) si direbbe che il F. guardi soprattutto alla pittura di G. Baglione.
Il legame con l'Arrigoni non si limitò a un incontro episodico, ma pare configurarsi come un rapporto più stabile, che ebbe una certa importanza, almeno fino al 1607, quando il presule, in disgrazia, dovette allontanarsi da Roma. Ne sono prova non solo "le diverse invenzioni" (Baldinucci, 1688, p. 334) che il pittore avrebbe realizzato per il prelato, ma anche la residenza o, almeno, la familiarità del F. presso la sua dimora romana, palazzo Orsini a Campo de' Fiori (Noack, 1915; Sricchia Santoro, 1974), che il cardinale tenne a disposizione fino alla sua scomparsa (1616). "Al mio carissimo fratello Anastagio Fontebuoni, pittore nel palagio del cardinal Arigon en Roma", così è indirizzata una lettera, che il fratello Bartolomeo gli inviò dall'India nel 1609 (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 2712, c. 133).
Due pale d'altare, firmate e datate 1606, costituiscono un ulteriore punto di partenza per definire la prima attività romana del F.: l'Annunciazione per la chiesa agostiniana di S. Lucia in Selci e la Madonna con Bambino e santi già nella chiesa dei Ss. Vincenzo e Ariastasio a Rignano Flaminio. Il comporre scarno e asciutto è memore della maniera del Passignano, mentre l'insistito contrasto luministico dal quale emergono le figure è un'evidente eco caravaggesca, che viene tuttavia recepita tramite la vulgata del Baglione. Del tutto omogenee sul piano stilistico la rovinatissima Madonna con Bambino e santi (Norcia, S. Agostino) e il S. Gregorio benedicente nell'omonima chiesa romana del Celio: la prima, che mostra la firma dell'autore, viene collocata "allo snodo tra primo e secondo decennio del Seicento" (Barroero, 1989); nella seconda, forse opera di bottega, emergono spigolosità devote che farebbero protendere verso una datazione più alta, comunque non anteriore al 1605 (Pedrocchi, 1995).
Il completo inserimento nel mondo artistico romano è attestato anche dalla ammissione all'Accademia di S. Luca, alla quale il F. versò 20 giuli il 18 ott. 1607, in occasione della festa dell'Evangelista (Noack, 1915). A partire dal 1610 si delinea un diverso orientamento nella sua pittura: emergono interessi naturalistici che verranno progressivamente approfonditi nel corso del secondo decennio del secolo, in sintonia con il caravaggismo romano di prima generazione che legge la pittura del Merisi attraverso la realtà di natura di A. Elsheimer e il colorismo di C. Saraceni e di O. Gentileschi.
Punto di partenza e primo manifestarsi di tale tendenza si rintraccia negli affreschi di S. Salvatore a Cori (Zeri, 1954), firmati e datati 1610, nei quali le novità romane sono ancora imbevute della tradizione fiorentina. Una linea di tendenza non senza contraddizioni e ripensamenti, come emerge dall'astratto e raffinato comporre dell'Annunciazione con i ss. Biagio e Girolamo, dipinta nel 1611 per il duomo di Albano, dove permane quella cifra severa e devota del primo Fontebuoni.
Gli affreschi di Cori e la tela di Albano possono essere considerati l'inizio per il F. di un periodo di intensa attività, che oggi è attestata in maniera quasi esclusiva dal sostanzioso elenco riportato dal Baglione e dal Baldinucci, dalla letteratura periegetica e da quanto emerge dagli archivi: lavorò nella sagrestia di S. Giacomo degli Spagnoli, nel coro di S. Giovanni dei Fiorentini (1615), affrescò la cappella privata di palazzo Borghese a Campo Marzio (1617) e, alla fine del secondo decennio, decorò la cappella del Ss. Sacramento nella basilica di S. Paolo fuori le mura, che venne completata da G. Lanfranco.
Oggi gli vengono attribuiti (Negro, 1994) gli affreschi con le Storie della Croce di Rignano Flaminio (1614), che si avvicinano molto alla maniera di A. Ciampelli, ma soprattutto la decorazione della cappella della Vergine a S. Giovanni dei Fiorentini e il piccolo rame con la Predica del Battista (Firenze, Pitti), che costituiscono il caposaldo dell'ultima attività romana e, forse, il momento più alto della sua carriera.
I dipinti murali in S. Giovanni dei Fiorentini sono successivi ai perduti interventi nel coro della chiesa (1615) e vanno collocati alla scadere del soggiorno romano. L'incarico, condiviso con il Ciampelli, è di grande prestigio, considerata la posizione della cappella a destra del presbiterio, sottoposta al patronato della nazione fiorentina. Nella Morte della Vergine il F. riprende e sviluppa la lezione del Saraceni a S.Maria della Scala, utilizzando anche la tecnica a olio su muro per ottenere un lume notturno che esalti e saturi la tavolozza, memore, ancora una volta, dell'esempio del caravaggista veneziano. Il medesimo orientamento si ritrova nella citata Predica del Battista, che, assieme a una Maddalena penitente (dispersa), l'artista aveva donato al granduca Cosimo Il (morto nel 1621). Raro esempio di pittura di paesaggio nel catalogo del F. e deliberata citazione da Elsheimer - a cui è stato anche attribuito (Chiarini. 1989-90) - il dipinto testimonia la conoscenza non superficiale di quegli interessi naturalistici e lincei che a Roma avevano trovato assidui cultori proprio tra i committenti toscani.
Nel luglio 1620 il F., dopo un contrasto con i benedettini di S. Paolo fuori le mura, rientrò definitivamente a Firenze, mettendo a frutto l'esperienza romana: ricercato da committenti famosi, mantenne il consolidato legame con gli ordini religiosi, in particolare con i cisterciensi, muovendosi tra Firenze e Pistoia (Luzio, 1913), città nella quale Noack (1915) segnala una Deposizione dalla Croce nella chiesa di quell'ordine. Al 1621 risale il S. Bernardo e il Crocifisso (ora a Prato, Cassa di Risparmio, già a Bassano di Sutri), dipinto a Firenze e destinato in origine all'altare maggiore di S. Bernardo a Imola (Mazza, 1989). In quest'opera e nella Madonna di Pistoia (Hampton Court), commissionata da Ferdinando Gonzaga tra il 1622 e il 1623, la smagliante cromia e il risalto chiaroscurale si fondono in una tensione naturalistica che scaturisce dagli ultimi esiti del soggiorno a Roma. Tra il 1620 e il 1621 si colloca anche il Michelangelo al cospetto di Giulio II a Bologna (Firenze, Casa Buonarroti), parte del cielo commissionato da Michelangelo Buonarroti il giovane per celebrare l'omonimo antenato nella rinnovata dimora di via Ghibellina.
L'impresa ebbe una lunga gestazione: sappiamo che già nel 1616, poco dopo essere stato contattato a Roma tramite Piero Falconieri, il F. aveva inviato a Firenze uno schizzo, messo in opera l'anno successivo. Tuttavia il quadro in situ è una nuova versione dipinta tra il luglio 1620 (immediatamente a ridosso del ritorno a Firenze) e quello del 1621; esigenze di decoro e chiarezza nel presentare la narrazione storica e, forse, ricerca di unità formale del cielo da parte del committente inducono quasi a un ridimensionamento degli accenti romani, percepibili solo nella squillante e levigata tavolozza.
Un definitivo cambiamento si percepisce nella decorazione del casino mediceo di S. Marco (1621-23), commissionatogli dal cardinale Carlo de' Medici, dove il F. affrescò insieme ad aiuti l'Incoronazione e l'Apoteosi di Cosimo I, nonché la Presa di Siena. L'impianto architettonico e prospettico conferisce ai dipinti un tono magniloquente del tutto nuovo nell'opera del F., che sembra risentire della maniera di M. Rosselli. Sempre per i Medici nel 1624 lavorò nella villa di Poggio Imperiale, residenza della granduchessa vedova Mana Maddalena d'Austria: nella stanza delle Vergini martiri, dove sono all'opera anche il Rosselli e O. Vannini, è sua la S. Agata, assegnatagli già dal Baldinucci (1688).
Dal ritorno del F. a Firenze fino alla sua scomparsa una vasta messe di documenti attesta la quasi ininterrotta collaborazione con i cisterciensi del convento del Cestello a Borgo Pinti (ora S. Maria Maddalena dei Pazzi) e dell'abbazia di Settimo a Scandicci, sovraintesa dall'abate Attilio Brunacci, per il quale nel 1622 realizzò un Martirio di s. Stefano. Per il convento di Borgo Pinti nel 1623 dipinse le lunette del chiostro con il Martirio di Pietro da Castelnuovo e quello di S. Bernardo d'Alsazia., affreschi staccati e ora in deposito a palazzo Pitti e a villa Corsini. L'opera più significativa tra quelle realizzate per i cisterciensi e stilisticamente vicina al S. Bernardo e il Crocifisso, oggi a Prato, è il S. Martino che resuscita un fanciullo (firmata), sull'altare maggiore di S. Martino alla Palma, grangia dell'abbazia di Settimo, dove rimangono anche le lunette nel corridoio del dormitorio e la biblioteca dell'abate, che il F. affrescò nel 1624.
Nel 1626 venne coinvolto in un'impresa collettiva di una certa risonanza: i dipinti per il Cabinet Doré del palazzo del Lussemburgo a Parigi, sollecitati alla corte granducale da Maria de' Medici e ritrovati dal Blunt (1967) nella collezione Elgin a Broornhall (Fife, Scozia). Furono invitati i pittori fiorentini di maggiore spicco a illustrare non solo lo storico legame tra la corona di Francia e i Medici, ma anche, nelle intenzioni della committente, a raccogliere nella nuova reggia quanto di meglio offriva la pittura europea. Al F. venne affidato il Troilo Orsini che soccorreCaterina de' Medici e Carlo IX, che gli fu pagato 130 scudi, cifra inferiore a quella corrisposta al Passignano, suo antico maestro, o a quella assegnata al più giovane G. Bilivert, ma che comunque ne mette in evidenza il ruolo di autorevole comprimario nella Firenze del primo Seicento.
Il F. morì a Firenze il 10 luglio 1626.
Controversa e sfuggente è la ricostruzione della sua opera grafica, che fu di certo ragguardevole: difficoltà che nasce dal totale silenzio della Listra del Baldinucci e dalla mancanza di disegni che possano essere collegati a opere certe dell'artista. Cinque fogli del Gabinetto dei Disegni degli Uffizi (Inv. 5170-5174) che portano il suo nome sono di mani diverse (Thiem, 1977); i due connessi alla decorazione del casino mediceo (Uffizi, Inv. 492, 9041F) che la Masetti (1962) ascriveva a Bartolomeo dovrebbero invece spettare al F., al quale il Thiem assegna dubitativamente un disegno di Dresda (già attribuito a Ciro Ferri), nonché l'Allegoria della poesia (Frankfurt, Städelsches Kunstinstitut, Inv. 616).
Fonti e Bibl.: G. Baglione, Le nove chiese di Roma (1639), a cura di L. Barroero, Roma 1990, pp. 81 s.; Id., Le vite... (1642), a cura di C. Gradara Pesci, Velletri 1924, pp. 163 s.; F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno (1688), IV, Firenze 1845, pp. 333-336; F. Tolomei, Guida di Pistoia..., Pistoia 1821, p. 165; A. Bertolotti, Autografi, in Giornale di erudiz. artistica, IV (1875), p. 198; A. Luzio, La galleria Gonzaga venduta all'Inghilterra nel 1627-28, Milano 1913, pp. 269-272, 292; F. Noack, in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XI, Leipzig 1915, pp. 191 s.; D.E. Colnaghi, A dictionary of Florentine painters..., London 1928, p. 101; F. Zeri, La Galleria Spada in Roma, Roma 1954, p. 81 n. 388; M. Gregori, Avant-propos sulla pittura fiorentina del Seicento, in Paragone, XIII (1962), 145, pp. 31, 35, 37 ss.; A.R. Masetti, Il Casino mediceo e la pittura fiorentina del Seicento, in Critica d'arte, IX (1962), 50, pp. 1 s., 8, 10, 12-14, 16 s.; A. Blunt, A series of paintings illustrating the history of the Medici family executed for Marie de Medicis, I, in The Burlington Magazine, CIX (1967), 774, p. 494; 775, p. 566; M. Chiarini, A painting of St. vohn the Baptist preaching in the Galleria Palatina, ibid., CXI (1969), 796, pp. 141 ss.; M. Gregori, St. John the Baptist preaching, ibid., pp. 451 s.; F. Sricchia Santoro, "La Madonna di Pistoia" e l'attività romana di A. F., in Commentari, XXV (1974), 1-2, pp. 29-46; A.W. Vliegenthard, La Galleria Buonarroti, Firenze 1976, pp. 72, 74, 76, 102-107; C. Thiem, Florentiner Zeichner der Frühbarock, München 1977, pp. 19, 23 s., 26, 279, 320 s.; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Firenze 1983, pp. 82 s. figg. 371-376; R. C. Proto Pisani, Momenti del Seicento fiorentino: il F. ritrovato di S. Martino alla Palma..., in Paradigma, VI (1985), pp. 131-150; G. Papi, in Il Seicento fiorentino... (catal.), Firenze 1986, I, pp. 151 s.; III, pp. 91 ss. (con bibl.); La pittura in Italia. Il Seicento, a cura di M. Gregori - E. Schleier, Milano 1988, I, ad Indicem; G. Papi, ibid., II, pp. 742 s.; L. Barroero, in Pittura del Seicento. Ricerche in Umbria, Perugia 1989, pp. 118 ss.; A. Mazza, Un "S. Nicola" tra Cesi e F., in Atti e memorie dell'Accademia Clementina, n.s., XXIV (1989), pp. 41-47; R. Spinelli, La collezione dell'abate Attilio Brunacci e la decorazione secentesca della Badia a Settimo, in Paragone, XI (1989), 471, pp. 27-34; M. Chiarini, Adam Elsheimer e i pittori fiorentini del primo Seicento, in Prospettiva, 1989-90, n. 57-60, pp. 205-207; R.C. Proto Pisani, La presenza di A. F. nella Badia di S. Salvatore a Settimo, in Paradigma, IX (1990), pp. 159-170; A.M. Rybko, in L'arte per i papi e per i principi nella campagna romana..., Roma 1990, I, pp. 45 s.; R. Spinelli, in Bernardo di Chiaravalle nell'arte italiana, a cura di L. Dal Prà, Milano 1990, pp. 186 s. n. 43; E. Fumagalli, Palazzo Borghese. Committenza e decorazione privata, Roma 1994, pp. 49-51; A. Negro, Un ciclo di affreschi inedito del F.: le "Storie della croce" a Rignano Flaminio, in Boll. d'arte, s. 6, LXXIX (1994), 83, pp. 65-80; A.M. Pedrocchi, San Gregorio al Celio, Roma, Roma 1995, p. 54 fig. 33.