ANASTASIO Bibliotecario
Trascorse a Roma la prima giovinezza (Epistolae, p.440, 8-9) e sua lingua materna fu certamente il latino (Epistolae, pp. 423, 12 e 426, 7), non il greco, come molti hanno ritenuto. Per la data di nascita ci si muove fra l'800 e l'817; la proposta degli anni 810-812, come i più probabili (cfr. Perels, pp. 186-188), era fondata su di un ragionamento il cui presupposto è risultato fallace (cfr. P. G.Théry, Contribution à l'histoire de l'aréopagitisme au IXe siècle, in Le Moyen Age, s. 2., XXV [19231, pp. 137-152).
A. era imparentato con Arsenio, vescovo d'Orte. Non addirittura suo figlio, come voleva il Lapôtre (pp. 37-39), sulla scorta di un passo di Incmaro in cui A. viene detto fratello di Eleuterio, figlio di Arsenio (Annales Bertiniani, a cura di G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Germanicarum, Hannoverae 1883, p. 92); bensì suo nipote da parte di madre, come afferma chiaramente lo stesso A., in una lettera ad Adone di Vienne (Epistolae, p.401, 18). Il testo della lettera di A., proprio a questo punto., presenta però una lacuna, che ha consentito al Lapôtre di proporre un'ingegnosa lezione la quale eliminerebbe a favore di Incmaro la discordanza fra le due fonti ("avunculi vestri, mei vero patris Arsenii", al posto di "avunculi mei, . vestri vero / .... / Arsenii" che ci è dato dall'unico manoscritto: cfr. Lapôtre, pp. 323-326; v. contra Perels, p. 189, nn. 3 e 4). Ma se carnalmente era nipote di Arsenio, si può interpretare Incmaro nel senso che abbia inteso di dire che A. era fratellastro (non un fratello) di Eleuterio, dandosi infatti la possibilità che Arsenio fosse ad un tempo suo patrigno e suo zio (cfr. Perels, p. 190 n. 2). Se non si accoglie il restauro dei Lapôtre, cade invece la parentela di A. col vescovo di Vienne: Adone, nipote - perché figlio di una sorella - di Arsenio, sarebbe stato anche cugino di Anastasio. Si sa piuttosto di un altro Adone, prete, imparentato con lui, e suo accusatore, come vedremo, nell'868 (cfr. Ann. Bert., p. 95).
Molto presto (Epistolae,p. 440, 7-9), A. si procurò quella padronanza del greco che, eccezionale allora per Roma e, in genere, per l'Occidente, restò sempre il suo principale titolo d'onore (cfr. Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, II., Paris 1892, p. 222) e fu cagione essenziale dei suoi successi, rendendo le sue prestazioni nella curia romana praticamente insostituibili, attraverso tre pontificati (Nicolò I, Adriano II, Giovanni VIII). L'esistenza in Roma di chiese e monasteri greci, che ospitavano i numerosi profughi (soprattutto monaci) che avevano abbandonato le loro sedi in seguito alla contesa iconoclastica, è più che sufficiente a spiegare come A. abbia avuto occasione di acquistare familiarità con la lingua e la cultura bizantine. Quanto alla caratterizzazione dei Greci, cui A. ha creduto di poter pervenire, è stato osservato come i difetti che egli afferma essere loro connaturali (in particolare, reccessiva furberia e una certa inclinazione alla frode: cfr. Epistolae, p. 415, 6-11 e 19-21), sono proprio gli stessi che di solito vengono rinfacciati anche a lui (Perels, p. 194).
Da papa Leone IV, forse nell'847 (al più tardi nell'848), A. fucreato cardinale prete del titolo di San Marcello. Ma, pochi mesi dopo la nomina, il neo-cardinale, all'insaputa del pontefice, abbandonò Roma e la chiesa che gli era stata affidata. La tenacia con cui, da allora in poi, Leone IV ha perseguitato A., fa pensare che, improvvisamente, per qualche motivo che non conosciamo. sia intervenuta fra i due una rottura, che si è subito cristallizzata in una irriducibile avversione di carattere personale. L'unico vero indizio di cui disponiamo sono due accenni di Leone alle ambizioni nutrite da Anastasio. II primo è nel decreto del concilio tenuto a Roma il 19 giugno 853: "omnes, qui ei sive in electione, quod absit, aut pontificatus honore adiutoriurn praestare vel solatitun quodcumque voluerint, simili anathemate subiaceant" (Ann. Bert., p.93); l'altro è nella lettera che il papa indirizzò ad A., nell'estate dello stesso anno, per invitarlo a presentarsi innanzi a un concilio convocato per il 15 novembre: "salutis... incedere summopere callem procura, te ne vana spes decipiat, caducaeque adulationes subvertant" (Actadepositionis Anastasii, in Mansi, Sacror. Concil. Nova et Ampliss. Collectio, XIV, Venetiis 1769, col. 1018). La possibilità che A., almeno nei primi tempi dopo la fuga,abbia avuto contatti con ambienti filo-imperiali (cfr. Lapôtre, p. 300) non impedisce che Lotario e Ludovico abbiano accolto la richiesta del papa di assisterlo nei suoi affannosi tentativi di mettere le mani sul fuggiasco, che abbiano anche manifestato il loro assenso alle varie sentenze di condanna. Anche se non è da pensare che A. fosse il capo del partito "imperiale" a Roma, avverso a Leone IV perché eletto papa senza beneplacito dell'imperatore, è certo che egli ambiva al pontificato e che, per raggiungere : il suo scopo, avrebbe cercato appoggi anzitutto in quella direzione; e Leone, che tentò con tutte le sue forze di sbarrargliene la strada anche per il futuro, fece appunto in modo che Lotario e Ludovico prendessero pubblicamente posizione contro di lui (cfr. Perels, pp. 201-202 e T. Hirschfeld, Das Gerichtswesen der Stadt Rom vom 8. bis 12. Jahrhundert wesentlich nach stadtrömischen Urkunden, in Archiv für Urkundenforschung, IV [1912], pp. 426 s.).
Nei cinque anni successivi alla fuga da Roma, A. abitò in varie località della diocesi di Aquileia (Acta depositionis, col.1017); nella primavera dell'853 era a Chiusi (ibid., col. 1018). Dopo due inviti a comparire in giudizio, rimasti senza risposta, A. venne scomunicato da un concilio tenutosi a Roma il 16 dic. 850 (Am. Bert., pp. 92 s.). A Ravenna, in San Vitale, il 29 maggio 853, e a Roma, in San Pietro, il 19 giugno seguente, fu decretata e ribadita una più severa condanna ("sit ille a sanctis patribus et a nobis anathema") automaticamente estensibile - come s'è visto - a quali avessero osato appoggiarlo nella realizzazione dei suoi progetti (ibid., p.93). Nel corso dell'estate, Leone si rivolse direttamente ad A., intimandogli di presentarsi il 15 novembre (la lettera è indirizzata "Anastasio presbytero excommunicato"; cfr. Acta depositionis, coll.1018 s.). Ma anche questa intimazione restò senza esito. Il concilio si tenne l'8 dicembre, in San Pietro, alla presenza dei legati imperiali: A. fu deposto dall'ufficio sacerdotale, senza possibilità di esservi mai più restituito (ibid., coll. 1017-1021; Lib. Pont., II, p. 129; Am. Bert.., pp. 93 s.).
Alla morte di Leone IV (17 luglio 855), il clero romano unanime ed in perfetto accordo con la nobiltà ed il popolo, si affrettò ad eleggere papa il cardinale di San Callisto, Benedetto. Ma la consacrazione dell'eletto poté avere luogo solo il 29 settembre, dopo che fu fallito il tentativo di contrapporgli un antipapa nella persona di Anastasio.
La Vita di Benedetto III nel Liber Pontificalis (II, pp. 141-144) dà un resoconto degli avvenimenti che, se non si segnala per obiettività e serenità di giudizio, ha però il merito di essere esteso e denso di particolari: l'inizio, della congiura si ebbe a Gubbio, quando Arsenio convinse i legati Nicolò, vescovo di Anagni, e il magister militum Mercurio, che erano partiti da Roma per recare all'imperatore il decreto d'elezione, a non serbare fedeltà all'eletto, e ad eleggere, al suo posto, A.; l'iniziativa si concretò poi ad Orte, dove convennero intorno ad A. i legati mandati nel frattempo dall'imperatore e quanti, a Roma, primo fra tutti Radoaldo, vescovo di Porto, si erano lasciati trascinare dall'abile propaganda svolta dal vescovo Nicolò e dal suo compagno, dopo il loro rientro dalla missione presso Ludovico II; da questo momento saranno i legati imperiali a guidare l'impresa. La marcia di avvicinamento a Roma; l'imprigionamento dei legati spediti incontro ai sopravvenienti da Benedetto III, quando si fu reso conto di ciò che si stava preparando; l'assalto a San Pietro, dove A. ebbe cura di distruggere le pitture che Leone IV aveva fatto fare sulle porte, a ricordo dei sinodo dell'853, e che recavano in riassunto le sentenze di condanna pronunciate contro il contumace cardinale di San Marcello; l'entrata in città e l'irruzione a mano nel patriarchìo lateranense ("saeculari potentia multisque telorum generibus" p. 142, 20; per "saeculari potentia", cfr. anche Ann. Bert., p. 94); la deposizione di Benedetto III e l'intronizzazione di A.: tutto avvenne in modo da fare impallidire, al confronto, il ricordo dell'incursione saracena dell'846 (cfr. Lib. Pont., II, p. 142, 14). Ma l'uso della violenza non ebbe la virtù di generare fra i Romani i consensi necessarî al consolidamento del successo; il clero, nell'insieme, tenne fermo la propria scelta iniziale, e la cittadinanza si schierò compatta dietro di esso. D'altra parte, ai legati mancò la decisione che si sarebbe richiesta per insistere con la forza - se pure, come osserva il Perels (p. 206), non fu questa forza stessa che, a un certo punto, si rivelò insufficiente. La partita era perduta: il 29 settembre, Benedetto III, reintegrato nella sua dignità, fu consacrato alla presenza dei legati imperiali. A. era stato papa in Roma per soli tre giorni.
L'appoggio che i legati imperiali avevano dato al tentativo di Arsenio e di A. sortí, però, l'effetto di indurre i vincitori alla moderazione nei riguardi di quanti avevano avuto parte nella congiura. Benedetto III non ispirò certo la propria condotta all'accanimento del suo predecessore. Nel frattempo, le persistenti ambizioni di A. erano assurte ad ingrediente di un disegno politico in cui era impegnato il prestigio dell'imperatore e, forse proprio in considerazione di ciò, la sua condanna non solo non venne aggravata, ma fu anzi alleggerita: Benedetto riammise il cardinale di San Marcello alla comunione dei laici (Ann. Bert., p.95). Il nuovo papa provvide però a far restaurare in San Pietro le pitture che raffiguravano il sinodo dell'853 (ibid., pp. 94 s.).
Gli eventi del luglio-settembre 855 hanno segnato una specie di svolta nella vita di Anastasio. Tanto che, per un equivoco, che ebbe probabilmente un'origine casuale, ma che certo si affermò e perdurò m quanto conveniva all'intento apologetico (da parte cattolica) di distinguere con nettezza la fisionomia dell'A., bibliothecarius sedis apostolicae, servitore fedele di tre papi (Mabillon, Amales O. S. B., III, Lutetiae Paris. 1706, p. 35; v. anche l'epigrafe elogiativa che gli fu dedicata in Santa Maria in Trastevere, nel 1869) ed avversario . gente di Fozio, dall'A. cardinale dì San Marcello, deposto da Leone IV, antipapa sotto Benedetto III, che - come vedremo - fu riammesso al sacerdozio e poi, di nuovo, deposto da Adriano II, si ritenne a lungo che l'A. cardinale e l'A. bibliotecario fossero due persone diverse. Alla fine del secolo scorso, un'enciclopedia protestante di storia ecclesiastica recava ancora due voci distinte, dedicate rispettivamente ad "A.,Gegenpapst" e ad "A.Bibliothecarius" (Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, I, Leipzig 1896, pp. 489 s. e 492 s.). Ma già il Hergenröther (pp. 230-240) e più estesamente il Lapôtre (pp. 8-32) avevano dimostrato l'identità esistente fra i due personaggi, con una tale ricchezza di argomenti che il Perels (pp. 317-322), venuto dopo di loro, non troverà gran che da aggiungere.
Eppure, prevenendo, si direbbe, le perplessità dei suoi biografi, A. stesso dà notizia di un suo deciso mutamento d'indirizzo. Nella dedica a Nicolò I della traduzione dal greco della biografia di Giovanni l'Elemosiniere, A. confessa di essersi reso conto che, in passato, aveva troppo presunto delle sue forze, di essersi quindi domandato a che cosa di utile poteva attendere nella casa del Signore una volta che avesse rinunciato a perseguire obiettivi sproporzionati alle proprie capacità ed alla propria condizione, e di aver fatto buona accoglienza, in questo stato d'animo, all'invito, che gli veniva rivolto, di intraprendere la traduzione della vita del patriarca di Alessandria (Epistolae, p. 396, 25-30; cfr. Laehr, pp. 417 s.: la lettera-prefazione a Nicolò I va collocata negli anni 858-862). Anche se ci sono molti punti di contatto fra il nuovo A. e quello che abbiamo conosciuto fin qui, ed il tono complessivo della lettera a Nicolò è troppo insinuante ed adulatorio perché si possano prendere sul serio i propositi che si trovano espressi all'inizio, è certo che, dopo l'855, A. deve avere realizzato che la conoscenza dei greco gli avrebbe aperta la via del reinserimento e della riabilitazione, salvo a rivelarsi col tempo un'arma da porre al servizio delle proprie antiche ambizioni. Laccesso al pontificato gli era ormai precluso, ma il potere, cui egli ambiva, e che il colpo di mano dell'855 non era stato in grado di assicurargli, lo avrebbe avuto lo stesso, anche se rimanendo nell'ombra.
Lentamente, ma con progressi costanti, A. ottenne che la sentenza dell'853 fosse mutata: Nicolò I promise di restituirlo al sacerdozio, a patto che si mantenesse fedele alla Chiesa (Ann. Bert., p. 95), e Adriano II, il giorno stesso in cui fu consacrato pontefice, adempirà la promessa dei suo predecessore (Lib. Pont., II p.175, 16-21). Frattanto, forse già ai tempi di Benedetto III, ma certamente con Nicolò I, A. ottenne la dignità abbaziale nel monastero di Santa Maria in Trastevere (Epistolae, p. 399, 7-8): non una fuga dal mondo, bensì la soluzione con cui (come era accaduto anche in altri casi) si provvedeva ad assicurare la sussistenza di un ecclesiastico rimosso dal suo ufficio.
Nelle more di questa graduale riabilitazione, A. divenne il prezioso ed insostituibile collaboratore di Nicolò I. Per induzione, il punto di partenza delle sue fortune in curia è stato segnato alla fine dell'861 o, più verosimilmente, all'inizio dell'anno successivo (Perels, pp. 215-217). Nel momento in cui, dopo il sinodo costantinopolitano del maggio dell'861, la questione di Fozio entrava nella sua seconda fase., e Roma, rotti gli indugi iniziali, si disponeva a passare alla controffensiva, ci si dovette accorgere che non era il caso di lasciare A. nel suo monastero trasteverino alle prese con traduzioni di vite di santi, quando invece la sua conoscenza del greco poteva essere utilmente impiegata nella battaglia.
Ma la prima sicura testimonianza sulla presenza di A. accanto a Nicolò I è dell'autunno dell'863; ha la forma di una sdegnata protesta contro la fiducia accordata dal papa a un prete ch'era stato scomunicato e deposto, e si riferisce a una vicenda in cui A. aveva evidentemente avuto una parte di primo piano, benché in questo caso i rapporti con l'Oriente greco non ci entrassero affatto. L'accenno ad A. è contenuto nel capitolo terzo dei memoriale inviato a Nicolò I dai vescovi lorenesí Guntero e Tilgaldo dopo la loro condanna nel sinodo romano dell'863: "... assistente lateri tuo Anastasio, olim presbytero ambitus damnato et deposito et anathematizato, cuius scelerato magisterio tuus praecipitabatur furor" (Annales Fuldenses, a cura di F. Kurze, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerun Germanicarum, Hannoverae 1891, p. 61).
In nemmeno due anni, l'esperto di cose orientali aveva fatto la sua strada: senza ancora ricoprire alcuna carica, A. svolgeva le funzioni di segretario particolare, segreto, di Nicolò I, ed in tale veste dava il suo consiglio e - soprattutto - aveva parte nella redazione delle lettere papali (Perels, p. 243).
Nel novembre dell'867, proprio alla fine dei pontificato di Nicolò I, Incmaro arcivescovo di Reims, volendo assicurare un efficiente appoggio sul posto al suo inviato, Attardo di Nantes, che doveva trasmettere al papa gli atti del sinodo di Troyes (25 ottobre) e prendere contatto con i dignitari della Curia, primo fra tutti Arsenio, si rivolse personalmente ad A.; il quale, dato che Incmaro, nel luogo donde scriveva, non disponeva di doni adeguati per il papa, per Arsenio e per lui stesso veniva pregato di accettare per l'intanto, pro nostrae [di Incmaro] exiguitatis memoria", una pelliccia ed un panno "coloribus vario" (cfr. Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VIII, 1, Berolini 1939, pp. 223-225). Il vescovo di Nantes arrivò a Roma quando Nicolò I era già morto (Ann. Bert., p. 90), ma anche col nuovo papa A. non tralasciò di esercitare la sua influenza nel senso desiderato da Incmaro, riuscendo benissimo nell'intento (cfr. la lettera di Adriano II all'arcivescovo di Reims, 8 marzo 868; a cura di E. Perels, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VI, Berolini 1925, pp. 710 s.; Incmaro scrisse ad A. una lettera di ringraziamento, accompagnandola questa volta col dono di alcuni suoi opuscoli: cfr. il regesto della lettera in Flodoardo, Historia Remensis ecclesiae, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptores, XIII, Hannoverae 1881, pp. 535 s.).
Con Adriano II, la situazione di A. si era infatti ancora rafforzata, se non altro nel senso che aveva subito avuto un riconoscimento ufficiale. Riammesso al sacerdozio il giorno della consacrazione di Adriano (14 dic. 867), A. immediatamente dopo fu nominato dal papa "bibliothecarius Romanae ecclesiae" (Ann. Bert., p. 92), il funzionario che, oltre ad attendere al lavoro di cancelleria, era responsabile della conservazione degli atti dei concili, dei registri delle lettere e, in genere, dei libri che costituivano la biblioteca del papa. Nel protocollo della lettera in cui annunciava ad Adone di Vienne la morte di Nicolò e l'avvento di Adriano Il, A. appare già investito della nuova carica (Epistolae, p.400, 27). Il titolo di questa lettera, nel codice (Vatic. Reg. lat. 566) che ce l'ha conservata, riflette esattamente la posizione di A. all'inizio dell'868: "Epistola reverendi Anestasii [sic] presbiteri et abbatis ac bibliothecarii sacrae Romanae ecclesiae".
Scrivendo ad Adone, A. si mostra preoccupato delle intenzioni del papa circa le grosse questioni rimaste sul tappeto dopo la morte di Nicolò I: tutti i colpiti si preparavano a rialzare la testa e, "falso, ut credimus", si dice che l'imperatore sia schierato con loro; di certo, si sa che l'animo di Adriano pende da quello di Arsenio e che quest'ultimo ha dei motivi di risentimento verso il papa defunto. In conclusione, A. invitava Adone a vegliare dalla periferia sul rispetto delle decisioni adottate da Nicolò I, prospettando tale esigenza come una questione di principio che riguardava tutta la Chiesa: "nam si tanti pontificis acta cassantur, vestra, quaeso, ubi parebunt?" (Epistolae, pp.400 s.; cfr. Laehr, pp. 421-425; il Perels, p. 252, cita alcuni passi di lettere di Nicolò, presumibilmente redatte da A., in cui ritorna lo stesso motivo).
Tra le materie giudicate, se non da Nicolò, dai suoi immediati predecessori, c'era però anche la condanna più. volte ribadita contro il cardinale di San Marcello. E, in questo caso, sembra che A. abbia fatto un'eccezione alla regola da lui enunciata, provvedendo a far scomparire dal patriarchìo lateranense, subito dopo la morte di Nicolò I, nel momento di confusione che seguiva immancabilmente alla fine di ogni pontefice, il dossier relativo al suo burrascoso passato, in modo di accelerare i tempi della propria riabilitazione. Tale è, per lo meno, una delle accuse collaterali che gli saranno contestate quando si troverà coinvolto nella vicenda che ebbe per protagonista suo cugino Eleuterio (Ann. Bert., p. 95). L'accusa, data la spregiudicatezza di A., non è affatto inverosimile. E se si può sostenere che, nell'economia generale della vita della Chiesa, l'episodio del cardinale di San Marcello aveva avuto, ed aveva un'importanza molto minore della questione - per esempio - del divorzio di Lotario II, si deve però ammettere che, a parte altre considerazioni fin troppo ovvie sui doveri di un fimzionario, era la questione di principio a venire in tal modo sacrificata, e proprio ad opera di chi aveva avuto il merito di impostarla con tanta nettezza.
Durante i primissimi tempi del pontificato di Adriano, A., in nome di una intransigente difesa delle direttive che erano state proprie del predecessore, si sarebbe dunque mantenuto su di una posizione di attesa o addirittura di diffidenza nei confronti del nuovo papa,, di Arsenio e del cosiddetto partito imperiale. Ma tale diffidenza, ch'egli ha forse artificialmente accentuata nella lettera ad Adone, non si precisò mai in un contrasto vero e proprio. Menzionati entrambi nella lettera di Adriano II ad Incmaro, dell'8 marzo, come suoi fidatissimi consiglieri (cfr. Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VI, loc. cit.), Arsenio ed A., insieme, avevano aiutato Costantino e Metodio, gli apostoli (o dottori) degli Slavi, e i loro compagni, a predisporre il primo ciclo di ufficiature in lingua slava in alcune chiese di Roma (Vita di Costantino, cap. XVII: cfr. Dvornik, Les légendes..., p. 378 e Grivec, p. 79).
Fra la fine dell'867 e l'inizio dell'anno seguente; la venuta a Roma di Costantino e di Metodio - un successo di Nicolò I, i cui frutti venivano colti da Adriano - aveva certo rappresentato un'altra delle occasioni nelle quali la familiarità acquisita col mondo bizantino consentì ad A. di mettersi in luce. Ma, a parte il nuovo aumento di prestigio, l'incontro soprattutto con Costantino il Filosofo, che, un tempo, a Costantinopoli, aveva ricoperto presso il patriarcato le stesse funzioni che ora A. ricopriva nella curia romana, lasciò una traccia profonda nel suo animo: a distanza di anni, giudizi pronunciati allora da Costantino e interi brani della sua conversazione saranno riportati testualmente da A., con il riguardo che si usa alle autorità indiscusse (Epistolae, p. 407, 11-25: a. 871; p. 433, 17-26: p. 875; pp. 436, 21- 437,5: p. 875; cfr. F. Dvornik, Les Slaves, Byzance et Rome au IXe siècle, Paris 1926, pp. 198 s.).
Il giorno 10 marzo 868, due giorni dopo la lettera di Adriano ad Incmaro, Eleuterio, figlio di Arsenio, d'accordo col padre, rapì con l'inganno la figlia del papa, ch'era stata già promessa ad un altro, e la sposò. Adriano non volle accettare il fatto compiuto. Di fronte alla sua intransigenza, Arsenio si allontanò da Roma, diretto a Benevento, per sollecitare l'intervento dell'imperatore: ma morì subito dopo l'arrivo.
Privato dell'appoggio paterno, Eleuterio dovette allora vedersi perduto e, mentre Adriano premeva su Ludovico II perché trascinasse in giudizio il colpevole, non trovò di meglio che ammazzare la sposa rapita e, insieme con lei, sua madre Stefania finendo a sua volta ucciso dai legati dell'imperatore. Ma questa spiegazione, psicologicamente abbastanza plausibíle, dell'epilogo della vicenda, è soltanto nostra: gli Annales Bertiniani, che riferiscono i fatti (ad a. 868, p. 92), addossano ad A. tutta la responsabilità dell'accaduto: "isdem vero Eleutherius, consilio ut fertur, fratris sui Anastasii,...Stephaniamuxorem ipsius pontificis, et eius filiam, quam sibi rapuit, interfecit"
Incmaro, del resto, non fa che riportare - cautelandosi dietro un ut fertur - laversione prevalsa al sinodo riunito da Adriano II, il 12 ottobre, a Santa Prassede, dopo che un tale prete Adone, ch'era anche parente di A., ebbe esplicitamente dichiarato che A. aveva esortato Eleuterio al duplice delitto per mezzo di un suo messo ("hominem ad Eleuterium misit"). Sulla base di questa gravissima accusa e di altre accuse, anche non lievi, che erano quelle di aver preso parte al saccheggio dei patriarchio dopo la morte di Nicolò I, di avere seminato la zizzania "inter piissimos principes et ecclesiam Dei" - si pensi, per questo, alla lettera ad Adone - e di aver ordinato di cavare gli occhi e tagliare la lingua ad un certo Adalgrimo che aveva chiesto asilo alla Chiesa, Adriano ribadì contro H bibliotecario della sede apostolica la sentenza di deposizione che Leone IV aveva pronunciata contro il cardinale di San Marcello, sia pure nella forma più attenuata di Benedetto III, che lo aveva riammesso alla comunione dei laici. A., chera presente al sinodo, si impegnò con giuramento a non allontanarsi da Roma più di quaranta miglia (Ann. Bert., pp.94-96). Ma, all'incirca un anno più tardi, forse già reintegrato nelle sue funzioni di bibliotecario, egli partiva per Costantinopoli, nella qualità di legato imperiale, con un incarico anche da parte del pontefice.
Almeno per quanto riguarda il reato di istigazione a delinquere, ch'era poi il principale capo d'accusa, A. deve essere riuscito a provare la propria innocenza. là infatti da escludersi che, in questo caso, abbia giocato a suo favore soltanto la considerazione dei ben noti meriti professionali: Adriano era stato colpito in maniera troppo dura e personale perché potesse accettare di vedersi sempre intomo, nelle vesti di collaboratore e consigliere, colui al quale si faceva risalire la responsabilità di quanto era accaduto (cfr. Perels, p. 234).
Ma, accanto alla discolpa - che non dovette mancare - sul punto dell'istigazione, l'altro elemento di cui si valse A. per riguadagnare terreno, fu l'appoggio dell'imperatore. Messe evidentemente da parte le riserve che erano emerse nella lettera ad Adone di Vienne, A. si rivolse allora a Ludovico II, sicuro di trovare buon ascolto presso di lui: ora che Arsenio non c'era più, l'imperatore aveva bisogno di poter disporre a Roma di un'altra persona che, come Arsenio, godesse al tempo stesso la fiducia sua e quella del papa. Singolarmente favorito dalle circostanze, A. fece in modo che la propria candidatura ad occupare la posizione ch'era stata di Arsenio maturasse dalle cose stesse, senza bisogno di forzare la situazione. E ciò che era prematuro per Roma, dove il ricordo degli avvenimenti del marzo dell'868 e delle accuse che ne erano seguite, non poteva certo essere spento, fu attuato dapprima a Costantinopoli, su di un terreno che univa i vantaggi della lontananza al rischioso privilegio di costituire, in quello scorcio dell'869, una specie di linea avanzata dove la posta in gioco era il riconoscimento del primato universale della Chiesa di Roma. La missione a Costantinopoli fu il capolavoro della vita di Anastasio.
A. partì per Costantinopoli verso la fine dell'869, a capo di una delegazione cui Ludovico II aveva affidato l'incarico di riallacciare le trattative per il matrimonio di sua figlia Ermengarda con il primogenito del basileus; insieme con lui Partirono il conte Suppone, cugino della moglie dell'imperatore, e il siniscalco Everardo (Epistolae, p.410, 15-19; Interpretatio synodi VIII generalis, col. 148; Lib. Pont., II, p.181, 22-24).
Molto incerta si presenta l'identificazione (Cfr. Perels, p. 235) fra il nostro A. e l'Anastasius didascalus che istruì la principessa imperiale nella letteratura sacra (cfr. Flodoardo, Hist. Rem. eccl., p.550): ne risulterebbe confermata l'ipotesi tutt'altro che improbabile di un soggiorno di A. alla corte di Ludovico II.
Da più luoghi della Vita Hadriani (Lib. Pont., II, pp. 181, 21-22; 182, 8-9; 185, 1), da un sì delle note che lo stesso A. appose alla sua traduzione degli atti del concilio dell'869-'70 (Interpretatio syn VIII gen., col. 39) e dall'elenco dei partecipanti alla decima sessione del concilio (ibid. col.148) parrebbe attestato che A., durante la missione, e quindi anche prima di partire dall'Italia, era già di nuovo bibliotecario della Chiesa romana. Se la redazione delle due lettere che il 10 giugno 869 Adriano II indirizzò rispettivamente, al patriarca Ignazio e al busileus (in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VI, pp. 750-758), va davvero attribuita, come pare dimostrato, ad A., a quella data la sua restituzione era ormai cosa fatta. E si potrebbe risalire ancora più indietro, solo che si voglia ammettere che A., come è probabile, fosse uno degli "utriusque linguae periti", cui Adriano affidò la revisione degli atti del concilio costantinopoliano dell'867, che gli erano stati recapitati da una legazione giunta a Roma alla fine di febbraio o ai primi di marzo dell'869 (Lib. Pont., II, p. 179, 20; per la data, cfr. Dvornik, The Photian Schism, pp.140 s.). Per ritrovare A. menzionato come "bibliothecarius" in un documento, bisogna però attendere addirittura l'intitulatio della sua lettera ad Adriano II, dell'871: "farmilus vester Anastasius peccator abbas et summae ac Apostolicae vestrae sedia bibliothecarius" (cfr. Santifaller, pp. 55 s.).
Al periodo intercorso fra il rientro nelle sue funzioni in Curia e la partenza per Costantinopoli, risale inoltre unì lettera di Adriano II ai principi slavi, redatta anch'essa da A., che autorizzava l'uso della lingua slava nella liturgia: una questione, questa, che attendeva di essere definita dall'inízio dell'868 e che probabilmente era rimasta sospesa anche in seguito alla morte di Arsenio, uno dei principalì zelaton della causa della liturgia slava, ed alla disgrazia in cui era, provvisoriamente caduto A. (cfr. Grivec, pp. 81 s. e 87; per l'autenticità della lettera di Adriano e per l'intervento di A. nella sua redazione, ibid., pp. 257-261).
I tre legati di Ludovico Il giunsero a Costantinopoli in tempo per assistere alla decima ed ultima sessione (28 febbr. 870) dell'ottavo concilio ecumenico, che aveva iniziato i suoi lavori nell'ottobre dell'anno precedente e si sarebbe concluso con la condanna di Fozio e dei suoi seguaci.
Nella lettera dedicatoria ad Adriano II della sua traduzione degli atti conciliari (cfr. Laehr, pp. 427-429), A. preciserà che, oltre al mandato dell'imperatore, ne aveva ricevuto un altro dal papa ("ferentern etiam legationem a... praesulatu vestro"). Ma si trattava sempre di un mandato relatico alle trattative per il matrimonio fra i figli dei due sovrani (v. contra Perels, pp. 235 s.), ch'era materiaper la quale si richiedeva segnatamente l'assenso del papa: "in tam enim pio negotio et quod ad utriusque imperii unítatem, immo totius Christi ecclesiae libertatem pertinere procul dubio credebatur. praccipue suminì pontificii vestri quaerebatur assensus". Eppure, anche se la duplice missione di A. era limitata al solo "negotium" del matrimonio, "Dei... nutu actum est, uttanti negotii [ma qui negotium è il concilio!] cum loci servatoribus apostolicae sedia etipse fine gauderem..., qui per septenniurn ferme pro eo indefesse laboraveram et per totum orbem verborum semma sedule scribendo disperseram" (Epistolae, p. 410, 15-25; Cfr. anche p. 437, 6-7). C'era insomma voluta quella fortunata coincidenza in cui A. non esita a riconoscere il segno della mano di Dio, perché il firutto di sette anni di fatiche (862-869) non venisse - raccolto - da altri.
Delle cinque lettere di Nicolò I e delle quattro di Adriano II.) che vennero lette ed acclamate durante le sessioni del concilio, A. doveva averne dettata la maggior parte, se non addirittura tutte o quasi tutte, come egli stesso afferma con orgoglio, - e non si può non prestargli fede, dato che è assurdo pensare che abbia cercato di,ingannare su questo punto proprio Adriano II, al quale la lettera dedicatoria era diretta: "pene omnia, quae ad praesens negotium. pertinent quacque a sede apostolica Latino sermone prolata sunt..., ego summis pontificibus obsecundans, decessori scilicet vestro ac vobis, exposui" (Epistolae, p. 410, 25-28; cfr. Lapôtre, p. 246).
Ma A. non si limitò a presenziare, da spettatore, al trionfo di una causa alla quale aveva dedicato tante energie. "Constantinopoli pro praedicta causa [le trattative matrimoniali] reppertus non pauca in his vestrià loci servatoribus, ut ipsi quoque testantur, solatia prestiti" (Epistolae, p. 410, 28-29): senza averne avuto mandato ufficiale, A. ebbe occasione di collaborare con la delegazione romana al concilio. Incmaro, che guardava le cose da lontano, ne parla come di un esperto (una specie di interprete ad alto livello), aggiunto alla delegazione ufficiale (Ann. Bert, p.120).
I legati ufficiali della Chiesa di Roma (i vescovi Donato, di Ostia, e Stefano, di Nepi, e il diacono Marino) non erano in grado di comprendere il greco e dipendevano, perciò, da un interprete (Epistolae, p. 413, 22-25). A concilio terminato, ma quando non avevano ancora apposto le loro firme, i legati sottoposero gli atti all'esame di A., il quale, "quia in utrisque linguis eloquentissimus eidstebat", e poiché - aggiungiamo noi - conosceva benissimoil testo in questione per averlo redatto lui stesso, non mancò di accorgersi che dalla traduzione greca di una lettera già predisposta da Nicolò I erano scomparsi alcuni cenni c ad laudem serenissimi nostri Caesaris", che Adriano II vi aveva inseriti prima di spedirla, "Arsenio episcopo imminente". (Mette conto di osservare come il contenuto del rilievo si addicesse alla presente situazione di A., legato ad un tempo imperiale e papale, e convenisse al suo progetto di porsi a Roma come erede delle fortune di Arsenio). Dopo tale constatazione, parve per un momento che tutto fosse rimesso in discussione. Di fronte al rifiuto dei Greci di ristabilire il testo integrale, i legati romani minacciarono infatti di non sottoscrivere gli atti del concilio. E il compromesso fu raggiunto soltanto col modificare la formula di sottoscrizione, nel senso che i legati accettarono di firmare, ma sub condicione: l'ultima parola la riservavano al papa (Lib. Pont., II, pp. 181, 21-,182, 2).
Preoccupati per la svalutazione dell'autorità del concilio ch'era implicita nell'approvazione con riserva degli atti conciliari ("dubietate subscriptionum": Lib. Pont., II, p. 182, 4), i vescovi greci passarono alla controffensiva e indussero il basileus a far sottrarre furtivamente dalle abitazioni dei legati romani le copie, autografe di mano di ciascuno dei vescovi presenti in assemblea, del Libellus satisfactionis, che redatto sulla falsariga della Regula fidei di papa Ormisda, conteneva una solenne riaffermazione del primato di Roma, oltre che una violenta condanna di Fozio e dei suoi: la firma dei Libellus era stata posta dal papa come una condizione sine qua non per l'ammissione al concilio (Interpretatio syn. VIII gen., coll.36 s.: testo del Libellus, e col. 38: nota di A.; per tutta la questione, v. Dvornik, The Photian Schism, pp. 143-147).
Quando si furono accorti della sparizione di una parte dei chirografi - non tutti erano stati asportati, perché quelli dei vescovi più importanti erano stati messi al sicuro -, i legati romani ricorsero disperati all'aiuto di A. e di Suppone, i quali intervennero prontamente presso il basileus, ottenendo la restituzione dei libelli (Lib. Pont., II, p.182, 3-11; Interpretatio syn. VIII gen., coll.38 s.). Secondo il Liber Pontificalis, questo risultato sarebbe stato conseguito "non sine magno laboris periculo", e a prezzo dell'ira di Basilio, mentre A. sostiene di avere convinto il basileus con la sola forza del ragionamento. Se scrivendo poco tempo dopo a Ludovico II, Basilio, fra i numerosi motivi che avevano portato alla rottura delle trattative fra i due imperi, accennerà anche al deplorevole contegno tenuto a Costantinopoli dai legati dell'impero di Occidente (cfr. Ludovici II imp. epistola, pp. 392, 32- 393, 2), è probabile che nell'evidente esagerazione dell'accusa qualcosa di vero ci fosse e riguardasse anche l'impresa del recupero dei libelli, nella quale furono forse impiegati mezzi diversi da quello della pura persuasione.
Ma per A. non tutto poteva ridursi alla politica, soprattutto a Costantinopoli. Egli trovò il tempo anche per i codici, dato che non èpensabile che solo per caso gli sia capitato di vedere gli scolii a Dionigi l'Areopagita, che in seguito riuscirà a procurarsi a Roma, forse proprio per aveme allora commissionata una copia (Epistolae, p.432, 13-14). E collaborando, anche su questo piano, con i legati papali, si diede da fare per raccogliere dalla viva voce di Metrofane, vescovo di Snúme, ch'era stato esiliato da Fozio a Cherson, una testimonianza sul ritrovamento, che vi aveva avuto luogo, delle reliquie di san Clemente (Epistolae, p. 437, 6-11). Sulla stessa linea, qualche anno dopo (874 od 875), quando una missione di Giovanni VIII "apud augustos" lo portò a Mantova, A. ne approfittò per tradurre dal greco la translatio di Santo Stefano, cedendo anche a una pressante richiesta dei Mantovani (Epistolae, p. 428, 1-8; cfr. Laehr, pp. 443-445).
Partite insieme da Costantinopoli (marzo 870), le due delegazioni occidentali si separarono a Durazzo, al momento dell'imbarco: diretti ad Ancona i legati papali, e a Siponto gli altri, fra cui A., che dovevano anzitutto recarsi a Benevento, per riferire all'imperatore. Ma ancora all'inizio della traversata, i primi subirono l'assalto dei pirati Narentani, che li spogliarono di quanto portavano con loro, ivi compresa la copia originale degli atti dell'ottavo concilio destinata a Roma, trattenendoli poi prigionieri per otto mesi circa (per i rimandi alle fonti, cfr. Monumenta Germ. Hist., Epistolae, V I, p. 759 n. 7). Al danno assai grave della perdita dei documenti portò rimedio il solito A. che, arrivato per l'altra via a primavera inoltrata, consegnò puntualmente al papa una copia degli atti conciliari che s'era fatta fare per suo uso personale; con lui arrivò a Roma anche una parte dei chirografì (forse proprio quelli ch'erano stati rubati e poi restituiti a Costantinopoli), che i legati papali avevano lasciata affidata alle sue cure. In quest'ultimo caso, la parte avuta da A. non fu però così meritoria ed essenziale come egli vorrebbe far credere: anche i restanti chirografi - ed erano, a quanto pare, gli "excellentiorum episcoporum libelli", tenuti separati dal primo momento - non andarono perduti; i legati ne ottennero infatti la restituzione dai Narentani e li portarono senza altri inconvenienti fino a Roma. Ma A. tralascia questo particolare, per meglio contrapporre la propria efficienza all'assoluta incapacità di cui avrebbero dato prova in quell'occasione i rappresentanti ufficiali della Chiesa di Roma: "ac per haec factum est, ut sedes apostolica, Deo auctore, codicem, synodi per nos susciperet, et libellos missis quidem a nobis redditos, sed per nos servatos haberet, quos nimirum, si missi penes se ut codicem synodi, et caetera scripta haberent, hos procul dubio perderent"(Interpretatiosyn. VIIIgen., col. 39).
L'intera tradizione occidentale del concilio dell'869-'70 dipende dal testo portato in qua da A. o, più precisamente, dalla traduzione che egli ne approntò per incarico di Adriano II. Quando gli atti conciliari furono tradotti, il papa poté rendersi personalmente conto di come erano andate le cose: e solo allora scrisse a Basilio una lettera che suonava implicita approvazione dei risultati del concilio (la lettera è del 10 nov. 871: cfr. Hergenröther, II, p. 161).
Entro un anno dal ritorno da Costantinopoli, A. ebbe un nuovo incarico di carattere diplomatico. La meta, questa volta, era Napoli, dove una parte del clero, nonostante la scomunica impartita dal papa, continuava a rimanere. schierata con il duca Sergio II nel conflitto che l'opponeva allo zio, l'esiliato vescovo Atanasio I. Insieme ad A., "vir eloquentissimus et ad exortandum idoneus", fu designato per tale missione l'abate di Montecassino, Bertario (Vita Athanasii, a cura di G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, p. 447: per Bertario, cfr. però Monumenta ad Neppolitani ducatus historiam pertinentia, I, Napoli 1881, p. 97 n. 4; A. non è menzionato nella redazione, più breve, della Vita, scoperta da E. Caspar: Petrus Diaconus und die Monte Cassineser Fälschungen, Berlin 1909, p. 102). I due legati non riuscirono nell'intento di ridurre all'obbedienza i sacerdoti ribelli, ma A. - come risulta anche dal brano di una sua conversazione con un sacerdote napoletano, riportato nella Vita Athanasii - lasciò un'impressione di grande fermezza e di capacità dialettica (v., contra, A. Lapôtre, L'Europe et le Saint-Siège à l'époque carolingienne, I: Le pape Jean VIII (872-882), Paris 1895, pp. 225 s., che interpreta il passo come se rivelasse un'intenzione ironica nei confronti dell' "erudizione ecclesiastica" di A.). Secondo il Lapótre (ibid., p. 225 n. 3), che ammette però di non avere a disposizione alcuna testimonianza diretta, A., sempre in missione diplomatica, si sarebbe allora recato anche a Gaeta, presso il vescovo (o duca) Docibile.
A. e Bertario erano andati a Napoli con un duplice mandato, papale e imperiale ("vice apostolici et augusti"): per il primo dei due si ripeteva così la situazione in cui s'era già trovato a Costantinopoli. E nel quadro di un'attività che ormai si svolgeva, contemporaneamente, al servizio del papa e dell'imperatore, è del tutto normale che, almeno in un caso, A. abbia fornito a Ludovico II anche quel particolare tipo di prestazione, che era poi quanto di meglio egli fosse in grado di dare: la redazione di lettere e documenti ufficiali. Per i dettagliati riferimenti al contenuto delle trattative condotte da A. a Costantinopoli e a Napoli, e al comportamento tenuto nel primo caso dai legati imperiali, la lettera che Ludovico II, "imperator augustus, Romanorum", indirizzò dopo la presa di Bari (2 febbr. 871; il termine post quem è il 13 agosto dello stesso anno) a Basilio, "imperatori novae Romae" - e che viene generalmente attribuita ad A. stesso -, si presenta in parte come un corollario polemico di quelle trattative, una messa a punto per scritto delle posizioni assunte nei contatti diretti (cfr. Ludovici II imp. epistola, p. 3, 90, 23-33, per le trattative matrimoniali; pp. 392, 6-393, 12, per la mancata assistenza ai legati papali di ritorno dal concilio del.l'869-'70 e per le.accuse ai legati imperiali a Costantinopoli; p. 393, 13-33, per i rapporti di Ludovico II con Napoli).
Maturata ai margini e in proseguimento della sua attività di diplomatico, la lettera che A. scrisse a nome di Ludovico II va però molto oltre la congiuntura politicodiplomatica e si pone come uno dei testi basilari nella storia dell'idea d'impero in Occidente. La lettera, che pure si chiude con una proposta molto concreta per un'azione combinata terra-mare contro i Saraceni nell'Italia meridionale e in Sicilia ("per sicca", l'esercito di Ludovico II; "per aequora", la flotta bizantina), è infatti soprattutto una appassionata rivendicazione dei titoli dell'impero restaurato da Carlomagno, di fronte al rifiuto, opposto ancora una volta da Basilio, di riconoscerne la legittimità: titoli che significativamente vengono fatti consistere, per un verso, nella consacrazione papale e, per l'altro, in un diretto rapporto con la "vecchia" Roma e la sua antica tradizione. A Basilio, che s'era dichiarato disposto a riconoscere il titolo imperiale del suo collega d'Occidente, dopo che avessero avuto luogo le progettate nozze fra il suo primogenito e la figlia di Ludovico, A. risponde che "da noi la gloria non viene dai figli al padre, ma discende piuttosto dai padri ai figli" (dove i "padri", al di là di Carlomagno, sono gli antichi imperatori romani): una orgogliosa precisazione, ch'egli pone a suggello del fallimento della missione di un anno prima a Costantinopoli.
Dopo l'articolo di W. Henze, l'autenticità della lettera di Ludovico II a Basilio I, riportata - com'è noto - nel Chronicon Salernitanum, non viene per lo più contestata (cfr., per es., Perels, p. 238 e, soprattutto, ErtI, pp. 128-132). Comunque, tale questione va tenuta distinta da quella della sua paternità. Il, Kleinclausz, che è stato il principale sostenitore della tesi della falsificazione posteriore (il documento sarebbe stato redatto per incarico di Giovanni VIII, nell'879), fu anche uno dei primi a pensare ad A., come all'autore: e questo è l'unico punto della sua costruzione rimasto saldo (cfr. Henze, p. 670).
Col successore di Adriano II, Giovanni VIII (14 dic. 872), A. continuò ad esercitare le funzioni di bibliotecario, anche se è probabile che, soprattutto rispetto agli ultimi tempi di Adriano, il suo potere effettivo sia allora alquanto diminuito: il nuovo papa si dimostrò subito pieno di energie e deciso, quindi, a fare da sé. Probabilmente proprio in correlazione con i diminuiti impegni in curia, A. ebbe più tempo da dedicare allo studio e alla sua attività di traduttore: risalgono infatti a quest'ultimo periodo della sua vita la traduzione degli atti del settimo,concilioccumenico (Nicea, 787), dedicata a Giovanni VIII forse già nel primo anno del suo pontificato (Epistolae, pp.416-418; cfr. Laehr, pp. 429-432); la Chronographia tripertita (compilata con brani tradotti da Niceforo, Giorgio Sincello e Teofane, e chiamata così in riferimento alla Historia tripartita di Cassiodoro) e i Collectanea (una silloge di scritti attinenti al monotelismo), opere composte entrambe fra l'871 e l',874 e destinate a fornire materiale al diacono Giovanni Immonide per la sua grande enciclopedia storico-ecclesiastica (Epistolae, pp. 419-421 e 423-426; cfr. Laehr, pp. 432-435 e 437-441); e, di seguito, molte altre versioni di testi greci, in gran parte di carattere agiografico (cfr. H. Goll, Die Vita Gregorii des Johannes Diaconus, Freiburgi. B. 1940, pp. 6-12). A sé sta la traduzione delle glosse di Massimo il Confessore e di Giovanni Scolastico a Dionigi l'Areopagita, cui si è già accennato.
Le glosse a Dionigi, con annessa revisione del testo nella traduzione che ne aveva data Giovanni Scoto; una raccolta di excerpta dalla Mystagogia di Massimo il Confessore e il trattato - pure de Mystagogia - attribuito al patriarca di Costantinopoli, Germano; le passioni di San Demetrio e di San Dionigi, A. volle dedicarli a Carlo il Calvo, celebrato come protettore ed animatore degli studi, perché uomo di cultura egli stesso (Epistolae, pp, 431-434, ma 431, 1-7; v. anche pp. 434 s., 439, 440 s.; cfr. Laehr, pp. 448-451, 452 s., 457 s., 458-463).
L'attività di traduttore di A., anche se cronologicamente la troviamo concentrata in anni che segnano forse una contrazione dei suoi impegni politico-diplomatici (del resto, abbiamo già visto come egli fosse capace di sfruttare le sue missioni per fini di studio), non va considerata separatamente da quelli, come se fosse stata un'attività di studio disinteressato, che completerebbe solo esternamente il profilo della sua personalità. La sua opera rappresenta invece lo sforzo consapevole di mettere la Chiesa di Roma in grado di sostenere, anche culturalmente, il confronto con Bisanzio.
La via prescelta, che era quella di attingere al patrimonio culturale bizantino per mezzo di traduzioni, era certo la più sbrigativa. Ma, in qualche caso, come A. ben sapeva (sia pure sbagliando in riferimento al testo In questione), non si trattava di versioni vere e proprie, bensì di retroversioni di testi originariamente latini, andati poi perduti, e conservatisi soltanto nella traduzione greca (Epistolae, p. 426, 3-8; per es., la passione di Dionigi, tradotta da A. e da lui attribuita al patriarca Metodio, non è che una versione greca della passione latina di Ilduino: cfr. Théry, pp. 124 ss.).
A. ebbe sempre la netta consapevolezza della propria funzione di tra mite culturale fra due mondi diversi (Epistolae, pp. 398, 3-4; 427, 15-16; 442, 20-22); egli afferma che gli eventuali disconoscimenti che sarebbero potuti venire al suo lavoro non avrebbero assolutamente infirmato la sua certezza di attendere a qualcosa di molto utile: era preparato ad affrontare le amarezze che, in altri tempi, "ille caelestis bibliothecae cultor [San Girolamo] a suis aemulis pertulit" (ibid.,p. 442, 16-17). E di san Girolamo A. condivideva appieno la concezione secondo cui, nel tradurre, non sideve rispettare, parola per parola, il testo originario, ma badare piuttosto a renderne compiutamente il senso (cfr. Perels, pp. 245-247; per un giudizio analitico su A. traduttore, cfr. de Boor, pp. 401-421; V. anche Siegmund, p. 275 e passim).
Non mancano poi i casi nei quali, fra le traduzioni di A. e le contingenze della politica, risultano esserci nessi anche più immediati. Così, nelle lettere dedicatorie della traduzione del settimo concilio e dei Collectanea appare evidente la tendenza a far consistere in semplici fraintendimenti linguistici alcune delle grosse questioni dottrinali che avevano diviso Roma da Bisanzio, come se si fosse voluto sgombrare il terreno dai vecchi malintesi, in vista del nuovo corso, filo-bizantino, della politica papale (cfr. Laehr, pp. 431 s. e 440). Analogamente, le quattro dediche a Carlo il Calvo - dapprima candidato alla successione imperiale, e, dal Natale dell'875, imperatore - corrispondono troppo bene alla scelta operata allora da Giovanni VIII, perché si possa rinunciare a considerarle in tale prospettiva; soprattutto la traduzione della passione di Dionigì, che si credeva portasse nuovi elementi all'identificazìone dell'Areopagita coll'omoniino vescovo e martire parigino, era fatta per compiacere, su di un punto che stava loro particolarmente a cuore, i dirigenti laici ed ecclesiastici del regno occidentale: tanto che valse ad A. l'elogio ambito di Incmaro di Reims (Epistolae,in Migne, Patr. Lat., CXXVI, col.153).
In questo stesso periodo, A. indirizzò una lettera di tono amichevole all'ex-patriarca Fozio, il suo avversario numero uno negli anni 862-869. Ma abbiamo notizia della lettera solo attraverso la risposta (in Migne, Patr. Graeca, CII, col. 877-880) e, perciò, non è possibile farci un'idea precisa del suo contenuto. Fozio vi vide una profferta di amicizia e di solidarietà, come tale molto gradita, anche se, e qui sta il punto essenziale della risposta, giunta purtroppo in ritardo. La breve lettera di Fozio, che è un saggio di finezza intellettuale, gira intorno al motivo dell'occasione mancata, che è come una Eronte capelluta cui faccia riscontro una nuca sprovvista di capelli, onde è impossibile afferrarla per di dietro, una volta che sia passata: ma l'amicizia, in ogni caso, non va misurata sul metro dell'utilità...
Alla stessa stregua della posizione assunta nelle lettere dedicatorie degli atti del settimo concilio e dei Collectanea, il ravvicinamento di A. a Fozio va considerato nel quadro della nuova politica che Giovanni VIII aveva inaugurato (o si proponeva di inaugurare) nei confronti del patriarcato bizantino, dopo che Ignazio si era dimostrato ostile a Roma nella questione della Chiesa bulgara (cfr. Hergenröther, II, pp. 228-230 e 240 s.; Dvornik, Les légendès de Constantin et de Méthode, p. 316). Resta la difficoltà di datare con precisione la lettera di A.: il Lapótre (pp. 281-285) propone senz'altro la primavera dell'878, quando a Roma non si sapeva ancora della morte di Ignazío (23 ott. 877) e della avvenuta restituzione di Fozio al patriarcato, ma solo del ritorno di Fozio dall'esilio e della sua rappacificazione con l'imperatore; lo Dvornik ritiene invece che A., che seguiva gli avvenimenti molto da presso, si sia rivolto a Fozio subito dopo il suo ritorno dall'esilio, che lo stesso studioso pone nell'873 (Dvornik, The Photian Schism, pp.163 s. e 172 s.). Date intermedie sono anche possibili, se si tiene conto del fatto che la riabilitazione di Fozio avvenne per stadi successivi, e che ogni stadio può aver fornito l'occasione alla risposta in cui si rinfaccia ad A. di avere atteso troppo prima di farsi vivo.
La risposta di Fozìo, sempre secondo il Lapótre (p. 286), non sarebbe arrivata a Roma prima della primavera dell'879, C forse a quell'epoca A. era già morto. In un documento del 29 marzo appare infatti come bibliothecarius apostolicae sedis il vescovo Zaccaria di Anagni; e l'ultima menzione di A. in un documento risale addirittura al 29 maggio 877 (cfr. Santifaller, pp. 55 e 60). Nella lettera-prefazione alla Chonographia tripertita A. accennava all'eventualità della sua morte prima di avere finito e, più di una volta, negli anni seguenti, dava notizia delle sue cattive condizioni di salute (cfr. Epistolae, pp. 421, 9-10; 426, 34; 440, 11).
Contro la datazione tradizionale della morte di A., è stata però avanzata una seria obiezione: le lettere di Giovanni VIII dopo l'879 risultano, ad un attento esame, redatte dallo stesso autore che ha composte le precedenti; e, dato che queste ultime sono in grandissima parte opera di A., bisogna concludere che la comparsa di un nuovo bibliotecario non implica necessariamente un allontanamento di A. dalla curia e dalle sue funzioni di dictator, né - tanto meno - la sua morte (Ertl, pp. 121-126). Un ragionamento ineccepibìle, quando si accettino le premesse metodologiche sulle quali è fondato.
Per lungo tempo A. è stato ritenuto l'autore di tutto il Liber Pontificalis fino alla biografia di Nicolò I inclusa. Tale attribuzione, che il Duchesne fa risalire all'erudito Onofrio Panvinio (1530-1568), fu consacrata nel titolo dell'editioprinceps (Magonza 1602) e poi conservata, per una .sorta di inerzia, quando ci si era ormai accorti che Beda - per esempio - conosceva il Liber Pontificalis, e quindi A. non poteva davvero essere chiamato in causa. Ancora nell'edizione romana (1718-1735) di Francesco Bianchini, A. è indicato come l'autore. Solo G. Vignoli, che, quasi contemporaneamente al Bianchini, curò un'altra edizione del Liber Pontificalis (Roma 1724-1755), ruppe con la tradizione, ed il nome di A. scomparve finalmente dal suo frontespizio. Ma il Muratori, che, per l'edizione del Liber nella prima parte del tomo terzo dei Rerum Italic. Script. (Milano 1723), utilizzò il testo datone dal Bianchini nel 1718, è tuttora fermo nella vecchia credenza (cfr. Lib. Pont., I, Paris 1886, introd., p. XXXV; II, cit., introd., pp. LVI-LX).
Per una sezione del Liber l'attribuzione tradizionale è stata però convalidata anche ,dalla critica più recente. La biografia di Nicolò I (Lib. Pont., II, pp.151-172) è infatti generalmente ritenuta opera di A., almeno in parte. L'inizio, o più probabilmente una prima stesura - molto più scarna - di tutta la Vita, sarebbe dello stesso autore che ha redatta la biografia di Benedetto III, ma ci sono molte ragioni per assegnare ad A. tutto il resto, ovvero la redazione più ampia e definitiva che è giunta fino a noi. Con l'intervento di una seconda mano nella Vita di Nicolò I, la narrazione cambia radicalmente di tono; gli argomenti ai quali si interessa il rifacitore sono proprio quelli che finora erano stati trascurati: le grandi questioni ecclesiastiche, le relazioni con gli episcopati d'Oriente, d'Italia, dell'impero carolingio e con i sovrani greci, latini, bulgari; "le Liber Pontificalis devient, sous cette plume, un vrai livre d'histoire". Da notare i frequenti rinvii a documenti conservati "in bibliotheca [oppure in scrinio] huius sedis", che A., date le sue funzioni, doveva avere ben familiari (ibid., introd., II, pp. V s.).
Incerta e contestata rimane l'attribuzione ad A. della Vita di Adriano II (Lib. Pont., II, pp. 173-190), che, del resto, non gli era riconosciuta neanche da coloro i quali lo ritenevano autore di tutto il Liber Pontificalis, ma solo fino a Nicolò I. Il modo con cui vengono narrate le vicende dell'ottavo concilio ecumenico indurrebbe ad escludere che l'autore sia A.; d'altra parte, il completo silenzio sull'episodio delittuoso dell'868, oltre che le molte lodi rivolte ad A., fanno pensare che chi l'ha scritta appartenesse alla cerchia dei suoi amici (ibid., pp. VI s.). Non senza fondamento, per questa biografia è stato fatto il nome di Giovanni Immonide.
Una seconda fase.della storia della fortuna di A. ha inizio con il libro del Lapôtre, nel 1885. Accertato definitivamente che A. non era l'autore del Liber Pontificalis, l'interesse intorno alla sua persona poteva sembrare esaurito (cfr. Lapôtre, p. 4). Ma, a parte la confermata identificazione fra il cardinale di San Marcello e il bibliotecario, che faceva apparire quest'ultimo in una luce del tutto nuova, le conclusioni cui il Lapôtre giunse soprattutto nel cap. IV, Anastasius Nicolai I litteras et composuit et dictavit, aprirono una nuova via alla ricerca. Il dotto gesuita, non si sa con quanta sincerità, riconosceva alle sue conclusioni un valore apologetico: tutto quello che nelle lettere di un papa santo, come era Nicolò, non mancava di sconcertare un lettore pio, per l'uso e l'abuso, che vi si fa (e che il Lapôtre mette abbondantemente in rilievo), di artifizi dialettici e talvolta anche di volgari furberie, non andava infatti più ascritto al papa, bensì a chi aveva dettato le lettere in nome suo (p. 105). Ancora trentacinque anni dopo, il Perels, nel suo Papst Nikolaus L und Anastasius Biblíothecarius, non poté prescindere dall'impostazione del Lapôtre. A differenza del predecessore, che aveva addotto l'intento apologetico solo per attenuare la portata delle sue conclusioni, il Perels prende l'avvio proprio da una precauzione siffatta: se le lettere di Nicolò, che erano poi la fonte di gran lunga più importante per ricostruire la sua azione di pontefice (o che, per meglio dire, costituivano il mezzo forse principale attraverso cui tale azione venne di fatto esercitata), se quelle lettere non erano di Nicolò, come si poteva continuare a parlare di lui come di un grande papa (Cfr. Perels, pp. 299-300)? Dopo avere messo a confronto le opere di A. con le lettere di Nicolò (pp. 245-265) ed avere individuato quello che, in tali lettere, risale sicuramente ad A. (pp. 265-278), il Perels ha dimostrato che gli interventi diretti del papa sono molto frequenti e che Nicolò, anche quando lasciava ad altri il compito di redigere il testo delle lettere, aveva sempre la possibilità di rivederle, prima della spedizione (pp. 280-293). Le cose starebbero invece diversamente per il periodo di Adriano II, quando A., almeno a tratti, fu del tutto abbandonato a se stesso.
In ogni modo, il problema non è tanto di stabilire chi, materialmente, redigeva le lettere, quanto di precisare volta per volta se l'eventuale dictator agiva di sua iniziativa o su preciso mandato del papa. A questo fine risultano di grande importanza alcuni passi di lettere di corrispondenti, nei quali si accenna esplicitamente alla figura un po' enigmatica e misteriosa del dictator pontificio. Ma né il Lapôtre, né il Perels hanno osservato che questi accenni, sempre di tono polemico, a un presunto autore, diverso dal papa, delle lettere papall, il quale si sarebbe arrogato il diritto di leggere, in vece sua, le lettere in arrivo e di disporre per la risposta, potevano essere benissimo fatti ad arte: il chiamare in causa il dictator era anche un modo di suggerire discretamente al papa la via per ritornare su di una decisione già presa, dandogli il destro di far finta di non essersi mai pronunciato su di un determinato punto, senza costringerlo a smentirsi, ch'era un passo da cui Roma, per tradizione ed istinto, cercava sempre di rifuggire; e, d'altra parte, al dictator si potevano rivolgere liberamente accuse di malafede o anche solo di ignoranza, che non tutti avrebbero osato di indirizzare al papa in persona.
A. stesso, forte della sua esperienza in materia, volendo scagionare papa Onorio I (625-638) dall'accusa di essersi accostato alle tesi del monotelismo, avanza la compiacente ipotesi che la lettera, meglio, le lettere, su cui si fondava l'accusa, non fossero state scritte personalmente da lui, ma da un certo abate Giovanni (Epistolae, p. 424, 2-6).
Opere: Vanno ricordate anzitutto le Epìstolae sive praefationes,edite a cura di E. Perels e G. Laehr, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VII,pp. 395-442 (qui di sopra citate come Epistolae). Le più importanti traduzioni e compilazioni di storia ecclesiastica sono: l'Interpretatio synodi VIII generalis, in Migne, Patr. Lat. CXXIX, coll. 9-196; l'Interpretatio synodi VII generalis, ibid., coll.195-512; la Chronographia tripertita, a cura di C. de Boor, in Theophanis Chronographia, II, Lipsiae 1885, pp. 31-346 (v. anche pp. 401-435); i Collectanea, in Migne, Patr. Lat.,CXXIX, coll. 557-690. Perché dettata quasi sicuramente da A., si cita qui anche la Ludovici II imp. epistola ad Basilium I. imp. Constantinopolitanum missa, a cura di W. Henze, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VII, pp. 386-394.
Un elenco delle opere di A. è in Lapôtre,, pp. 329-338; cfr. anche Perels, p. 194 n. 5 e G. Amaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII, in Bullett. d. Ist. Stor. Ital. per il M. E., LXVIII (1956), p. 41 n. 2. Ma v. soprattutto A. Siegmund, Die Ueberlieferung der griechischen christlichen Literatur in der lateinischen Kirche bis zum zwölften Jahrhundert, München-Pasing 1949, pp. 110, 159, 186 s., 189-192, 224, 246, 256-262, 268.
Bibl.: J. Hergenröther, Photius, Patriarch von Konstantinopel, II,Regensburg 1867; A. Lapôtre, De Anastasio bibliothecario sedii apostolicae, Paris 1885; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens in Mittelalter, III, 1 e 2, Gotha 1908-1911; W. Henze, Ueber den Brief Kaiser Ludwigs II, an den Kaiser Basilius I., in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, XXXV(1909), pp. 663-676; M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I, München 1911, pp. 678-689; E. Perels, Papst Nikolaus I, und Anastasius Bibliothecarius. Ein Beitrag zur Geschichte des Papsttums im neunten Jahrhundert, Berlin 1920; G. Lachr, Die Briefe und Prologe des Bibliothekars Anastasius, in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, XLVII (1928), pp. 416-468; F. Dvornik, Les légendes de Constantin et de Méthode vues de Byzance, Prague 1933; N. Ertl, Diktatoren frühmittelalterlichen Papstbriefe, in Archiv für Urkundenforschung, XV(1937-38), pp. 56-132; L. Santifaller, Saggio di un Elenco dei funzionari, impiegati e scrittori della Cancelleria Pontificia dall'inizio all'anno 1099, in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E.,LVI,1 (1940), pp. 54-56; F. Dvornik, The Photian Schism. History and Legend, Cambridge 1948; F. Grivec, Konstantin und Method, Lehrer der Slaven, Wiesbaden 1960.