Anastasio II
. Diacono romano, figlio di un sacerdote, Pietro, A. fu elevato al soglio pontificio il 24 novembre 496, alla morte di Gelasio I. Ascendeva al pontificato in un momento particolarmente difficile per la Chiesa di Roma, in lotta contro una ripresa dell'eresia monofisita nelle Chiese orientali: la gravità delle conseguenze, che avrebbe potuto avere sul mondo cristiano il prolungarsi dello scisma di Acacio, fu tuttavia la prima preoccupazione del nuovo pontefice, il quale mostrò subito di esser disposto a cercare la via di un accordo, mutando in senso più conciliativo quelle che erano state le direttive della politica religiosa seguite dai suoi predecessori.
A. cercò innanzi tutto di riallacciare i rapporti con le Chiese orientali, troncati dal 484; quindi, approfittando della missione senatoria inviata da Teodorico a Costantinopoli sotto la direzione del caput senatus Festo, indirizzò anch'egli una sua legazione nella capitale bizantina, col compito di comunicare all'imperatore l'avvenuta elezione del nuovo pontefice, e di consegnargli una sua lettera. Era una mossa distensiva, come voleva esserlo, del resto, anche l'amichevole tono della lettera, che non conteneva, in realtà, alcuna concessione su problemi sostanziali. Tuttavia le istruzioni che il pontefice aveva dato ai suoi legati dovevano essere piuttosto ampie se, come pare, rappresentanti qualificati della Chiesa di Alessandria (il cui vescovo era di idee talmente avanzate, che lo stesso patriarca di Costantinopoli ne aveva respinto la comunione) poterono mettersi in contatto con loro e avviare trattative in vista di un accordo con la Sede Apostolica; essi affidarono agli inviati pontifici anche un documento di giustificazione da far pervenire al papa. Tale documento conteneva una professione di fede che si manteneva però sostanzialmente sulle linee dottrinali del l'Ένωτιχόν, il famoso " Editto di unione " promulgato nel 482 dall'imperatore Zenone, nell'intento di trovare una via di conciliazione fra le dottrine monofisite e la solenne definizione di fede che le aveva condannate nel concilio di Calcedonia del 451. L'atteggiamento più conciliativo assunto dal nuovo pontefice nei confronti delle Chiese orientali e gli effetti che esso sembrava produrre, non mancarono di suscitare profonda impressione a Roma; ma sconcerto maggiore, tra i benpensanti e gli intransigenti, e ben più gravi conseguenze avrebbe avuto un altro evento, che si era andato maturando in quel medesimo torno di tempo. Per effetto di un documento di Gelasio I sugli errori e gli eccessi di Acacio, fatto leggere pubblicamente nella sua e nelle diocesi finitime dal metropolita di Tessalonica, Andrea, si erano avute unanimi manifestazioni in favore delle dottrine di Roma ed era stato lanciato l'anatema contro l'antico patriarca di Costantinopoli. Inoltre Andrea aveva inviato a Roma un suo diacono, Fotino, che, benevolmente accolto da A., era stato da questo subito ammesso alla propria comunione. Poco dopo, per il tramite di Fotino, venivano riprese ufficialmente le relazioni con la Chiesa di Tessalonica (circa 497). L'episodio, se da un lato è una chiara testimonianza del disgusto di A. per il prolungarsi dello scisma di Acacio e la sua propensione verso misure che avrebbero potuto preparare il ritorno delle Chiese separate, valse a sollevare nel clero romano le critiche più aspre nei confronti del pontefice: le garanzie richieste da A. in questa occasione parvero, a persone di troppo zelo, insufficienti; anzi, secondo l'anonimo autore della vita di A. inserita nel Liber pontificalis, una parte del clero si sarebbe addirittura staccata dalla comunione del pontefice. E, del resto, la realtà di uno scisma, più o meno nettamente delineatosi in Roma nello scorcio del pontificato di A., non può sfuggire a chi tenga nel dovuto conto la vivacità con cui il partito filo-bizantino e quello che potremmo chiamare ‛ romano ortodosso ' si batterono, alla sua morte, per la successione. Era questa, dunque, con ogni probabilità, la reazione di un ambiente - come quello romano -particolarmente sensibilizzato da una lunga lotta religiosa, al resoconto forse troppo ottimista fatto, al suo rientro da Roma, dal diacono Fotino, il quale si era dovuto vantare - a quel che risulta dal rapporto degli inviati pontifici a Costantinopoli - di aver ottenuto dal pontefice concessioni particolarmente favorevoli. L'anonimo autore della biografia di A. attribuisce la morte prematura di A. a un castigo di Dio, perché A. voleva riabilitare la memoria di Acacio. Ciò è assolutamente falso. Le lettere autentiche del papa danno, a questo proposito, una chiara smentita al pio cronista, e ci lasciano facilmente intuire le ragioni del risentimento di cui si è fatto interprete e che lo ha portato a snaturare completamente le reali intenzioni del pontefice.
Al successo ottenuto in campo politico dall'ambasceria di Flavio Festo non si era accompagnato, nel campo religioso, un esito parimenti positivo della missione pontificia di Cresconio e di Germanio, soprattutto per l'irriducibile opposizione dell'imperatore e per la mancata collaborazione dei rappresentanti politici romani: si disse anzi che Festo si fosse formalmente impegnato con l'imperatore di portare il papa a sottoscrivere l'Ένωτιχόν.
Se i suoi sforzi in questo senso avessero avuto successo si sarebbe ricostituita l'unità religiosa, ma secondo i principi di Acacio: sarebbe stata, cioè, la sconfitta di Roma. L'azione svolta dal caput senatus al suo rientro nell'Urbe confermò, d'altro canto, il fatto che egli si era effettivamente in qualche modo vincolato alla politica religiosa imperiale. Ma il papa morì, il 19 nov. 498, prima che si fosse riusciti a farlo aderire all' ‛ Editto di unione '.
Della tradizione, che vedeva nella fine prematura di A. un effetto della collera divina (tradizione che ebbe una certa fortuna nel Medioevo), si fece portavoce D., il quale (If XI 8-9) pone nel VI cerchio dell'Inferno, tra gli eretici, questo pontefice: Anastasio papa guardo, / lo qual trasse Fotin de la via dritta. Non vi è alcuna ragione plausibile di tale condanna, se non nella versione, volutamente tendenziosa circa i propositi reali della politica religiosa di A. e sul significato del suo pontificato, contenuta nel Liber pontificalis della Chiesa romana (il che è un'ulteriore riprova del fatto che D. era a conoscenza di tale fonte). Tuttavia il poeta fiorentino - il quale, come è testimoniato anche dai suoi commentatori più antichi, confonde il diacono tessalonicese Fotino con l'omonimo e più famoso eretico del sec. IV, vescovo di Sirmium (oggi Mitrovicza in Vojvodina, Iugoslavia), ripetutamente condannato nel sinodo di Antiochia del 344, in due concili di Milano (345) e di Sirmium (347 e 351), morto nel 376 - aggiunge al racconto del Liber pontificalis un nuovo, importante contenuto. Come fa notare Benvenuto, " autor in isto versiculo facit amphibologiam, idest dubiam locutionem ": quasi D. avesse voluto indicare, con l'equivoca costruzione di quella frase, la grave responsabilità, che pesava in eguale misura sul diacono tessalonicese e sul pontefice romano, di aver tratto l'altro de la via dritta, " id est a via rectae fidei ". Non vi è bisogno di ricorrere, come ha fatto qualche commentatore recente, a un malinteso - del resto difficilmente giustificabile - con l'imperatore Anastasio I, che sarebbe stato - ma ciò è storicamente falso - indotto da Fotino ad accogliere l'eresia di Acacio, per spiegare la presenza di A. tra gli eretici. Benché il Liber pontificalis faccia, nella biografia di quel pontefice, esplicita menzione di Acacio e dello scisma da lui provocato, D. non intende minimamente punire, con A., l'antico patriarca di Costantinopoli. Egli condanna Fotino, perché " habuit errorem Macometti, qui dicebat quod Christus erat natus secundum carnem per viam matrimonialem ex Ioseph et Maria ", come dice Benvenuto: D. pensa, dunque, all'eretico seguace di Marcello di Ancyra, al negatore della sussistenza personale del Verbo e della divinità del Cristo, e a lui attribuisce quell'ambasceria romana che, un secolo e mezzo più tardi, sarà officiata dall'inviato del metropolita di Tessalonica, con cui - come del resto i suoi contemporanei - lo identifica. Tale ipotesi è confermata dall'ulteriore chiosa di Benvenuto: " Ad cuius cognitionem est sciendum, quod Photinus fuit Graecus, diaconus civitatis Thessalonicae... et fuit episcopus Smirnensis " - chiaro errore di lettura, quest'ultimo, per Sirmiensis: ché, del Fotino venuto a Roma nel 497, non risulta dalle fonti che fu mai vescovo e, tanto meno, di Smirne. A buon diritto dunque - anche se equivocando tra il vescovo del sec. IV e il diacono del sec. V, e attribuendo all'uno gli errori dottrinali dell'altro - D. pone nell'Inferno Fotino; e a buon diritto (data l'errata premessa su cui si basava il poeta fiorentino) con lui punisce anche A., " quia comunicaverat Photino praedicto, tenendo et defendendo errorem eius ", secondo quanto era riferito dal Liber pontificalis. I due hanno, agli occhi di D., un'eguale responsabilità nei confronti di Dio e della Chiesa: eppure la scritta posta sul coperchio del grand'avello in cui giacciono sepolti, coi loro seguaci, Fotino e A., pur nella ‛ dubia locutio ' dell'epitafio, " in quo quidem titulo breviter tangitur nomen utriusque, scilicet Photini seducentis et Anasthasii seducti ", lo indica inequivocabilmente come la tomba di A. e non, come ci si sarebbe invece aspettati, di Fotino, a rigor di logica il fondatore e l'eponimo dell'eresia lì punita. In ciò vi è, tuttavia, una profonda ragione; così come vi è una precisa ragione nel fatto che D., dopo aver parlato - nel precedente canto X " de uno singulari errore epicureorum ", dovendo far cenno anche " de aliquo heresiarca christiano ", abbia toccato " brevissime de Photino ", e non di altri. Se è pur vero, nel primo caso, che il diacono di Tessalonica " incidit in errorem pessimum, scilicet quod Christus fuisset conceptus ex Maria et Ioseph via nuptiali ", è anche vero che ad A. - cui spettava, come romano pontefice e sommo sacerdote, la salvaguardia dell'autentica dottrina cristiana - deve essere attribuita una colpa maggiore, perché non solo aveva ammesso alla propria comunione il diacono, ma ne aveva difeso e sostenuto (almeno così risultava a D.) anche le tesi ereticali. D'altro canto, se è vero che Epicuro non può venir considerato maestro di eresia nel senso proprio e cristiano del termine, è pur vero che la negazione del soprannaturale è il centro e il fulcro di ogni forma di irreligiosità: intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede, dopo questa vita, non essere altra vita (Cv II VIII 8): né è meno vero che a coloro, i quali, facendo l'anima col corpo morta (If X 15), negano la vera dignità della natura umana, che è la sua vita eterna, si possano ben accompagnare quanti, affermando la sola umanità del Cristo - uomo, sia pur meravigliosamente dotato dall'energia di Dio, come appunto voleva Fotino, nato da uomo -, negano al Figlio di Dio la vera realtà della sua natura divina.
Bibl. - Regesta pontificum Romanorum, a c. di P. Jaffé e G. Wattembach, I, Lipsia 1885, 95-96 (la lettera che A. avrebbe inviato a Clodoveo in occasione del battesimo, ibid., num. 745, p. 96, è un falso del XVIII secolo); Epistolae Romanorum pontificum genuinae, a c. di A. Thiel, I, Braunsberg 1868, 82 ss., 614 ss.; Liber pontificalis, a c. di L. Duchesne, I, Parigi 1886, 258 ss.; H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, II, Roma 1930, 13-17; A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa, IV, a c. di G. Bardy, Torino s.d. [ma 1941], 302 ss., 336; B. Nardi, Il canto XI dell'Inferno, Roma 1951, 7 ss.; P. Bertolini, A., in Dizion. biogr. degli Ital. III (1961) 22-24.