Anastasio II
Nacque a Roma ed era figlio, così come Felice III, di un presbitero, di nome Pietro; diacono, fu eletto papa (24 novembre 496), dopo la morte di Gelasio, in un momento difficile per la Chiesa di Roma, quando i rapporti con l'imperatore, in lotta contro la ripresa del monofisismo nelle Chiese orientali, erano assai tesi.
Nel 482 l'imperatore Zenone, d'accordo col patriarca di Costantinopoli, Acacio, aveva promulgato, nell'intento di trovare una via di conciliazione fra le dottrine monofisite e la solenne definizione di fede che le aveva condannate nel concilio di Calcedonia del 451, il famoso Henotikon o "Editto di unione". Papa Simplicio, se pure aveva conosciuto il documento, era morto nel marzo 483 senza aver avuto il tempo di prender posizione nei suoi confronti; Felice III (consacrato probabilmente il 13 marzo 483), eletto ad onta dei maneggi del partito filobizantino, stroncati dalla pronta reazione della fazione senatoria favorevole ad Odoacre, dopo avere invano invitato Acacio a presentarsi dinanzi al suo tribunale, convocava in Roma un concilio dove, il 28 luglio 484, settantasette vescovi dichiaravano deposto Acacio. La difesa delle dottrine ortodosse veniva continuata da Gelasio con rinnovata fermezza: fallita un'ambasceria pontificia e irrigiditosi l'imperatore Anastasio nelle sue posizioni di intransigenza, Gelasio gli indirizzava una lettera, in cui, pur dichiarando di rispettarlo, amarlo, accettarlo, non si limitava a riaffermare il principio del primato giurisdizionale della Sede apostolica, ma enunciava anche, con limpidezza singolare, il concetto dell'indipendenza dell'"auctoritas sacrata pontificum" dalla "regalis potestas", ambedue pari in dignità, ma con competenze autonome ed essendo soltanto alla prima delegato il potere di emanare decreti in materia religiosa. Il concilio di Roma del maggio 495 aveva solennemente approvato l'atteggiamento papale.
Ma la gravità delle conseguenze che poteva avere, nel mondo cristiano, lo scisma di Acacio fu la prima preoccupazione del nuovo pontefice che mostrò subito di voler cercare la via d'un accordo, mutando, in senso più conciliativo, le direttive della politica religiosa dei suoi predecessori. Innanzitutto tentò di riprendere i rapporti con le Chiese di Oriente, troncati nel 484; profittando della missione senatoria inviata da Teoderico a Costantinopoli (inizi del 497) per risolvere, sotto la guida del "caput senatus" Flavio Festo, i problemi d'ordine politico e costituzionale che stavano a cuore al re ostrogoto, A. mandava con essa due vescovi, Cresconio e Germano, che comunicassero la sua avvenuta elezione all'imperatore e gli consegnassero una sua lettera. Era una mossa distensiva come l'amichevole tono della lettera che non conteneva, in realtà, nessuna concessione su problemi di fondo: il papa chiedeva infatti, e con insistenza, la condanna della memoria di Acacio. Era la posizione di Gelasio, anche se più conciliante nello stile: "Felice ed Acacio sono morti", scriveva A., "perché disturbare il nome di Acacio?", e pregava l'imperatore di adoperarsi affinché "quella tunica del Salvatore, che era stata tessuta dal cielo in un unico pezzo, non fosse soggetta più a lungo, a causa d'un sol morto, agli incerti di una sorte avversa". Dichiarava altresì di riconoscere la validità dei battesimi e delle ordinazioni conferite "secondo i canoni" da Acacio; ma anche questo era già stato fatto dai suoi predecessori. Le istruzioni che aveva dato ai suoi legati dovevano, tuttavia, essere abbastanza larghe se, come pare, due rappresentanti della Chiesa di Alessandria, il cui vescovo era di idee così avanzate che lo stesso patriarca di Costantinopoli ne aveva respinto la comunione, si misero in contatto con Cresconio e Germano per tentare un accordo con la Sede apostolica e consegnarono loro un documento di giustificazione contenente una professione di fede che si manteneva, però, sulle linee dell'Henotikon.
Era, probabilmente, questa una conseguenza della relazione, forse fin troppo ottimista nei propri confronti, fatta dal diacono Fotino di ritorno dal suo viaggio a Roma (497 circa); come è probabile che Fotino si sia vantato di aver ottenuto condizioni assai vantaggiose. Per effetto delle lettere di Gelasio in cui si esponevano gli errori e gli eccessi di Acacio che il vescovo di Tessalonica, Andrea, aveva fatto leggere nella sua e nelle chiese limitrofe, si era avuta in quella diocesi una manifestazione favorevole alle idee romane ed era stato lanciato l'anatema contro l'antico vescovo di Costantinopoli. E proprio come legato del metropolita Andrea (che pure era stato uno dei più ardenti fautori di Acacio) era giunto a Roma il diacono Fotino ed era stato ammesso alla comunione del papa.
Tutto ciò mostra il disgusto di A. per questo scisma e la sua propensione verso misure che avrebbero potuto preparare il ritorno delle Chiese separate. Ma proprio questo atteggiamento conciliativo sollevò, fra il clero di Roma, le critiche più aspre, specie dopo la benevola accoglienza da lui riserbata al diacono Fotino e la ripresa, tramite quest'ultimo, delle relazioni con la Chiesa di Tessalonica; le garanzie richieste dal papa, infatti, sembrarono, a persone di troppo zelo, insufficienti. Anzi, secondo l'autore del Liber pontificalis una parte del clero romano si sarebbe staccata dalla comunione col papa; e la realtà di uno scisma, più o meno nettamente delineatosi in Roma negli ultimi tempi di A., non può non apparire a chi tenga conto della vivacità con cui, alla sua morte, il partito filobizantino e quello che si potrebbe chiamare "romano" si batterono per la successione. L'autore del Liber pontificalis attribuisce la morte prematura di A. a un castigo di Dio perché, così afferma, voleva riabilitare la memoria di Acacio. Ciò è assolutamente falso. Le lettere autentiche del papa gli danno, a questo proposito, una chiara smentita; anche se si possono comprendere bene le cause del sentimento di cui si è fatto interprete e che lo porta a snaturare la verità delle intenzioni di Anastasio II. Graziano riprodusse nel Decretum (c. 9, D. XIX) il passo del Liber pontificalis. Al successo nel campo politico dell'ambasceria di Flavio Festo, che, probabilmente nel 498, aveva raggiunto il suo scopo col riconoscimento ufficiale di Teoderico come "rex" in Italia pur nell'ambito dell'Impero, non si era accompagnato, nel campo religioso, quello della missione pontificia di Cresconio e Germano per l'opposizione dell'imperatore e per il mancato concorso dei rappresentanti di Teoderico e del Senato; corse anzi voce che Festo avesse promesso ad Anastasio I di portare il papa a sottoscrivere l'Henotikon. Sarebbe stato un ristabilire l'unità religiosa secondo i principi d'Acacio, cioè la sconfitta della Chiesa di Roma. E l'azione svolta da Festo dopo il suo ritorno a Roma confermò che egli si doveva essere vincolato alla politica religiosa dell'imperatore. Ma il papa morì (19 novembre 498) prima che si fosse riusciti a farlo aderire all'"Editto di unione". Della tradizione che voleva A. eretico si fece portavoce Dante, che nell'Inferno XI, vv. 8-9, pone il papa tra gli eresiarchi, in quanto tratto "dalla via dritta" da Fotino.
Non sono attestati interventi edilizi promossi dal papa se non la decorazione in argento della "confessio" di età costantiniana sul sepolcro del martire Lorenzo nella basilica suburbana a lui dedicata (Le Liber pontificalis, p. 258). La sua salma fu deposta in una tomba pavimentale nell'atrio dell'antica basilica vaticana e l'epitaffio (Inscriptiones Christianae, nr. 4149) esordisce ricordandone la collocazione. Il defunto, che parla in prima persona, descrive la collocazione del suo sepolcro e dichiara quindi il proprio nome e la propria carica (vv. 1-2 "limina nunc servo / qui tenui culmina sedis / hic merui tumulum praesul Anastasius"). Di seguito ricorda di essere nato da padre presbitero (v. 3 "presbytero genitus"), in un ambiente in cui venne educato all'ossequio dei doveri ecclesiastici (v. 4 "militiaeque Dei natus in officiis") e di essersi guadagnato il titolo di successore di Pietro (v. 6 "obtinui magnum nomen apostolicum") dopo aver rivestito con obbedienza il diaconato (v. 5 "pontificum casto famulatus pectore iussis").
fonti e bibliografia
Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 95 s. (la lettera che A. avrebbe inviato a Clodoveo in occasione del suo battesimo [ibid., p. 96] è un falso del sec. XVIII; cfr. in proposito J. Havet, Questions Mérovingiennes, in Id., Oeuvres, I, Paris 1896, pp. 61-71).
Epistolae Romanorum Pontificum genuinae [...], I, a cura di A. Thiel, Brunsbergae 1868, pp. 82 ss., 614 ss..
Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 258 s.
L. Duchesne, L'Église au VIe siècle, ivi 1925, pp. 14-6.
H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, II, Roma 1930, pp. 13-7.
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Per quanto riguarda la documentazione epigrafica v.: Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi-A.Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935.