Anatomia
di Rodolfo Amprino
Anatomia
sommario: 1. Introduzione. 2. Moderne tecniche e metodi di studio. 3. Orientamenti biologici della morfologia del Novecento. 4. Nuove acquisizioni in singoli settori dell'anatomia. 5. Prevedibili sviluppi futuri. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'anatomia, che sin dalle sue lontane origini si configurò come la disciplina che descrive analiticamente ed elenca le parti del corpo nei loro reciproci rapporti, accrebbe e mutò nella sua secolare storia obiettivi di ricerca e metodi di studio; la dissezione del cadavere (ἀνατομή) che un tempo costituiva l'unico mezzo di ricerca della disciplina che da essa derivò il suo nome, oggi costituisce soltanto una delle molteplici tecniche correntemente utilizzate nello studio della morfologia animale. Ancora nel 1867 Cl. Bernard poteva comprendere l'anatomia fra le scienze naturali, d'osservazione o descrittive, contrapposte alle scienze sperimentali, esplicative, che non si limitano alla ‛contemplazione della natura'; ma proprio a partire da quei tempi gli interessi dei morfologi si orientarono sempre di più verso l'indagine del significato funzionale degli organi e dei loro costituenti, delle modalità dell'integrazione delle varie parti nell'unità dell'organismo, e delle leggi che governano il divenire di forme e strutture nello sviluppo. Tale complessa problematica impose spesso il ricorso al metodo sperimentale e lo studio del materiale vivente. Indirizzo questo che si definì nel corso dell'Ottocento, ma che era già rintracciabile, se pur sporadicamente, nell'anatomia di molti secoli or sono: sperimentatore era stato, ad esempio, il medico e anatomico Galeno nel II secolo e, dopo la lunga parentesi del Medioevo, alcuni insigni anatomici del Rinascimento, quali G. Fabrici d'Acquapendente, A. Cesalpino, W. Harvey e altri si valsero del metodo sperimentale a complemento e chiarificazione di studi descrittivi. D'altra parte, ricerche di morfologia e di fisiologia furono perseguite congiuntamente per lungo tempo, finché, verso l'inizio dell'Ottocento, la fisiologia si distaccò dall'anatomia come disciplina autonoma.
Per ragioni connesse alle esigenze della crescente specializzazione tecnica nelle indagini il cui campo si estendeva in parallelo con un'impostazione sempre più funzionale dei problemi della morfologia, già nella seconda metà dell'Ottocento andavano sorgendo in molti istituti anatomici, accanto alle sale di dissezione, laboratori attrezzati per l'attività sperimentale. Nel corso del Novecento si accentuò sempre più la tendenza degli anatomici a intraprendere ricerche che a prima vista non hanno stretta o diretta attinenza con la classica morfologia descrittiva umana o comparata, mentre studi d'interesse morfologico nella più vasta accezione del termine andavano compiendosi anche in istituti non anatomici, quando, come spesso avveniva, dati morfologici prima non conosciuti potevano costituire la base necessaria per altri tipi d'indagine. L'anatomia, matrice di altre discipline, dall'istologià alla fisiologia, dall'embriologia causale all'anatomia comparata e all'anatomia patologica, è dunque a sua volta debitrice a queste di non piccola parte delle sue attuali conoscenze, sicché è praticamente impossibile scindere gli apporti dovuti a studiosi di diversa formazione e orientamento essendo questi strettamente intrecciati e interdipendenti.
2. Moderne tecniche e metodi di studio
La scoperta dei raggi X negli ultimi anni dell'Ottocento e l'applicazione del metodo di studio ròntgenologico nella diagnostica medica stimolò indagini dirette sul vivente dei più vari dispositivi anatomici, dei mutamenti della loro forma, grandezza e posizione nell'attività funzionale. Al progresso dell'aspetto funzionale delle conoscenze anatomiche contribuì anche la chirurgia, sia richiedendo di continuo l'analisi di dettagli che altrimenti sarebbero stati trascurati, sia offrendo la possibilità di controllare direttamente sul vivente nel corso delle operazioni i dati desunti dallo studio del cadavere. D'altra parte l'uso sempre più corrente del microscopio ottico, che verso la fine del Seicento aveva determinato un sostanziale progresso nel campo della morfologia, consentì, grazie ai continui perfezionamenti introdotti nel sistema d'illuminazione e nella fabbricazione di obiettivi a più elevato potere di risoluzione, una più dettagliata e precisa analisi strutturale degli organi e dei tessuti che li costituiscono, e quindi una loro interpretazione funzionale.
In particolare lo studio a livello delle cellule ha compiuto progressi considerevoli in questo secolo, soprattutto dopo la scoperta di O. R. Harrison del metodo di coltura in vitro di frammenti di organi; i perfezionamenti e la standardizzazione tecnica introdotti da A. Carrel, resero agevoli a partire dal 1912 precise indagini sulle cellule viventi. Il microscopio a contrasto di fase, ideato assai più tardi da F. Zernicke per accentuare i tenui contrasti fra strutture diverse adiacenti, ed il sussidio di appositi apparati cinematografici consentirono lo studio e la registrazione in vitro della dinamica del nucleo e del citoplasma, dei movimenti cellulari, dei processi di fagocitosi e di pinocitosi, ecc. Con l'uso del micromanipolatore è stato possibile produrre lesioni circoscritte di parti di cellule, recidere fibre nervose e studiarne la rigenerazione in espianti in vitro, più tardi estrarre il nucleo e sostituirlo con quello di altre cellule e, in generale, compiere esperimenti di microchirurgia su cellule singole. Apposite tecniche sono state recentemente elaborate per la produzione in vitro di doni di particolari tipi cellulari, cioè popolazioni pure derivate per successive moltiplicazioni da singole cellule anche specializzate, come elementi muscolari, cellule cartilaginee, pigmentifere, ecc., per la coltivazione di abbozzi di organi embrionali, per esperimenti di riassociazione di cellule prima dissociate con mezzi vari (v. sotto), per ottenere la fusione di cellule che vengono in tal modo a contenere nel citoplasma due nuclei di tipo diverso (eterocari) consentendo lo studio obiettivo delle influenze esercitate dal citoplasma sull'attività del nucleo. L'uso di terreni sintetici di coltura a composizione nota, ai quali si possono addizionare volta a volta in concentrazione determinata zuccheri, amminoacidi, vitamine, ormoni, ha permesso di studiare analiticamente l'azione di questi materiali e i bisogni metabolici di diverse parti biologiche: interi germi precoci o parti di organi embrionali.
Sin dal secolo scorso il microscopio a luce polarizzata aveva consentito di analizzare indirettamente l'orientamento spaziale dei costituenti macromolecolari di certe strutture biologiche che presentano birifrangenza di forma. Nell'ultimo trentennio lo studio ultrastrutturale della sostanza organizzata ha potuto essere largamente esteso con il microscopio elettronico; questo strumento, grazie al quale si possono visualizzare e fotografare organelli e complessi molecolari minutissimi, è stato utilizzato secondo un duplice indirizzo: cioè lo studio della minuta morfologia cellulare a livelli di grandezze diverse, ma secondo le impostazioni e i problemi della microscopia ottica classica, e l'analisi della fine struttura delle più piccole unità strutturali sino a livello molecolare. È questo un ramo della morfologia che procede con lo studio complementare a luce polarizzata e röntgendiffrattografico. Dagli anni quaranta è stato impiegato anche il microscopio a interferenza, il quale, fra l'altro, permette di valutare rapidamente il peso secco (massa) di intere cellule o di parti di cellule viventi o di sostanze intercellulari: allo stesso scopo è utilizzato il metodo microradiografico che, tuttavia, ha consentito sinora una risoluzione assai minore e non è agevolmente utilizzabile su materiale vivente.
La microspettrofotometria a varie lunghezze d'onda, in particolare nell'ambito dell'ultravioletto, è stata largamente sfruttata per valutazioni qualitative di proteine e di acidi nucleici, pigmenti, ecc., in materiali biologici fissati. Allo stesso scopo, cioè per analizzare in situ la composizione dei materiali biologici, sono stati gradualmente perfezionati e moltiplicati metodi isto- e citochimici, sfruttando l'affinità di molecole diverse della materia organizzata per sostanze coloranti, in modo tale da poter obiettivare distribuzione e concentrazione di proteine acide e basiche, lipidi, nucleo-proteine, zuccheri amminati, enzimi endocellulari, ecc. Assunzione e spostamenti di materiali negli elementi viventi poterono essere studiati a luce ultravioletta con l'impiego di sostanze fluorescenti (fluorocromi) che, in concentrazione estremamente bassa, stabiliscono legami chimici con i costituenti cellulari. Il più recente metodo di accoppiare determinati fluorocromi con sostanze che agiscono come antigeni, ha aperto un altro fiorente campo d'indagine per i morfologi. Largo sviluppo ha avuto anche l'impiego di materiali radioattivi, ad esempio amminoacidi o altre sostanze con un atomo di C, di H, di S o di I marcato, che, assunti dalle cellule, sono utilizzati nei processi metabolici per essere eventualmente accumulati nel citoplasma oppure estrusi come secreti o sostanze intercellulari; il loro destino può essere svelato con il metodo automicroradiografico rilevando le tracce prodotte dalle radiazioni su uno strato esilissimo di emulsione fotografica sovrapposto alle sezioni microtomiche, che, dopo lo sviluppo, è analizzato insieme a queste e può essere fotografato al microscopio ottico oppure al microscopio elettronico. Tali mezzi hanno consentito dunque indagini e interpretazioni assai precise dei meccanismi funzionali di organi, di cellule e degli organelli intracellulari che da parte loro la fisiologia e la biochimica indagano con tecniche diverse.
3. Orientamenti biologici della morfologia del Novecento
Di pari passo con le accresciute possibilità tecniche anche l'orientamento concettuale dei problemi posti allo studio subì graduali mutamenti. L'istologia e l'anatomia microscopica dell'Ottocento, impregnate dello spirito - allora profondamente innovatore - della dottrina cellulare, avevano posto l'accento sulle cellule come individualità morfologiche, vere pietre costruttive del corpo dotate di larga autonomia, sicché le funzioni delle varie parti e di tutto l'organismo erano tendenzialmente considerate come la sommatoria dell'attività delle singole cellule che lo costituiscono. La teoria cellulare astraeva cioè dalla piena considerazione dei rapporti morfo-funzionali di cellule e tessuti nei singoli organi, rapporti che si istituiscono gradualmente durante lo sviluppo e che li rendono capaci di attività specializzate tanto diverse. Nel primo decennio di questo secolo, M. Heidenhain (1907) prospettò forse meglio di ogni altro la circostanza che negli organi le singole cellule non rappresentano individualità autonome ma sono integrate in unità sovracellulari più complesse (istomeri, istosistemi) alle quali sono subordinate e che, a sviluppo compiuto, costituiscono le unità funzionali che caratterizzano gli organi (adenomeri ghiandolari, nefroni del rene, lobuli del fegato, ecc.). D'altra parte nel primo trentennio di questo secolo furono istituite classificazioni dei tessuti non soltanto con riferimento alle loro caratteristiche strutturali, come si era fatto tradizionalmente sin dai tempi di M.-F.-X. Bichat (1800-1801), ma secondo criteri sostanzialmente differenti, cioè in base alla durata di vita delle cellule che li costituiscono confrontata con la durata di vita dell'intero organismo, al periodo più o meno precoce della loro differenziazione e, rispettivamente, alla conservazione della loro capacità di moltiplicarsi per un lasso piùo meno lungo di tempo; indirizzo questo propugnato dapprima da C. Bizzozero (1893) e perseguito da G. Levi (1925, 1927), E. Cowdry (19322), e altri. Sulla scia di tali studi il rinnovamento cellulare fu oggetto di indagine sotto molti punti di vista e con l'impiego di diverse tecniche, per l'identificazione delle regioni dei vari organi dotate di elevata attività riproduttiva, per rintracciare il destino delle popolazioni cellulari in tali aree, per la valutazione della velocità di neoformazione e di scomparsa delle cellule. Si dimostrò anche che vari ormoni, lo stato di nutrizione dell'organismo, la temperatura, condizioni meccaniche o irritative possono influenzare l'entità e la velocità del rinnovo cellulare negli organi. In certi tessuti furono rilevate variazioni giornaliere o stagionali del tempo di rinnovamento, espressione di ritmi biologici diversi in specie differenti, che attirano sempre più l'interesse dei biologi. Recentemente sono state offerte prove sperimentali accettabili dell'esistenza di servomeccanismi di controllo (feedback control) dell'attività proliferativa e della differenziazione degli elementi di ‛riserva', meccanismi che sarebbero esercitati o messi in gioco dagli elementi già differenziati e funzionali di determinate popolazioni o sistemi di cellule: ad esempio, elementi ematopoietici, epitelio di rivestimento della cute, di villi intestinali, ecc. È risultato da questi studi che non soltanto cellule di tessuti considerati ‛labili' nella classificazione di Bizzozero-Levi (vegetative intermitotics, secondo Cowdry) sono capaci di rinnovarsi, ma che questa eventualità si può manifestare, se pur in grado più limitato o in condizioni particolari, per gli elementi ‛stabili' (reverting postmitotics).
Invece gli elementi cosiddetti ‛perenni' (fixed postmitotics), che di norma non vanno incontro a rinnovamento ma si accrescono in grandezza in misura proporzionale a quella della massa di tutto il corpo, e la cui durata di vita dovrebbe corrispondere a quella dell'organismo, sembra possano regredire in età varia anche in condizioni fisiologiche; la loro perdita, non potendo essere compensata, costituisce un danno funzionale permanente per l'organismo, danno particolarmente grave nel caso delle cellule nervose. È dimostrato, infatti, che cellule dei gangli nervosi viscerali subiscono con l'età processi regressivi e scompaiono, per quanto l'andamento e l'entità di tale fenomeno non siano ancor stati esattamente assodati; da tempo è noto anche che l'encefalo subisce una significativa riduzione di peso e di grandezza in età senile, ma persistono tuttora incertezze sul grado d'incidenza della diminuzione di numero di cellule nervose in tale processo di atrofia. Ricerche future dovranno chiarire questo essenziale aspetto della senescenza fisiologica dell'organismo.
Sempre negli anni trenta furono iniziati tentativi volti a riunire in sistemi cellule che presentano analogie strutturali o di comportamento e che occupano sedi diverse nell'organismo, anche quando non costituiscono raggruppamenti anatomici definiti o parti isolabili ma sono disseminate nel contesto di organi a funzione diversa, come alcuni elementi a funzione endocrina, le cellule argentaffini, cromaffini, ecc.
Talora queste cellule presentano aspetto e struttura identica in sedi diverse e sono quindi agevolmente riconoscibili, per esempio le cellule granulose basofile, i plasmatociti e altri elementi. Quando invece la loro morfologia è diversa in sedi differenti, la loro appartenenza ad una categoria determinata non è immediatamente apprezzabile e può essere rivelata tuttavia dalla manifestazione di proprietà biologiche particolari che tali elementi mostrano in condizioni speciali del loro microambiente. Questo è il caso delle cellule ad attività istiocitaria, fra le quali sono stati gradualmente compresi non soltanto i comuni istiociti del connettivo ma tutti gli elementi dotati di spiccata pinocitosi, di granulopessi e capaci di trasformarsi eventualmente in macrofagi, come le cosiddette cellule reticolari, aderenti al fine stroma degli organi emolinfopoietici, le cellule endoteliali di certi capillari sinusoidali, dei seni venosi della milza, delle vie linfatiche dei linfonodi, oltre alle cellule della microglia della sostanza nervosa, i monociti del sangue, e altre ancora. Questi elementi non costituiscono dunque una dinastia cellulare specificamente differenziata ma corrispondono ad uno stato funzionale con caratteri citologici e proprietà biologiche speciali: si tratta cioè di atteggiamenti simili di elementi per altri aspetti diversi. Tale concetto di ‛sistemi funzionali' di cellule si affermò gradualmente, dopo essere stato proposto dai patologi, il cui materiale di studio offre frequenti occasioni di rilevare le proprietà reattive che cellule diverse posseggono e manifestano solo in condizioni particolari.
Intimamente collegata a questi studi è la revisione che si è andata compiendo negli ultimi vent'anni del concetto di ‛fissità' dei tipi cellulari e dei rigidi criteri adottati in passato per considerare una cellula come differenziata. Si riteneva, infatti, che quando una cellula è morfologicamente differenziata essa abbia perduto ogni capacità di assumere altre e diverse caratteristiche; talché, si prospettava questa eventualità come possibile soltanto per elementi che conservino alcune caratteristiche delle cellule embrionali. Invece la fissità del tipo cellulare non è sempre mantenuta: una cellula può ritornare ad una condizione di ridotta differenziazione morfologica per differenziarsi secondo un tipo morfologico e funzionale diverso, verosimilmente in conseguenza di mutamenti del suo microambiente. Tali trasformazioni appaiono oggi più probabili e frequenti per linee cellulari che si differenziano divergendo da un elemento progenitore comune, come ad esempio le cellule dei tessuti di sostegno o dei connettivi in generale, ma non si può escludere che passaggi graduali da un tipo all'altro possano prodursi anche fra cellule non strettamente imparentate per la loro comune origine. Si ignora, tuttavia, se tali passaggi richiedano sempre un ritorno a caratteristiche più simili a quelle dell'elemento progenitore (sdifferenziazione) oppure sia possibile una metaplasia diretta da un tipo di elemento a un altro, eventualità ammessa in passato ma in seguito recisamente esclusa.
Non si sa neppure se queste trasformazioni richiedano un passaggio obbligato attraverso una o più divisioni cellulari prima che la modificazione di tipo possa aver luogo. Per il futuro resta da accertare, infine, per quali vie e meccanismi stimoli del microambiente determinino la loro influenza sulle cellule in proliferazione o in corso di modulazione, in quali condizioni insorgano tali stimoli e quali elementi del complesso congegno cellulare siano suscettibili di rispondere e di avviare le trasformazioni che divengono poi morfologicamente riconoscibili.
A Th. Boveri (1888) risale la dimostrazione dell'esistenza di una relazione diretta fra numero dei cromosomi e rispettivamente grandezza del nucleo e della cellula. Questa scoperta aprì la via fra le altre a numerose ricerche, compiute nei primi decenni di questo secolo, sul rapporto fra grandezza nucleare e grandezza cellulare in vari tessuti di specie animali diverse, è sui mutamenti che tale rapporto nucleo-citoplasmatico subisce nello sviluppo a partire dall'uovo fecondato. Indagini statistiche sulle grandezze nucleari delle cellule parenchimali di vari organi nell'adulto (fegato, rene, surrene, ecc.) dimostrarono in seguito l'esistenza di classi di nuclei di grandezza crescente secondo una progressione geometrica, in conseguenza di reduplicazioni periodiche dei cromosomi non sempre seguite da divisione nucleare (endomitosi). Si riconobbe più tardi che altri mutamenti, fluttuanti, della grandezza del nucleo hanno invece un significato metabolico, essendo in gran parte dovuti ad assunzione di acqua durante i periodi di maggior attività funzionale di certe cellule: queste modificazioni, adeguatamente analizzate con metodo statistico, possono costituire uno dei criteri morfologici di valutazione del vario grado di attività di parti di organi.
Fra le scoperte profondamente innovatrici compiute con metodo morfologico fra la fine dell'Ottocento e i primi anni di questo secolo, è da annoverare l'identificazione degli eterocromosomi o cromosomi sessuali, i determinanti genetici del sesso (Henking, 1891; McClung, 1901; Wilson, 1912); le ricerche di questi biologi aprirono un fruttuoso campo d'indagine per la citogenetica. Come gli altri cromosomi (della cellula), gli eterocromosomi sono dimostrabili soltanto in alcune fasi della divisione cellulare; tuttavia, una ventina di anni or sono, indagini morfologiche sul nucleo in periodo di riposo intercinetico hanno messo in luce (v. Barr e altri, 1950) un corpicciolo basofilo in posizione caratteristica in una certa percentuale di alcuni tipi di cellule di individui di sesso femminile, mai dei maschi, in molti Mammiferi e nella specie umana. Tale masserella, agevolmente identificabile nelle sezioni microscopiche di organi, si costituirebbe dalla parte cosiddetta ‛eteropicnotica' di un cromosoma sessuale X, e può dunque servire per la sua identificazione. Sempre nelle femmine, in una modesta percentuale dei granulociti neutrofili del sangue circolante, è stata poco più tardi rinvenuta un'appendice del nucleo a forma di breve bacchetta di tamburo (v. Davidson e Smith, 1954); essa avrebbe lo stesso significato del corpo di Barr e, come quest'ultimo, viene da qualche anno utilizzata nella definizione del sesso nucleare, parametro essenziale per valutare, ad esempio, situazioni cliniche nelle quali è incerta l'appartenenza del soggetto all'uno o all'altro sesso (intersessi). In questi ultimi anni è stata proposta ancora un'altra tecnica che si presta per la diagnosi citologica del sesso in cellule esaminate nel periodo intermitotico e che si fonda sull'osservazione che derivati fluorescenti dell'acridina si fissano, colorandoli, su certi cromosomi, in particolare a livello del braccio più lungo del cromosoma Y nella specie umana: cosicché, la presenza di quest'ultimo, caratteristico del sesso maschile, può essere riconosciuta anche nel nucleo in riposo di cellule epiteliali di sfaldamento, di linfociti, ecc., cioè di elementi di agevole prelievo nel vivente. Con tale tecnica sarà presto possibile stabilire durante la gravidanza il sesso genetico del feto valendosi di cellule desquamate e cadute nel liquido amniotico, e forse anche riconoscere fra gli spermi quelli che contengono il cromosoma Y, destinati con la fecondazione a dare origine a individui maschi. D'altra parte, con semplici metodi citologici di colorazione recentemente elaborati, è possibile identificare in cellule in interfase o in metafase regioni eterocromatiche di singoli cromosomi somatici, ad esempio del cromosoma C9 in linfociti umani.
Nel corso del Novecento hanno ricevuto considerevole impulso anche le indagini sullo sviluppo dell'organismo in tutti gli stadi, a partire da un'analisi approfondita delle cellule sessuali, i cui particolari morfologici sono stati descritti nei più minuti dettagli con l'uso del microscopio elettronico, della fecondazione e dei fattori che la regolano, dell'impianto dell'uovo e delle prime fasi di sviluppo sino alla formazione dei foglietti, degli annessi embrionali, degli abbozzi degli organi, del loro graduale accrescimento e differenziamento. Anche la ricerca embriologica, che per larga parte dell'Ottocento era stata perseguita con metodo descrittivo, acquisì una nuova fisionomia e assai più larghe possibilità con il ricorso all'esperimento, il che consentì l'analisi causale dei processi di sviluppo, cioè dei fattori che li determinano oltre che dei meccanismi attraverso i quali si realizzano. I classici esperimenti compiuti verso la fine dell'Ottocento da H. Driesch, L.-M. Chabry e da W. Roux, il fondatore dell'embriologia analitica, alla quale diede il nome di Entwicklungsmechanik e di cui seppe definire esattamente gli scopi, aprirono un nuovo fruttuoso campo d'indagine per i morfologi (v. embriologia). Si svilupparono studi destinati a seguire il destino di singole parti del germe in condizioni di isolamento, oppure mantenute nel loro contesto ma rese riconoscibili con la marcatura o altri artifici; con l'asportazione o con il trapianto eterotopico di varie parti, furono analizzate le influenze induttrici che si producono fra costituenti diversi dell'embrione, grazie alle quali soltanto si realizza lo sviluppo normale di alcune delle parti stesse. Si riconobbe che tali induzioni non si esercitano soltanto in periodi precoci dello sviluppo ma sono richieste anche in stadi relativamente tardivi nell'accrescimento, nella differenziazione e nell'acquisizione delle attività funzionali degli abbozzi di vari organi: ad esempio, per lo sviluppo di molte ghiandole e del polmone, è indispensabile l'istituirsi di un intimo, specifico rapporto fra costituenti epiteliali e mesenchimali, cioè fra futuri elementi parenchimali e rispettivamente dello stroma di sostegno, nel senso che non si produce morfogenesi e accrescimento tipico del componente epiteliale se questo è separato precocemente dal mesenchima circostante o viene associato con mesenchima prelevato da abbozzi di altri organi. Sfruttando i metodi per coltivare fuori dell'organismo parti isolate dell'embrione e con l'impiego di tecniche per la dissociazione di abbozzi di organi nelle singole cellule che li costituiscono, furono analizzate le capacità di riaggregazione delle cellule così separate e messe in luce affinità di determinati stipiti cellulari, grazie alle quali questi elementi possono riconoscersi e riunirsi secondo i tipi funzionali dei tessuti per costituire blastemi o abbozzi di organi caratteristici, quali si formano nel normale sviluppo.
Furono posti allo studio, anche se non sempre risolti, i problemi dei fattori e meccanismi che determinano o favoriscono la migrazione di cellule, ad esempio degli elementi della cresta neurale o delle cellule sessuali primordiali, e la loro distribuzione o raccolta in regioni distanti dalla loro sede di origine; le condizioni che guidano l'accrescimento delle fibre nervose dai centri verso la periferia ove istituiscono connessioni funzionali; i meccanismi dei rapporti quantitativi fra accrescimento dei centri nervosi e degli organi da essi innervati; i fattori che controllano l'accrescimento di organi diversi per cui questi raggiungono la grandezza caratteristica differente per ogni specie e la parte spettante non soltanto alla proliferazione ma anche alla morte ‛programmata' di cellule nella morfogenesi degli abbozzi di vari organi; infine, gli adattamenti che si istituiscono in via secondaria fra i vari componenti di singoli organi o fra organi anatomicamente e funzionalmente associati. I risultati di alcune indagini di embriologia sperimentale hanno gettato luce d'altra parte sulle cause o sui meccanismi di ritardi, arresti o alterazioni di sviluppo che comportano l'insorgenza di malformazioni o mostruosità che in passato apparivano del tutto inesplicabili e che sono di interesse rilevante per il medico.
4. Nuove acquisizioni in singoli settori dell'anatomia
La messe di nuovi dati raccolta nel Novecento nei vari settori dell'anatomia o, più in generale, della morfologia animale, che ha determinato progressi forse più significativi nei campi nei quali l'indagine morfologica fu accompagnata o preceduta e ispirata da ricerche di fisiologia o di biologia o stimolata da esigenze proposte dalla medicina, è davvero ingente. Nelle pagine che seguono si accennerà, in modo necessariamente incompleto e frammentario, ai mutamenti delle conoscenze intervenute in alcuni capitoli speciali della disciplina rispetto a quelle ereditate dall'Ottocento.
È da riconoscersi, innanzitutto, che nonostante le continue ricerche l'avanzamento è risultato modesto in alcuni settori: ne è esempio il sistema tegumentario. Infatti, caratteristiche macro- e microscopiche della pelle e dei suoi annessi erano già note nelle grandi linee nella seconda metà dell'Ottocento. In questo secolo si sono accumulati nuovi dati sull'istofisiologia dell'epidermide con l'applicazione di tecniche istochimiche, biofisiche, ultrastrutturali. In particolare, è stata indagata la catena dei processi di citomorfosi che comportano progressive modificazioni della struttura e delle proprietà fisiche delle cellule epidermiche in corso di cheratinizzazione (corneificazione); indagini furono dedicate allo studio dei rapporti morfologici e funzionali fra melanociti (cellule pigmentifere) e cellule epiteliali dello strato malpighiano, e dei processi di probabile trasferimento (citocrinia) della melanina dai primi alle seconde. È stata, inoltre, perseguita l'analisi della struttura e del meccanismo funzionale delle ghiandole cutanee, fra le quali si operò una netta distinzione delle sudoripare in eccrine ed apocrine in relazione al substrato morfologico della diversa modalità di formazione ed eliminazione del secreto, fatti questi che in parte erano già stati lumeggiati nell'altro secolo.
Ancor oggi le vie e i meccanismi del controllo nervoso della sudorazione sono mal conosciuti, anche se è stato dimostrato anatomicamente che le ghiandole sudoripare eccrine sono innervate in molte specie da fibre colinergiche, mentre alcune fra le apocrine sarebbero attivate da fibre adrenergiche: differenze il cui significato è oscuro. Istogenesi, struttura e modificazioni delle ghiandole mammarie femminili nell'infanzia, nel periodo puberale, in gravidanza, la loro riduzione al termine dell'allattamento e l'atrofia successiva alla menopausa, le differenze di sviluppo e destino delle ghiandole mammarie stesse nei due sessi erano note prima dell'inizio di questo secolo. Allora si riteneva, tuttavia, che la regolazione dello sviluppo delle mammelle fosse di natura nervosa, e appunto nel primo decennio del Novecento lo studio delle conseguenze della denervazione dell'organo in situ e del trapianto fuori sede indusse, per esclusione, all'ipotesi che sviluppo ghiandolare e processi secretori fossero controllati da fattori umorali provenienti dall'ovaia e dalla placenta.
Soltanto verso gli anni trenta, con lo sviluppo dell'endocrinologia, esperimenti di trapianto dell'ipofisi o di iniezione di estratti ipofisari aprirono la via alle conoscenze dell'influenza di tale ghiandola sulla mammella. Il complesso gioco ormonico che coinvolge in gravidanza l'azione del progesterone, della prolattina, di estrogeni, dell'ormone somatotropo e di ormoni del corticosurrene, e le conseguenze, nell'allattamento, dello stimolo del succhiamento sull'attività dei nuclei dell'ipotalamo, che promuovono la liberazione di prolattina e dell'ossitocina, la quale, a sua volta, stimolando la contrazione delle cellule mioepiteliali degli alveoli delle ghiandole mammarie, ne determinerebbe lo svuotamento, sono conquiste recenti alle quali hanno contribuito anche studi di morfologia sperimentale.
Per quanto riguarda l'innervazione sensitiva della pelle, nel Novecento si accrebbero considerevolmente le conoscenze sulla topografia e morfologia micro- e submicroscopica delle terminazioni nervose. L'ipotesi di M. von Frey (1897) dominante nei primi decenni di questo secolo, secondo la quale nella pelle esisterebbe un mosaico di punti, ognuno dei quali sarebbe adibito ad una singola modalità sensoriale (tatto, calore, freddo, dolore) associata ad un tipo di espansione nervosa morfologicamente specifica, non ha trovato piena conferma in ricerche successive. Per quanto vi siano prove non trascurabili a sostegno della tesi accennata, vi è molta incertezza rispetto alla base anatomica di sensazioni meno ben definibili di quelle fondamentali (per es., prurito) o delle diverse qualità di dolore prodotte da diversi tipi di stimoli. Non è da escludere la possibilità che le risposte evocate da stimoli diversi applicati alla pelle non dipendano tanto dal tipo particolare di terminazione nervosa che viene eccitata, cioè dalla sua organizzazione microscopica, submicroscopica e istochimica, quanto dal modo in cui le espansioni sarebbero stimolate (Weddel, 1960): di conseguenza, modalità sensoriali diverse potrebbero raggiungere il sistema nervoso centrale lungo le stesse vie nervose. Questi controversi problemi richiedono ulteriori indagini associate di morfologia e di fisiologia.
Le conoscenze sull'apparato di movimento, in particolare sui costituenti osteo-articolari, che alla fine dell'Ottocento potevano sembrare non suscettibili di arricchimenti significativi, si sono estese considerevolmente sia a livello macroscopico sia micro- e submicroscopico, soprattutto sotto l'aspetto funzionale. Grande importanza ebbe in un primo tempo l'applicazione della tecnica radiologica sia sul cadavere sia sul vivente. Già nel 1897, due anni dopo la scoperta di W. Röntgen, E. Zuckerkandl riportava interessanti osservazioni e prevedeva l'importanza che il metodo avrebbe assunto sia nello studio anatomico della meccanica articolare sia di altri problemi, quali ad esempio l'età di comparsa e l'ulteriore accrescimento dei nuclei di ossificazione, in particolare nelle ossa della mano e del piede; infatti, tali documenti raccolti in decenni successivi su casistiche sempre più estese di individui normali radiografati periodicamente nel periodo d'accrescimento, sarebbero stati utilizzati come termini di confronto per la valutazione di ritardi o di anomalie dei processi di ossificazione, e delle variazioni nel tempo di saldatura delle epifisi alle metafisi delle ossa lunghe quali, ad esempio, quelle determinate da turbe endocrine.
Sulla base delle prime ipotesi formulate nell'Ottocento sul probabile significato funzionale meccanico della distribuzione spaziale del tessuto osseo nella compatta e nella spugnosa (Wolff, 1869), vedute già adombrate invero in osservazioni di Galilei sulle ossa tubulari, si impostarono gli studi di biomeccanica dello scheletro, che si proponevano di accertare la capacità di adattamento funzionale del materiale scheletrico, secondo la teoria sviluppata da W. Roux fra il 1881 e il 1920 e che si dimostrò tanto fruttuosa nello studio di tutti i tessuti di sostegno. Roux postulò che, orientando il tessuto osseo secondo le traiettorie di carico, l'organismo realizza il massimo di resistenza fisica con il minimo di materiale costruttivo: l'adattamento delle parti scheletriche si produrrebbe per il gioco alterno di demolizioni e neoformazioni di tessuto osseo, influenzate rispettivamente dall'inattività e dall'attività, cioè dalle variazioni fisiologiche dell'entità e della distribuzione del carico meccanico.
Tali studi si svilupparono nel Novecento secondo due direttrici, con il fine di stabilire innanzitutto se l'architettura delle ossa nelle varie regioni dello scheletro è veramente adeguata alle caratteristiche locali del carico meccanico, statico e dinamico (azione dei muscoli), e per appurare inoltre attraverso quali processi e meccanismi biologici l'adattamento si compie. Si analizzò pertanto la resistenza caratteristica di varie regioni dello scheletro, sia direttamente, sottoponendo a carico ossa isolate e applicando metodi in uso nella tecnica dei materiali da costruzione per la valutazione delle tensioni; sia indirettamente, ricorrendo a modelli di ossa opportunamente sagomati in sostanze plastiche per visualizzare a luce polarizzata, nel modello sottoposto a carico, la distribuzione delle tensioni (metodo fotoelastico). W. Gebhardt (1901), allievo di Roux, spinse tale analisi nell'ambito delle strutture microscopiche nel tentativo di interpretare anche queste ultime come espressione di adattamento funzionale e di spiegare per questa via l'incessante lavorio di ricostruzione del tessuto osseo, che comporta continua sostituzione parcellare di strutture preesistenti con altre neoformate in apparente adeguamento a mutamenti qualitativi e quantitativi del carico. La resistenza fisica del tessuto osseo, indagata dapprima su ossa intere, è analizzata da più di un decennio anche su parti microscopiche isolate con particolari artifizi. È stata così gettata luce sul significato funzionale meccanico del tessuto osseo, cioè delle fibre collagene e del loro caratteristico orientamento, della sostanza fondamentale che le cementa e le rende solidali, e della fase minerale, che gli studi di microscopia elettronica e di diffrazione dei raggi Röntgen hanno dimostrato essere costituita sia da microcristalli orientati secondo l'asse dei costituenti macromolecolari delle fibre collagene sia da una frazione amorfa. Un'ingente mole di ricerche, alle quali collaborarono anatomici, ortopedici, ingegneri, consentì di convalidare nelle grandi linee la teoria di Roux e di Gebhardt: restano tuttora misteriosi i meccanismi grazie ai quali le cellule che demoliscono e ricostruiscono il tessuto osseo riescono ad adeguare la loro attività alle modificazioni fisiologiche delle situazioni meccaniche. A questo proposito è stato provato in anni recenti che il tessuto osseo, come altri materiali biologici calcificati o non calcificati, ha le proprietà di un transduttore, cioè è capace di convertire in energia elettrica l'energia meccanica dipendente dalle deformazioni che conseguono alle sollecitazioni; resta tuttavia da dimostrare l'ovvia ipotesi che le differenze di potenziale, che si creano durante le deformazioni fisiologiche, stimolino e controllino l'attività delle cellule osteocostruttrici e osteodemolitrici.
Sin dagli anni trenta, osservazioni istofisiologiche e di fisiopatologia (più tardi indagini eseguite con l'impiego di isotopi radioattivi del calcio e del fosforo e, negli ultimi vent'anni, con tecnica microradiografica) hanno messo in luce la partecipazione dello scheletro al metabolismo minerale dell'organismo: sotto questo aspetto le ossa rappresentano un'ingente riserva mobile di minerali, e il rinnovamento strutturale del tessuto osseo costituirebbe la più vistosa espressione morfologica microscopicamente apprezzabile dei continui prelievi e depositi di minerali. Spetta a future ricerche dimostrare sino a qual punto fattori meccanici e metabolici intervengano causalmente nella ricostruzione del tessuto osseo e quale parte giochino inoltre sia fattori ereditari sia l'azione di vari ormoni, in particolare il paratormone e la calcitonina di cui le cellule dell'osso rappresentano il diretto bersaglio.
Accrescimento e modificazioni della forma esterna delle ossa (modellamento) avevano formato oggetto di originali studi di H. L. du Hamel nella prima metà del Settecento, studi ripresi un secolo più tardi da P. Flourens e L. Ollier; quest'ultimo fu il primo a dimostrare l'attività osteogenica dello strato interno del periostio (strato osteogeno di Ollier). Negli ultimi trent'anni tali processi poterono essere indagati con esattezza anche sotto l'aspetto quantitativo con l'impiego di varie sostanze che, somministrate in vivo, marcano, rendendole riconoscibili nelle sezioni microscopiche, le parti di tessuto osseo che si depongono nel periodo di trattamento: il che consente sia di assegnare un'età precisa a parti di tessuto osseo formato in periodi diversi di tempo, sia di valutare la quantità di tessuto osseo che si forma e la velocità con cui si depone e si rinnova. Indagini di questo tipo rivestono grande interesse anche pratico, in quanto consentono di istituire fondate previsioni sul tempo di permanenza nello scheletro, e sulla velocità di liberazione dallo scheletro stesso, di radionuclidi e di elementi transuranici i quali, introdotti nell'organismo nelle aree soggette a ‛piogge radioattive', si fissano alle parti mineralizzate delle ossa determinandovi, a seconda del tempo di persistenza e della loro localizzazione, danni di varia gravità (osteonecrosi, tumori delle ossa, leucemie).
Anche le articolazioni, dispositivi di largo interesse sia sotto l'aspetto fisiologico sia per la loro estesa e varia patologia, costituirono argomento d'indagini di varia natura, a partire dall'analisi delle condizioni richieste per la loro comparsa nella vita embrionale e per il successivo modellamento delle superfici articolari, sino allo studio della struttura, ultrastruttura, caratteristiche istochimiche e attività dei materiali che le costituiscono (membrana sinoviale e cartilagini articolari), all'analisi dei movimenti articolari, al meccanismo di produzione e al significato funzionale del liquido sinoviale, la cui viscosità risultò più elevata nelle articolazioni soggette a movimenti più frequenti, estesi e veloci.
La cartilagine articolare, di cui fu posta in luce la caratteristica struttura di tipo funzionale, andrebbe incontro a lenta usura del suo strato superficiale durante l'attività di movimento: usura forse in parte compensata da formazione di nuova matrice cartilaginea per accrescimento interstiziale dello strato sottostante, come proverebbe il persistere in tale regione di un elevato metabolismo di radio- solfato per la sintesi dei condroitinsolfati della sostanza intercellulare. D'altra parte tutta la cartilagine articolare, la cui composizione era ritenuta stabile sino a non molti anni or sono, risulta invece in continuo rinnovamento a livello molecolare, in quanto la sintesi di mucopolisaccaridi ad opera delle cellule si estende per tutta la vita, accompa gnandosi ad una graduale sostituzione di cheratansolfato ai condroitinsolfati prevalenti nei soggetti giovani. È stato sperimentalmente dimostrato, inoltre, che l'esercizio pro- tratto in soggetti giovani stimola l'accrescimento in spessore della cartilagine articolare. D'altra parte, nei confronti delle pressioni, la cartilagine si comporta come un corpo elastico: proprietà questa che sembra connessa, oltre che con la sua peculiare struttura, con la capacità di assorbire e cedere materiali fluidi della sinovia durante il gioco articolare. L'innervazione dei tessuti articolari è stata largamente studiata in questo secolo e si è accertato, fra l'altro, che una parte delle fibre nervose articolari conducono stimoli dolorifici; non è dimostrato, invece, che il sistema nervoso viscerale controlli la produzione del liquido sinoviale, che può essere liberato anche da espianti in vitro di materiali articolari.
Per quanto si riferisce alla parte attiva dell'apparato di movimento, la muscolatura scheletrica, in questo secolo si sono particolarmente estese le conoscenze relative all'origine embriologica diversa dei muscoli della testa e del tronco e, rispettivamente, degli arti, alla natura pluricellulare delle fibre muscolari, che si costituiscono per fusione di cellule mononucleate, alle loro caratteristiche istochimiche e ultrastrutturali. Le indagini di microscopia elettronica hanno consentito di visualizzare nelle fibrille microscopiche, da lungo tempo note, due tipi di miofilamenti, i loro rapporti spaziali e le loro connessioni, e di prospettare valide ipotesi sugli aspetti morfologici della contrazione sino a livello macromolecolare. Il processo di ipertrofia muscolare da lavoro, dimostrato sperimentalmente sin dall'altro secolo, è stato ulteriormente indagato e sono state studiate le modificazioni della fittezza della rete capillare sanguifera che si associano a tale processo.
L'innervazione motoria e sensitiva dei muscoli ha formato oggetto di minutissime indagini qualitative e quantitative sino a livello submicroscopico, con particolare riguardo alla morfologia e istochimica delle terminazioni delle fibre motorie e alla complessa innervazione dei fusi neuromuscolari. Tali propriocettori, di fondamentale importanza per la regolazione dell'attività muscolare nella statica e dinamica del corpo, sono stati rintracciati non soltanto nei muscoli estensori, ove da tempo erano stati descritti, ma anche in muscoli che in passato si credeva ne fossero privi: queste indagini furono spesso condotte parallelamente con metodi morfologici ed elettrofisiologici. Sempre in questo campo, gli studi, iniziati da più di un secolo, sul calibro delle fibre nervose, e che dapprima apparivano privi di significato sul piano funzionale, acquistarono bruscamente importanza da quando J. Erlanger e H. S. Gasser (1937) con una serie di accurate ed eleganti ricerche di elettrofisiologia sperimentale, basate sulla utilizzazione, con tecniche particolari, dell'oscillografo a raggi catodici, poterono definitivamente stabilire una relazione fra il calibro della fibra e rispettivamente la soglia di eccitabilità e la velocità di conduzione dell'eccitamento: furono così distinte nei nervi muscolari tre diverse componenti motorie, le più esili delle quali (fibre gamma) sono destinate ai fusi neuromuscolari. Sotto la spinta di fatti messi in luce da fisiologi sono state accuratamente studiate anche le unità motorie, cioè l'insieme delle fibre muscolari, variabile da 5 sino a più di 100, innervato da singoli motoneuroni in ogni muscolo; i risultati di queste pazienti indagini giustificano la veduta che i muscoli con piccole unità motorie sono quelli adibiti a movimenti di alta precisione, quali ad esempio i muscoli motori del bulbo oculare, delle dita della mano, ecc.; al riguardo sono state tuttavia rilevate eccezioni difficilmente spiegabili attualmente. D'altra parte valutazioni recenti del numero delle fibre muscolari delle unità motorie di muscoli diversi di Mammiferi dimostrerebbero che tali unità sono costituite da un numero di fibre assai maggiore di quanto si ritenesse sino a pochi anni or sono, cioè da alcune decine di fibre per le piccole unità motorie ad oltre un migliaio per le grandi unità motorie.
Di rilevante interesse, anche pratico, sono le convincenti dimostrazioni sperimentali (addotte negli ultimi decenni) dell'ipotesi avanzata da S. Exner (1885), secondo la quale in muscoli parzialmente privati dell'innervazione motoria le unità muscolari denervate possono essere riinnervate dalle fibre nervose conservate intatte, per formazione di nuovi rami di divisione lungo il loro decorso nel muscolo (rigenerazione collaterale). Dall'analisi del comportamento di amminoacidi radioattivi assunti a livello del corpo di motoneuroni, o delle cellule di Schwann che ne rivestono il prolungamento nervoso, e utilizzati nella sintesi di proteine, le quali poi fluiscono lungo la fibra nervosa per essere liberate alla sua terminazione sulla fibra muscolare, si stanno accumulando crescenti prove che oltre al mediatore chimico dell'impulso nervoso (acetilcolina) altre sostanze sono trasportate attraverso la giunzione neuromuscolare; questo passaggio di materiali, tuttora non identificati chimicamente, potrebbe essere connesso con la cosiddetta funzione ‛trofica' che gli effettori nervosi eserciterebbero sulla muscolatura oltre a quella di trasmissione degli eccitamenti per la contrazione; infatti, la denervazione non comporta soltanto paralisi dei muscoli ma una graduale atrofia delle fibre muscolari sino alla loro scomparsa.
Un'analisi sistematica della partecipazione dei vari muscoli scheletrici al mantenimento della postura delle diverse parti del corpo e all'esecuzione dei movimenti iniziò soltanto verso il 1942-1943 con lo sviluppo dei circuiti elettronici, cioè quando si poté far ricorso alle tecniche elettromiografiche di registrazione. Molti di questi studi sono compiuti sul vivente in laboratori anatomici, e tutta una schiera di specialisti in questo campo d'indagini sostiene ad esempio, in opposizione a quanto si riteneva sino agli anni quaranta, che il tono muscolare in condizioni di riposo non corrisponde ad attività contrattile di unità motorie, mentre l'aumento o la diminuzione del tono muscolare corrisponderebbero ad aumento o diminuzione delle capacità di risposta del sistema motorio a tutti gli stimoli che gli pervengono, compreso il riflesso da trazione: risulterebbe che per mantenere la stazione eretta sarebbe necessaria una lieve attività muscolare, non soltanto a livello del tronco ma persino degli arti inferiori, piede compreso. L'analisi del tempo d'intervento e della durata della contrazione dei singoli muscoli di gruppi adibiti a movimenti diversi, ha consentito d'altra parte di trarre delle indicazioni di utilità anche pratica ai fini dell'allenamento a determinati esercizi, che possono essere compiuti con maggiore o minore dispendio d'energia a seconda della diversa utilizzazione dei vari muscoli che partecipano ai singoli movimenti articolari.
Importanti innovazioni nelle conoscenze dell'anatomia dell'apparato circolatorio risalgono già all'ultimo decennio dell'Ottocento e all'inizio di questo secolo. Indagini di quel periodo posero termine alla lunga controversia fra sostenitori della teoria miogena o neurogena dell'attività del cuore: W. His jr. nel 1893, sulla scia di precedenti ricerche di W. H. Gaskell (1883) e di S. Kent (1892) sul cuore di tartaruga e di ratto, dava una prima dimostrazione nell'uomo di un fascio muscolare che collega l'atrio destro ai ventricoli, seguita più tardi da altri dati più completi dello stesso autore, indi dalla sistematizzazione del fascio atrio-ventricolare ad opera di L. Aschoff e S. Tawara (1906), mentre A. Keith e M. Flack (1907) descrivevano il nodo del seno e l'esile fascio di condizione seno-atriale.
Struttura, vascolarizzazione, innervazione, precoce individuazione embrionale del sistema di conduzione dell'eccitamento furono argomento di studio nei due decenni successivi, mentre si sviluppavano sull'argomento indagini di fisiologia sperimentale e di anatomia patologica. Più recentemente, la derivazione di tracciati elettrocardiografici da frammenti di cuore embrionale e osservazioni sulla comparsa di contrazioni ritmiche spontanee in colture in vitro di doni di cellule miocardiche, hanno reso verosimile l'ipotesi che le cellule destinate alla funzione di pacemaker costituiscano dall'inizio una popolazione distinta dagli elementi del miocardio comune.
Le conoscenze sull'architettura della muscolatura del cuore umano, rilevanti per le deduzioni relative all'andamento dell'attività contrattile nella parete delle cavità del cuore, non subirono modificazioni sostanziali dopo i classici studi di J. Tandier e di F. P. Malì nel primo decennio di questo secolo. La tendenza prevalente ancor oggi è quella di prospettare la muscolatura dei ventricoli nell'uomo come costituita essenzialmente da due soli sistemi di fasci miocardici, in analogia a quanto rilevato sul cuore di animali: cioè, muscoli superficiali spirali e muscoli costrittori profondi, assai più sviluppati questi nel ventricolo sinistro. Continue indagini furono dedicate, d'altra parte, allo studio macro e microscopico dell'innervazione e della vascolarizzazione del cuore. Contro la veduta di J. Conheim, dominante alla fine dell'Ottocento, che le arterie coronarie siano di tipo terminale, W. Spalteholz (1907) e J. Tandler (1913) portarono dati decisivi, largamente confermati ed estesi successivamente, a dimostrazione dell'esistenza non soltanto di frequenti anastomosi fra rami delle singole coronarie, fra coronarie e arterie pericardiche, bronchiali e freniche, ma anche fra coronaria di destra e di sinistra, a livello degli atri, del setto interventricolare, dei muscoli papillari e della punta del cuore. Nonostante la loro frequenza, tali anastomosi sembrano essere di scarsa utilità come vie alternative di scarico del sangue in caso di ostruzione di rami delle coronarie, perché sono costituite da vasi che in genere non superano i 40 μ di diametro.
Lo studio macroscopico della distribuzione e del comportamento delle arterie negli organi fu grandemente facilitato in questo secolo dall'applicazione del metodo röntgenologico su preparati anatomici nei quali la rete vascolare è riempita con materiali radiopachi: applicazione tentata la prima volta già nel 1896 da Haschek e Lindenthal e largamente estesa un quindicennio più tardi da Tandler e altri anatomici. L'introduzione più recente nella pratica clinica della tecnica röntgenarteriografica sul vivente ha offerto agli anatomici un mezzo insostituibile per valutare anche gli aspetti dinamici della circolazione grossolana negli organi, in particolare il valore funzionale dei cosiddetti circoli collaterali, mentre il metodo microröntgenarteriografico veniva utilizzato su animali di laboratorio per uno studio della vascolarizzazione più minuta in singoli territori particolarmente adatti.
Parallelamente a queste conoscenze si sono sviluppate quelle relative alla struttura e ultrastruttura della parete dei vasi, ai rapporti topografici dei capillari con le cellule specifiche degli organi, all'esistenza e al meccanismo funzionale di valvole, anastomosi artero-venose, dispositivi di blocco, all'istofisiologia degli organi erettili. Indagini sub- microscopiche hanno consentito di mettere in evidenza morfologicamente le modalità di trasporto di materiali attraverso la parete dei capillari comuni e dei sinusoidi, le cui cellule endoteliali in sedi caratteristiche (ghiandole endocrine, glomeruli renali, villi intestinali) sono attraversate da minuti pori di 800-1.000 Å, per lo più chiusi da esilissimi diaframmi; è stato assodato che al passaggio di materiali contribuiscono anche processi di pinocitosi e minutissime fessure intercellulari. Le ipotesi formulate al riguardo sono state confortate con lo studio del destino di proteine traccianti di grandezza nota, ad esempio ferritina, perossidasi, agevolmente riconoscibili nelle micrografie elettroniche nelle sedi in cui vengono a trovarsi a varia distanza di tempo dall'immissione in circolo. Anche l'innervazione dei vasi è stata minutamente investigata, in parte sulla base di indicazioni di precedenti ricerche di fisiologia o di farmacologia sperimentale, soprattutto per quanto riguarda le aree pressocettorie. La reattività dei capillari è stata documentata, anche direttamente con indagini capillaroscopiche, in condizioni di flusso normale o sotto l'influenza di sostanze farmacologiche; tuttavia non è ancora assodato il ruolo delle fibre nervose nella reattività capillare. Queste incertezze riflettono le perplessità tuttora esistenti nel campo dell'innervazione viscerale periferica (v. sotto).
Numerosi dettagli sono stati acquisiti sulla fine anatomia della milza, organo intimamente associato all'apparato circolatorio. Ma le nozioni riguardanti le relazioni fra struttura e funzione sono nel complesso progredite modestamente dall'inizio del secolo, quando Malì (1903) e S. Mollier (1911), approfondendo osservazioni precedenti di C. A. Th. Billroth (1861-1862) e di V. von Ebner (1899), con l'iniezione di masse colorate diedero ulteriori prove della porosità della parete dei seni venosi, cioè della possibilità di una circolazione aperta. Il che era stato riconosciuto, d'altra parte, anche da F. Weidenreich (1901) a proposito dello sbocco diretto nelle maglie del reticolo stromale di capillari emessi dalle arteriole che attraversano i corpuscoli lienali: l'esatta modalità di comportamento di questi capillari nella milza dell'uomo è tuttavia ancora oggetto di discussione (Tischendorf, 1969).
Molti studi, in parte compiuti in vivo sulla milza di piccoli Mammiferi, furono indirizzati ad analizzare i particolari della circolazione nella polpa splenica, l'esistenza di comunicazioni dirette fra arterie e vene, di sfinteri e, in genere, di dispositivi regolatori del flusso. A conferma di antiche osservazioni di Billroth e di S. von Schumaker (1900) è stato obiettivato nelle regioni subcapsulare e peritrabecolare della milza di vari Mammiferi, non dell'uomo, un plesso tridimensionale di cellule muscolari nella polpa rossa in continuità con la muscolatura della capsula e delle trabecole: questi dispositivi prenderebbero parte al meccanismo di riempimento e/o di svuotamento delle maglie della polpa. Altre indagini sono state dedicate all'analisi dello stroma reticolare con tecniche d'impregnazione con sali d'argento introdotte all'inizio di questo secolo, o con l'esame a luce polarizzata, a contrasto di fase o in campo oscuro di sezioni microscopiche liberate dalle cellule con la digestione enzimatica; anche i rapporti fra stroma reticolare e cellule fisse e l'attività istiocitaria di queste ultime furono analizzati in dettaglio. Negli ultimi vent'anni hanno assunto crescente sviluppo le indagini sulla localizzazione istochimica di vari sistemi enzimatici (v. Arvy, 1965), sull'attività emocateretica delle cellule endoteliali dei seni venosi e reticolari dello stroma, sull'origine e le parentele delle cellule della polpa bianca e rossa, sulla funzione citopoietica e immunitaria della milza in risposta ad antigeni circolanti: dati recenti provano che gli anticorpi sono prodotti da grandi linfociti basofili e particolarmente dai plasmatociti che da questi derivano. Caratteristiche differenze d'innervazione della milza sono state rintracciate in varie specie animali nelle quali tale organo presenta atteggiamenti funzionali diversi; per esempio, nel gatto è apparso abbondantemente innervato il sistema muscolare della capsula e delle trabecole che, contraendosi, interverrebbe nelle rapide modificazioni di volume dell'organo (Tischendorf, 1969).
Anche le nozioni sulla sezione linfatica dell'apparato circolatorio furono estese in questo secolo, in parte grazie all'introduzione di nuovi materiali d'iniezione in sostituzione del mercurio anticamente usato per la visualizzazione dei vasi linfatici. La miscela di Gerota consentì dalla fine dell'Ottocento uno studio dettagliato delle reti linfatiche in tutti i Vertebrati a partire dai Petromizonti; più recentemente sono stati impiegati materiali d'iniezione radiopachi oppure fluorescenti in luce ultravioletta, che possono essere utilizzati anche sul vivente, ad esempio nel corso d'interventi chirurgici, per riconoscere il decorso dei vasi linfatici e stabilire la loro pervietà. Alla conoscenza più dettagliata della regionalità dei linfonodi, cioè dei territori dai quali le singole stazioni linfonodali ricevono linfa, hanno contribuito anche osservazioni sistematiche di anatomo-patologi sulla distribuzione di linfonodi interessati da processi infiammatori o neoplastici di organi o parti di organi.
Furono anche determinati gli organi nei quali una rete di capillari linfatici manca o è scarsa; talora, per ragioni tecniche, l'estensione di tale rete è stata valutata diversamente da autori differenti, come, ad esempio, nel caso dei muscoli scheletrici e della milza. Il problema dell'esistenza di una circolazione linfatica nei centri nervosi, che sembrava risolto in senso positivo nella seconda metà dell'Ottocento con la descrizione degli spazi che circondano la parete di arteriole e venule della sostanza nervosa - cosiddette ‛guaine linfatiche perivasali' di Virchow-Robin - e di guaine perinevrali attorno ai nervi periferici, è tuttora in discussione: tuttavia, lo sbocco di tali guaine negli spazi subaracnoidali dell'encefalo e del midollo sarebbe in contrasto con il significato primitivamente loro attribuito. Anche le connessioni fra spazi subdurali, subaracnoidali e vie linfatiche, che potrebbero favorire il deflusso del liquor nella linfa, richiedono ancora nuove indagini, per quanto negli ultimi vent'anni sia stato dimostrato che granelli di inchiostro di china, proteine marcate e addirittura globuli rossi introdotti nel liquor potrebbero entrare nel circolo linfatico e raggiungere linfonodi regionali fluendo lungo le guaine aracnoidali dei filamenti olfattori e delle radici dei nervi spinali cervicali e lombo-sacrali. Particolari progressi furono compiuti nello studio dello sviluppo dei vasi linfatici, che si riteneva procedesse in senso centripeto a partire da fessure del connettivo degli organi periferici. Risultò invece (Lewis, 1906; Sabin, 1908, 1913) che i vasi linfatici traggono origine dalla parete delle primitive vene e si estendono da queste in senso centrifugo: tale origine fu più tardi controllata in condizioni sperimentali in vivo con la tecnica di Sandison della ‛camera trasparente' applicata all'orecchio del coniglio (Clark e Clark, 1932), che consentì di seguire gradualmente e di fotografare al microscopio i gettoni endoteliali che, proliferando dalla parete delle vene, accrescendosi e anastomizzandosi a rete, acquistano secondariamente un lume.
Lo studio della struttura del tessuto linfatico, già minutamente indagata nell'Ottocento, fu esteso includendovi oltre alle ‛ghiandole conglobate' dell'antica letteratura, cioè linfonodi, tonsille, follicoli aggregati, corpuscoli lienali, anche il tessuto linfatico diffuso presente nelle mucose di vari organi cavi e, praticamente, tutti i tessuti di origine mesenchimale nei quali si possono originare cellule linfatiche, compreso il midollo osseo.
Sistematizzazioni largamente accettate furono compiute da L. Aschoff (1925) e da T. Hellmann (1930), che indagarono particolarmente il significato funzionale reattivo dei noduli secondari dei follicoli, cioè i ‛centri chiari' che sin dai tempi di Flemming erano stati considerati esclusivamente centri germinativi, di proliferazione. Speciale attenzione fu rivolta all'analisi e all'interpretazione funzionale di quelle regioni del sistema linfatico ove si istituisce un intimo, ma non ancora ben definito rapporto fra cellule linfatiche e cellule epiteliali: tonsille, appendice vermiforme, timo, borsa di Fabrizio degli Uccelli. Origine, attività, destino delle cellule linfatiche costituirono argomento di continue e spesso contrastanti indagini, tuttora in pieno sviluppo; dopo un lungo periodo nel quale il linfocito era considerato una tappa terminale, matura, della serie linfoide, da qualche tempo è stata rimessa in esame la questione aperta all'inizio del secolo da A. Pappenheim (1899), da J. Wolff (1902) e soprattutto da A. A. Maksimov (1902) con l'ipotesi che i linfociti, o una parte di essi, siano cellule indifferenziate o comunque capaci di moltiplicarsi e di trasformarsi in altri elementi: recentemente è stato riconosciuto che, almeno in vitro e sotto determinate influenze, i piccoli linfociti possono, accrescendosi, trasformarsi in blasti, eventualmente in plasmatociti, macrofagi, piccoli mieloblasti. Il meccanismo di controllo della produzione dei linfociti e l'esistenza di varietà a morfologia, durata di vita e attività biologiche differenti, sono oggetto di corrente dibattito, e così pure il ruolo giocato da ormoni del corticosurrene, dall'insulina, dall'ormone tiroideo e da altri agenti umorali sul rinnovo di linfociti.
A questi problemi si collegano quelli relativi alla struttura e all'attività del timo. Quest'organo ritenuto nel Settecento una ghiandola esocrina, della quale alcuni anatomici credevano di aver rintracciato il condotto escretore, fu più tardi incluso fra le ghiandole linfatiche e, nella prima metà dell'Ottocento fra le ghiandole vascolari insieme alla milza, tiroide, surreni. Le ricerche di anatomia, istologia e di embriologia del timo che fiorirono nella seconda metà dell'Ottocento miravano spesso a indagare cause e meccanismi della cospicua riduzione di grandezza che quest'organo subisce dopo la pubertà; circostanza questa che non era sfuggita a Galeno e che, ancora alla fine dell'Ottocento, W. Waldeyer-Hartz riteneva si compisse sin dall'adolescenza. Le estese ricerche di J. A. Hammar (v., 1905, 1926 e 1940) provarono che il timo si riduce considerevolmente prima del termine dell'accrescimento somatico e che, tuttavia, residui ben riconoscibili e apparentemente funzionali del timo persistono anche in età senile: Hammar distinse un'involuzione fisiologica da quella accidentale, dovuta a fattori esterni e interni di varia natura (radiazioni, azione di ormoni, ecc.).
Pur essendo noto sin dall'Ottocento che il timo si differenzia da un abbozzo entodermico a struttura tipicamente epiteliale e che acquista secondariamente quella di un organo linfatico; non si conosce neppur oggi con certezza se i linfociti del timo originino in loco da trasformazione degli elementi epiteliali oppure siano, come gli altri linfociti, di natura mesenchimale e giungano al timo per via circolatoria. Comunque, è stato accertato che il timo differisce dagli altri organi linfatici non solo per origine, struttura, reattività delle sue cellule a stimoli chimici, fisici, ad antigeni, ma anche per le conseguenze che la sua asportazione determina in confronto a quella di altri organi linfatici. È stato chiarito, d'altra parte, che i linfociti della corticale del timo, non quelli della midollare, si moltiplicano vivacemente; ma non si sa se queste cellule abbandonino l'organo o, come sembra più verosimile, siano distrutte in loco, dato che il 95% circa dei linfociti timici non sopravviverebbero più di 3-4 giorni. Si sa invece, in gran parte per contributi della patologia sperimentale, che la linfocitopoiesi nel timo è indipendente da stimolazione antigenica e che il timo negli animali di laboratorio è necessario per la ricostruzione del sistema delle cellule immunocompetenti quando questo sia stato distrutto, ad esempio con panirradiazione. Una funzione endocrina del timo, sostenuta per lungo tempo soprattutto da clinici e da patologi (talché, quest'organo fra gli anni trenta e cinquanta era incluso anche da anatomici e fisiologi fra le ghiandole a secrezione interna) non è mai stata obiettivamente dimostrata, anche se vari esperimenti proverebbero che fattori umorali di origine timica stimolano la linfocitopoiesi (Metcalf, 1964) e inducono la differenziazione di cellule immunocompetenti.
Settant'anni di continue indagini hanno determinato mutamenti significativi delle conoscenze ereditate dall'Ottocento anche su vari aspetti di quella parte dell'anatomia che didatticamente è chiamata ‛splancnologia', e che comprende gli organi della digestione e della respirazione, dell'apparato urinario e genitale maschile e femminile. Per ragioni di spazio, nelle pagine seguenti si farà cenno, brevemente, soltanto all'evoluzione di nozioni essenziali su alcuni organi rappresentativi degli apparati ora accennati, cioè il fegato, il polmone, il rene, le gonadi maschili e femminili.
Per quanto riguarda il fegato, nell'ultimo mezzo secolo è stato più volte rimesso in discussione il problema dell'architettura funzionale dell'organo. Ancora fra gli anni cinquanta e sessanta è stato contrapposto al tradizionale lobulo (epatone di Rössle), cioè la parte di parenchima epatico approssimativamente a forma di tronco di piramide esagonale circondato dalle ramificazioni distali dei tronchi interlobulari della vena porta, l'acino (Rappaport e Wilson, 1958) - che si richiama al lobulo biliare prospettato da Ch. Sabourin (1883) e, poco più tardi, da W.R. Lewis (1904) e all'unità portale di Malì (1906) - cioè la porzione di parenchima epatico percorsa assialmente dai rami della vena porta, dell'arteria epatica e dei condotti biliari, verso i quali convergono i capillari sinusoidali, i capillari biliari e le trabecole di cellule dei lobuli adiacenti. Questa rappresentazione, che ha incontrato soprattutto il favore dei patologi, consentirebbe di comprendere meglio le differenze quantitative dell'attività delle cellule epatiche a seconda della sede che occupano in relazione all'asse vascolare dell'acino, la loro diversa suscettibilità ad alterazioni dell'irrorazione sanguigna e, più in generale, a modificazioni patologiche di varia natura.
Di maggior interesse sono le acquisizioni sull'istofisiologia delle cellule epatiche, che è stata indagata con svariate tecniche e a diversi livelli di grandezza anche in condizioni sperimentali, quali digiuno, varia alimentazione, trattamento con ormoni, vitamine, introduzione in circolo di amminoacidi o zuccheri radioattivi, di proteine traccianti, di sostanze fluorescenti, varie modificazioni della circolazione epatica. Molti studi di microscopia elettronica e di istoenzimologia sono stati eseguiti anche su frustoli di fegato umano estratti dal vivente con agopuntura bioptica: spesso indagini parallele, morfologiche e biochimiche, sono state condotte sulle cellule in situ e su frazioni di omogenati cellulari. Informazioni dettagliate sono state raccolte sulla formazione dei costituenti della bile, sull'eliminazione di questa dalle cellule epatiche nel sistema dei capillari biliari - i quali, è ormai accertato, hanno soltanto sede intercellulare, mai intracellulare com'era stato prima sostenuto - sulla proiezione di microvilli dalla superficie delle cellule epatiche nel lume di capillari biliari e nello spazio perisinusoidale di J. Disse, sulla fine struttura dei sinusoidi del lobulo e sui loro rapporti anatomici e funzionali con lo spazio di Disse e con le cellule epatiche, sulle caratteristiche istofisiologiche delle cellule endoteliali e di K. W. Kupffer, di elementi pericitari dei sinusoidi.
Nella parete dei rami delle vene epatiche sono stati descritti dispositivi muscolari spirali nell'uomo e veri anelli a tipo sfinterico in vari animali, interpretabili come meccanismi atti a controllare il flusso di sangue; formazioni aventi analogo significato sono state pure rintracciate nei rami interlobulari dell'arteria epatica e della vena porta. Ipotesi accettabili sono state formulate sulla formazione e il deflusso dell'abbondante linfa del fegato, essendo noto sin dall'Ottocento che nel fegato la rete dei capillari linfatici è limitata al connettivo degli spazi interlobulari; a tale rete la linfa giungerebbe dagli spazi perisinusoidali di Disse e perilobulari di Mali, che comunicano fra di loro, e la cui esistenza nel fegato normale è stata largamente confermata al microscopio elettronico. Invece la presenza di comunicazioni dirette fra spazi linfatici e capillari biliari del lobulo, e fra questi e capillari sinusoidali, com'era stato proposto all'inizio di questo secolo e ribadito recentemente in base a dati di microscopia elettronica, non risulta accettabile.
Lo sviluppo dei lobuli epatici è stato ampiamente reinvestigato, anche allo scopo di cogliere i primi segni dell'attività biligena e glicogenosintetica degli epatociti, ed è stata confortata da nuovi dati la veduta che l'architettura lobulare sia in parte determinata dalla direzione di flusso e dalla pressione del sangue, condizioni emodinamiche che subiscono mutamenti graduali nella vita fetale e si modificano considerevolmente alla nascita. I processi di ematopoiesi epatica embrionale sono stati indagati con tecniche diverse, ma la natura delle cellule da cui si originano nel fegato le cellule del sangue è tuttora oggetto di dibattito. D'altra parte i risultati di numerose indagini sulla fine innervazione del fegato non sono ancora tali da consentire un'interpretazione soddisfacente dei meccanismi grazie ai quali il sistema nervoso potrebbe influenzare le attività dell'organo. Anche i processi di rigenerazione dell'organo dopo epatectomia parziale, prospettati sin dalla fine dell'Ottoceìito, sono stati largamente indagati soprattutto per determinarne i fattori, verosimilmente di natura umorale, ma tuttora mal conosciuti.
L'ipotesi avanzata da molti anni di un'attività di riassorbimento di costituenti della bile cistica sembra sia sostenuta dal recente reperto di fessure submicroscopiche fra le superfici adiacenti delle cellule dell'epitelio che riveste internamente la parete della cistifellea, dall'esistenza nelle stesse cellule di granuli e vescicole interpretate come manifestazioni di processi di pinocitosi, e dalla presenza di pori nell'endotelio della sottostante rete di capillari sanguiferi. A livello macro- e microscopico sono state compiute minute revisioni della muscolatura liscia del tratto duodenale del coledoco (sfintere di Oddi) che regola il passaggio della bile nell'intestino: nella guaina muscolare che avvolge la parte preampollare, l'ampolla e parte del dotto pancreatico, sono stati recentemente distinti tre componenti di cui due sfinterici, all'ingresso del coledoco nella parete duodenale e attorno all'orifizio papillare, e uno dilatatore a decorso longitudinale.
Per quanto riguarda il polmone, sono state compiute pazienti ricerche sullo sviluppo nella vita fetale e sulle cospicue modificazioni di architettura e di struttura che l'organo subisce durante l'accrescimento postnatale sino alla pubertà. Negli anni quaranta è stata iniziata una revisione e risistematizzazione delle ramificazioni dei bronchi e dei vasi intrapolmonari, introducendo la suddivisione dei lobi in nuove entità, i segmenti (sublobi, zone), e di questi in subsegmenti ventilati da rami primari del bronco segmentale, e quella dei lobuli in ‛acini': termine quest'ultimo che era già stato proposto alla fine dell'Ottocento da Laguesse e d'Hardiviller a designare la parte delle vie respiratorie intralobulari fornita dalle ultime ramificazioni dei bronchi intralobulari, oggi chiamate bronchioli terminali o minimi. La disposizione della muscolatura liscia e dello stroma elastico e collagene dei vari costituenti dell'acino sono stati più esattamente descritti in rapporto alla meccanica respiratoria, e numerosi studi sono stati dedicati al problema lungamente dibattito della costituzione, fine struttura e attività biologica del rivestimento cellulare della parete alveolare, che si riconosce ormai come formato da due tipi di elementi epiteliali a forma e attività alquanto diversa. Le cellule cosiddette del II tipo, grandi cellule alveolari, possono presentare modesta capacità istiocitaria, sono ricche di enzimi e, oltre a possedere microvilli alla superficie prospiciente il lume alveolare, contengono anche strutture che in altre sedi si ritrovano in cellule adibite a funzioni di trasporto; questi elementi attendono forse alla sintesi e secrezione di fosfolipidi tensioattivi dello strato fluido (surfactant) che bagna la superficie interna della parete dell'alveolo. L'origine probabile dei macrofagi della parete alveolare da vari tipi di cellule e la loro attività enzimatica e di sintesi sono pure state indagate: si ritiene oggi che tali elementi posseggano anche estese potenzialità verso attività metaboliche e immunologiche.
Pori di comunicazione fra alveoli contigui, già descritti nell'Ottocento come reperti normali, ma la cui esistenza era poi stata negata o ritenuta eccezionale, sono stati confermati sia morfologicamente sia con metodo fisiologico. Distribuzione e struttura di arterie e vene polmonari e bronchiali, esistenza di anastomosi artero-venose, artero-arteriose e veno-venose sono state largamente reinvestigate, e così pure la fine innervazione delle vie aerifere sino alla parete alveolare, argomenti questi già studiati in dettaglio alla fine dell'Ottocento da M. O. Retzius e H. J. Berkiey ma tuttora in discussione sotto l'aspetto istofisiologico.
Sviluppo, struttura microscopica del rene e modalità di distribuzione dei vasi nell'interno dell'organo erano già conosciuti in dettaglio negli ultimi decenni dell'Ottocento. Indagini di microscopia elettronica hanno rivelato nell'ultimo quindicennio la minuta struttura del tubulo e del corpuscolo renale, in particolare la porosità dell'endotelio dei capillari glomerulari, l'esistenza di fessure ultramicroscopiche fra i prolungamenti delle cellule epiteliali (podociti) della pagina viscerale della capsula di Bowmann, e di un triplice strato di mucopolisaccaridi, non associati a fibrille collagene, interposto fra endotelio e podociti: dati questi di grande importanza per la fisiologia e la patologia del rene, anche se rendono più difficile di quanto si prospettasse in passato l'interpretazione istofisiologica del meccanismo di filtrazione glomerulare dell'orina provvisoria. La partecipazione dei diversi tratti del nefrone, corpuscolo e varie parti del tubulo, alla formazione dell'orina è stata oggetto di continuo dibattito da parte di fisiologi e morfologi per oltre un secolo.
Nell'Ottocento godette favore dapprima il punto di vista di Bowmann, che prospettava l'eliminazione di sola acqua a livello del glomerulo e un'attività secretoria del tubulo, indi quella di C. Ludwig, che postulava invece un eliminazione glomerulare di tutti i costituenti dell'orina e un riassorbimento tubulare di acqua. Ancora nell'Ottocento R. Heidenhain (v., 1874) aveva descritto in dettaglio la caratteristica struttura delle cellule cupoliformi dei tratti principali del tubulo e rilevato la loro capacità di eliminare materiali traccianti (indigosolfato sodico); fatto questo negato più tardi, reinterpretato nel secondo decennio di questo secolo come espressione di riassorbimento ma confermato infine in via definitiva. Tuttavia, soltanto verso gli anni trenta furono avanzate prove decisive sull'attività di escrezione oltre che di riassorbimento tubulare (Ellinger e Hirt, 1929) sfruttando i particolari dispositivi vascolari del rene di Anfibi, descritti ancora nell'Ottocento da J.N. Nussbaum, che consentono di escludere selettivamente la circolazione glomerulare o quella tubulare. Documenti istologici sull'attività di riassorbimento, ad esempio di glucosio da parte del tubulo renale umano, furono acquisiti recentemente: in diabetici, infatti, compaiono gocciole di glicogeno nell'epitelio dei tratti principali del tubulo, mentre inibendo con fluorizina l'attività fosfatasica dell'orletto a spazzola di tali cellule si riduce il riassorbimento di glucosio e ne consegue glicosuria. Altre ricerche istochimiche hanno provato che i tratti principali del tubulo riassorbono con l'acqua la maggior parte dei cloruri. Elettroliti sono riassorbiti anche dai canali collettori, sino a pochi anni or sono ritenuti semplici tubuli di conduzione dell'orina definitiva: durante il riassorbimento, apparentemente favorito dalla presenza di microvilli sulla superficie libera delle cellule epiteliali dei canali collettori, il nucleo di tali elementi subisce un significativo rigonfiamento.
A partire dal 1925 l'attenzione di numerosi morfologi fu attratta dall'apparato iuxtaglomerulare, una formazione compresa fra arteriola afferente del glomerulo e tubulo renale, tosto interpretata come un dispositivo regolatore dell'afflusso del sangue nel glomerulo. Ricerche di fisiologia dimostrarono più tardi che le cellule di tali corpiccioli, gremite di granuli rilevabili al microscopio elettronico, produrrebbero la renina, sostanza che, passando in circolo, attiva l'angiotensinogeno del plasma con formazione di angiotensina ad azione ipertensiva. Tuttavia il meccanismo funzionale dell'apparato iuxtaglomerulare come quello della macula densa del tratto adiacente del tubulo renale è ancora oggetto di speculazione. Studi sperimentali dell'ultimo quindicennio hanno pure rivelato che il rene è una delle principali sorgenti di un fattore stimolante l'eritropoiesi (ESF o eritropoietina); si ignorano tuttavia la sede a livello cellulare e il meccanismo di produzione di tale principio.
Anastomosi artero-venose per la regolazione dell'irrorazione sanguifera a livello del seno renale, nella corticale, nella capsula furono ripetutamente descritte, ma la loro esistenza non è stata in genere confermata da indagini più recenti. Largamente studiati, infine, furono i processi di ipertrofia compensatoria di un rene in caso di asportazione di quello dell'altro lato, e la capacità rigenerativa dopo asportazione di una parte dell'organo: la prima risulterebbe dall'insieme di processi di iperplasia, per proliferazione cellulare a livello dei tubuli, e di vera e propria ipertrofia.
Al testicolo, del quale era nota da lungo tempo la funzione spermatogenetica, fu riconosciuta anche un'attività endocrina soltanto in questo secolo. Nel 1903, Bouin e Ancel (v., 1903) prospettavano la possibilità che le cellule delle isole interstiziali della gonade maschile, scoperte da Leydig nel 1857, producano un ormone sessuale, ma prove obiettive di tale ipotesi furono date soltanto in decenni successivi e stimolarono allora un gran numero di indagini istofisiologiche, istochimiche e, più recentemente, ultrastrutturali. Sin dagli ultimi decenni dell'Ottocento si era riconosciuto, tuttavia, che le cellule di Leydig hanno origine mesenchimale, sono caratterizzate dalla presenza di gocce lipidiche e di cristalli proteici nel citoplasma, subiscono un considerevole incremento di numero prima del quarto mese di vita fetale per ridursi nei primi anni dopo la nascita e aumentare di nuovo in grado spiccato all'inizio della maturità sessuale. Ancor prima era stato rilevato il parallelismo fra sviluppo dei testicoli e rispettivamente della prostata, del condotto deferente, delle vescicole seminali e del pene, e la ipotrofia di questi organi nei castrati, ed erano state descritte le caratteristiche eunucoidi dello scheletro, della laringe, delle mammelle in casi di castrazione precoce. Tuttavia, ancora all'inizio del Novecento tali fatti erano attribuiti piuttosto a cause ‛psichiche' che all'assenza di speciali fattori umorali di origine testicolare. D'altra parte, ancor oggi s'ignorano i fattori induttori ormonici che impongono all'abbozzo indifferente della gonade dell'embrione la precoce organogenesi in senso testicolare, il che consente tosto a quest'organo di provocare a sua volta la regressione dei canali di Müller, che invece vanno incontro a sviluppo nel sesso femminile formando utero e trombe uterine.
Le conoscenze sulla istofisiologia della spermatogenesi risalgono in larga parte alla seconda metà dell'Ottocento e furono completate all'inizio del Novecento; ma soltanto negli anni sessanta, con l'impiego della timidina triziata e con metodo autoradiografico, sono state individuate nei tubuli seminiferi del testicolo umano 6 generazioni di cellule che si susseguono cronologicamente in ogni singola area della parete del tubulo costituendo una serie di cicli spermatogenetici che dura all'incirca 64 giorni. Nello stesso periodo indagini ultrastrutturali hanno dimostrato l'esistenza di ampi ponti intercellulari fra gruppi di spermatociti e, rispettivamente, di spermatidi anche quando questi aderiscono a cellule di Sertoli diverse; è stato supposto che attraverso queste connessioni citoplasmatiche siano trasmessi da elemento a elemento segnali atti a garantire la sincronizzazione dei processi di spermatogenesi. Tali segnali sono forse collegati in origine a passaggio di materiali fra cellule di Sertoli e spermatidi, come farebbero supporre alcuni dati istochimici.
Numerose ricerche istofisiologiche sono state dedicate nel corso dell'ultimo cinquantennio allo studio della circolazione e diffusione dei fluidi nel testicolo e nei dispositivi che sembra controllino il passaggio di materiali molecolari, ad esempio ormoni, dal sangue o dalla linfa nella parete o nel lume dei tubuli seminiferi (cosiddetta ‛barriera emato-testicolare'); ma conclusioni appaganti, fondate su reperti morfologici sicuramente dimostrativi, non sono ancora state raggiunte.
Gran parte delle nozioni descrittive sulla struttura dell'ovaio, la maturazione o l'atresia dei follicoli, l'ovulazione, la formazione del corpo luteo, la sua durata e il suo destino sono ancor oggi sostanzialmente quelle acquisite nel corso dell'Ottocento; sono invece radicalmente mutati i concetti di istofisiologia della gonade femminile da quando è stata messa in luce la sua attività endocrina. Indagini embriologiche hanno dimostrato la presenza delle cellule germinali primitive in periodi precocissimi (embrioni umani di 0,5 mm) all'estremità caudale della linea primitiva; ma si ignora se da tale sede di origine esse raggiungono l'abbozzo dell' ovaio per migrazione attiva oppure per via vascolare, come è stato sperimentalmente dimostrato in altri Vertebrati. Per quanto si riferisce al comportamento delle cellule uovo prima della maturità sessuale, sin dalle classiche osservazioni di Waldeyer si ritenne che gli oogoni si moltiplichino ripetutamente nella corticale dell'ovaia in periodo fetale precoce e che soltanto alcuni fra questi possano raggiungere la maturità mentre gli altri gradualmente regrediscono. A partire dagli anni trenta si è sempre più diffusa l'ipotesi che tutti gli ovociti presenti nell'ovaia fetale degenerino tosto dopo la nascita, per essere sostituiti ex novo da oogoni derivati da proliferazione postriatale dell'epitelio ovarico. Questa tesi - che in parte si ricollega all'osservazione che nelle ovaie di alcuni Mammiferi non si rinvengono uova in certi periodi dell'anno (in settembre e ottobre nell'ermellino) oppure il numero degli ovociti è ridottissimo (d'inverno nella giumenta) mentre aumenta notevolmente in altre stagioni - urta tuttavia contro numerosi dati descrittivi e sperimentali che sembrano ben assodati.
Assai dibattuta è tuttora la sede di produzione dell'ormone estrogeno, follicolina, se cioè esso sia prodotto dalle cellule epiteliali dei follicoli ovarici, che sicuramente sintetizzano proteine e polisaccaridi che poi si ritrovano nel liquor follicoli, oppure, come appare più sostenibile, dalle cellule connettivali della teca interna dei follicoli, le quali mostrano un elevato metabolismo sterolico e sono in rapporto con una fitta rete di capillari sanguiferi.
Quest'ultima veduta sarebbe confermata dall'iperplasia della teca interna di follicoli in corso di atresia cistica o obliterante, condizione nella quale la teca produrrebbe estrogeni. Neppure i fattori e i meccanismi di rottura del follicolo vescicoloso al momento dell'ovulazione sono stati definiti esattamente: condizioni meccaniche intrinseche ed estrinseche al follicolo giocano indubbiamente un ruolo significativo, ma è stato supposto che v'intervenga anche l'azione litica di una proteinasi, che digerirebbe il collagene di quella parte scarsamente vascolarizzata delle teche ove si produce la deiscenza. Altro problema tuttora aperto è quello dell'origine, sede e attività di eventuali cellule interstiziali nell'ovaia della donna analoghe a quelle che in altri Mammiferi costituiscono la ‛ghiandola interstiziale'. Di incerto significato sono, infine, le isole di cellule ‛neurotrope' o ‛simpaticotrope' dell'ilo descritte sin dagli anni venti nell'ovaia di donna e di altri Mammiferi: esse contengono abbondanti lipidi, lipocromi e presentano alcune caratteristiche istologiche e istochimiche delle cellule di Leydig del testicolo; si è avanzata l'ipotesi che producano androgeni, il che non è stato sinora dimostrato.
Fra le numerose ricerche d'importanza applicativa compiute in questo secolo su altri segmenti dell'apparato genitale femminile, è opportuno far cenno agli studi dell'anatomico G. N. Papanicolaou (1933) sulle modificazioni morfologiche e istochimiche delle cellule dell'epitelio vaginale nei vari periodi del ciclo mestruale, in menopausa e in condizioni patologiche varie: essi hanno costituito il fondamento delle indagini di ‛citologia esfoliativa' correntemente applicate in ginecologia per rilevare su strisci di materiale raccolto in vagina segni incipienti di modificazioni carcinomatose dell'epitelio della portio uterina.
Il rilevante progresso delle conoscenze di istofisiologia dell'apparato endocrino in questo secolo fu stimolato e in gran parte determinato dall'apporto di fisiologi sperimentali e dalle osservazioni cliniche; spesso, infatti, fu un particolare quadro morboso con il relativo controllo anatomopatologico a orientare gli studi di fisiologi e anatomici su di una determinata ghiandola. L'ipotesi dell'esistenza di un meccanismo umorale di correlazione fra parti diverse dell'organismo incominciò a essere vagamente prospettata nella seconda metà del Settecento e trovò formulazioni gradualmente più circostanziate nel corso del secolo successivo. Sotto il profilo anatomico fu forse F. G. J. Henle, allievo di J. Müller, il primo a prospettare (1841) che gli organi allora compresi fra le ghiandole prive di apparato escretore o ‛ghiandole vascolari', com'erano catalogati i surreni e la tiroide ma anche la milza, il timo, la placenta, possano trarre dal sangue determinate sostanze, rielaborarle e reimmetterle nel circolo sanguigno o linfatico.
Per quanto attiene all'ipofisi, le ricerche istochimiche dell'ultimo trentennio hanno confermato ed esteso quanto già prospettato da B. Romeis negli anni trenta, cioè l'esistenza nell'adenoipofisi dell'uomo di distinte forme di cellule cromofile oltre alle cromofobe. In particolare vennero progressivamente distinte due grandi categorie di cellule cromofile, contenenti rispettivamente granuli glicoproteici (cellule basofile) e semplicemente proteici (cellule acidofile); in secondo luogo si divisero le prime nelle cosiddette ‛cellule tireotrope' e ‛cellule gonadotrope' e queste ultime nelle cellule che producono ormone follicostimolante e luteinizzante. Attualmente si distinguono istologicamente sei categorie di cellule, che costituirebbero stipiti distinti dotati di attività ormonale specifica (Herlant, 1964). A queste identificazioni, come allo studio dell'inizio dell'attività sintetica di ormoni diversi da parte dei vari tipi di cellule, contribuì largamente l'applicazione delle tecniche di immunofluorescenza. Molti studi anatomocomparativi furono d'altra parte dedicati all'analisi della distribuzione preferenziale dei vari tipi di cellule nelle diverse parti dell'organo in specie diverse e nelle varie età: ne risultò che la localizzazione topografica delle singole categorie cellulari è caratteristica in certe specie ma non costituisce una regola generale. D'altra parte si è fatta sempre più strada la convinzione che differenziazione e distribuzione delle cellule dell'adenoipofisi siano indotte dai centri ipotalamici e si effettuino tramite connessioni vascolari. La struttura del cosiddetto lobo intermedio o lamina epiteliale, che deriva embriologicamente da un abbozzo comune con l'adenoipofisi (tasca di Rathke), differisce a seconda delle specie. Studi nei Primati e nell'uomo hanno mostrato che è quasi rudimentale, con palizzate di cellule o vescicole che racchiudono una colloide povera di iodio; le cellule melanotrope, caratteristiche di questa parte dell'ipofisi di altri Vertebrati, sarebbero disperse nell'adenoipofisi dei Primati e dell'uomo.
La funzione della lamina epiteliale è poco conosciuta nei Mammiferi, ma anche nell'uomo conterrebbe una certa quantità di intermedina, un ormone largamente studiato negli Anfibi che agisce sulle cellule pigmentifere. Recentemente è stata messa in evidenza da alcuni anatomici una sensibile riduzione del lobo medio in vari Roditori sottoposti a regime di sete, il che ha fatto supporre che l'intermedina giochi un ruolo nella regolazione dell'acqua. Dati di essenziale interesse per la conoscenza dell'istofisiologia dell'ipofisi sono stati assicurati a partire dagli anni trenta con l'accurato studio della vascolarizzazione del peduncolo ipofisario, della neuroipofisi e rispettivamente della adenoipofisi e la dimostrazione di un sistema di ‛vene porta' ipofisarie impiegate nel trasporto di neurormoni ipotalamici nella rete di capillari sinusoidali della parte ghiandolare. (Per la neuroipofisi e rapporti fra ipotalamo e ipofisi, v. neurosecrezione).
Anatomia grossolana e struttura del surrene, diversa origine embriologica della corticale e della midollare erano già ben conosciute nella seconda metà dell'Ottocento. La caratteristica vascolarizzazione dell'organo era stata minutamente investigata da P.F. Arnold (1866): egli aveva creduto di poter individuare anche un sistema di vasi proprio della sola parte esterna della corticale, ma l'esistenza di questo circolo distinto non è stata confermata da studi successivi. Dati che risalgono alla fine dell'Ottocento, e che furono confermati all'inizio di questo secolo, sulla presenza di una rete linfatica nel contesto della corticale, sono oggi accolti con molte riserve. La nozione che gli elementi della midollare non siano circoscritti al surrene ma siano imparentati con le cellule gangliari del simpatico era stata sostenuta sin dal 1898, e già allora era stato supposto che tali cellule con la loro attività possano regolare quella del cuore e dei vasi; erano anche stati identificati dei granuli endocellulari, destinati, si supponeva, a liberarsi nel sangue del vistoso plesso venoso della midollare. Dopo la scoperta dell'adrenalina all'inizio del secolo e il suo isolamento dalla midollare del surrene, gli studi morfologici si accentrarono soprattutto su questa componente dell'organo e soltanto dopo gli anni trenta l'interesse degli anatomici si spostò sull'analisi del significato correlativo del corticosurrene nel sistema endocrino. Gli studi sull'istofisiologia della midollare furono ripresi più recentemente con ricerche che consentirono, fra l'altro, di distinguere con metodi istochimici le cellule che producono adrenalina e rispettivamente noradrenalina.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento si era fatta strada la convinzione, fondata anche su dati clinici e sperimentali, che il corticosurrene svolgesse un'attività ‛disintossicante'. Soltanto dopo l'isolamento di ormoni della corticale a partire dal 1935 si svilupparono ricerche di istochimica e istofisiologia, che si rivelarono tuttavia insufficienti per valutare le modificazioni dell'attività della corticale in conseguenza di stimolazioni varie (reazioni allo stress) e per consentire di documentare le relazioni fra surreni, ipofisi, e altre ghiandole endocrine (gonadi, tiroide, isole di Langerhans) che indagini di fisiologia sperimentale andavano mettendo in luce. Con l'impiego di fini metodiche istochimiche, tuttavia, è stato possibile dimostrare un dimorfismo sessuale del corticosurrene, in particolare per quanto si riferisce all'attività della fosfatasi alcalina, minima nella femmina e ben rilevabile nel maschio nella zona fascicolata e reticolare. La scoperta della zona X nella parte interna della corticale di topo, aprì a sua volta la strada ad altre indagini di morfologia sperimentale che concorsero a indicare tale regione come sede di produzione di ormoni androgeni.
Dalla fine dell'Ottocento si affermò la teoria che la zona fascicolata e reticolare si ricostituiscano dopo la nascita, potendosi così distinguere una corticale ‛fetale' e una ‛permanente': la prima subisce una rapida involuzione postnatale e la seconda si forma per rigenerazione dalla zona subcapsulare, zona di cui si era riconosciuta la capacità proliferativa sin dalla metà dell'Ottocento. Effettivamente, le tre tipiche zone della corticale sono completamente riconoscibili nel surrene dell'uomo soltanto verso il terzo anno di vita, ma le cause dell'involuzione della corticale fetale sono ancor oggi mal conosciute. È stato appurato, d'altra parte, che ulteriori modificazioni dell'architettura della corticale si producono più tardi nella vita per aumento relativo della zona fascicolata; altri mutamenti si manifestano ancora nel quinto decennio nel maschio, alquanto più precocemente nella femmina talché, dopo il climaterio, persiste quasi soltanto la zona fascicolata, ispessita probabilmente a spese delle altre zone.
La convinzione, maturata sin dall'inizio del Novecento, che per tutta la vita si riproducano cellule nella regione subcapsulare che regredirebbero quando, per spostamenti graduali, raggiungono la zona reticolare, è stata modificata recentemente: il rinnovo delle cellule sembra essere di grado molto modesto e si produrrebbe in loco nelle varie zone; esso varierebbe inoltre come entità da specie a specie. La capacità rigenerativa delle cellule della midollare, già prospettata nella seconda metà dell'Ottocento, non è stata definitivamente accertata.
La costituzione della tiroide a vescicole chiuse contenenti colloide era già stata messa in luce da Morgagni (1706), ma la presenza dell'epitelio dei follicoli fu rilevata soltanto molto più tardi. Nell'Ottocento la tiroide fu inclusa fra le ghiandole vascolari e ne fu allora indagata con esattezza l'origine, l'istogenesi, la struttura microscopica in tutti i Vertebrati, a partire dai Ciclostomi. Lo studio istofisiologico fu approfondito nel corso di questo secolo con l'impiego di tecniche istochimiche, dopo che indagini cliniche e di fisiologia sperimentale avevano dimostrato l'attività endocrina dell'organo. Più recentemente, l'assunzione di iodio, la sintesi dell'ormone, l'attività di riassorbimento della colloide da parte dell'epitelio dei follicoli furono indagate con metodo autoradiografico dopo somministrazione di composti iodati radioattivi oppure di leucina triziata. Le modificazioni morfologiche dell'epitelio follicolare, della rete dei capillari perifollicolari nelle varie fasi dell'attività dei follicoli furono largamente indagate anche a livello submicroscopico. La scoperta negli anni sessanta di un ormone ipocalcemizzante estraibile dalla tiroide stimolò altre serie di studi sulla sede della sua produzione: trovarono così un'interpretazione istofisiologica cellule della tiroide che erano già state descritte un secolo fa come ‛parenchimatose' e più ampiamente studiate come elementi ‛parafollicolari' da Nonidez (1932) che ne rilevò l'argentofilia. Da alcuni anni con tecniche di immunofluorescenza fu dimostrato che tali cellule, ora chiamate anche cellule C, sono la sede di sintesi della calcitonina; fu rintracciata la loro origine embriologica dall'abbozzo del corpo ultimo branchiale, e furono fornite prove in vivo e in vitro che l'ormone agisce sulle cellule ossee riducendo il riassorbimento del tessuto osseo e stimolando l'osteogenesi e la fissazione del calcio.
Le paratiroidi, descritte già nel primo Ottocento, furono considerate organi costanti, a topografia definita e dotati di speciale funzione soltanto dopo gli studi di J. V. Sandström (1880). Vent'anni più tardi ne fu individuata l'origine e studiata la struttura, mentre ampie indagini anatomo-comparative dimostrarono le omologie fra le paratiroidi in specie diverse di Vertebrati e l'assenza di questi organi nei Pesci. Soltanto dopo che J. B. Collip riuscì a estrarre il paratormone in forma altamente attiva (1925), ricerche sperimentali dimostrarono l'influenza delle paratiroidi sull'eliminazione renale del calcio e del fosforo e la loro azione diretta sull'attività delle cellule ossee, in particolare sugli osteoclasti. Nell'ultimo quindicennio furono analizzate le caratteristiche istochimiche e ultrastrutturali dei tre tipi di cellule delle paratiroidi che erano già stati descritti microscopicamente all'inizio del secolo.
Le isole cellulari scoperte da Langerhans (1869) in seno ai lobuli nel pancreas, furono oggetto di estese ricerche anatomo-comparative e istofisiologiche verso la fine dell'Ottocento e all'inizio di questo secolo: vi contribuirono largamente V. Diamare, K. Helly e E. Laguesse, il quale stabilì che nei Pesci il tessuto insulare è anatomicamente distinto dal pancreas esocrino (1899) e riuscì a dare una prima prova sperimentale dell'attività endocrina ditale tessuto (1907). La veduta di Laguesse (1909) di una possibile trasformazione degli acini pancreatici in tessuto insulare e viceversa (teoria del balancement) è stata oggetto di discussione per vari decenni, ma i documenti a sostegno di tale ipotesi non furono mai tali da risolvere in via definitiva il problema. Circa trent'anni or sono, l'applicazione di metodi istochimici consentì di distinguere due tipi principali di cellule nelle isole, A (α2) e B (β), quest'ultimo sicuramente attivo nella produzione dell'insulina, il primo nella sintesi del glucagone: alterazioni limitate alle cellule B furono rintracciate infatti dopo trattamento con allossana, una sostanza ad attività diabetogena, più tardi la produzione di insulina da parte di queste cellule fu provata con tecnica immunocitochimica dato che esse soltanto fissano anticorpi anti-insulina che possono essere resi fluorescenti e quindi rintracciabili a luce ultravioletta quando all'anticorpo sia legato un fluorocromo. Negli ultimi dieci anni, ricerche di microscopia elettronica e di istochimica hanno evidenziato due altri tipi di cellule, meno numerose e costanti; di queste le cellule D, indicate anche come α1, che a differenza della A (α2) resistono all'azione citotossica di sali metallici e di derivati della guanidina e a trattamento in vivo con dosi di allossana in grado di provocare estesa distruzione delle cellule B, produrrebbero gastrina: esse infatti fissano anticorpi anti-gastrina.
La sistemazione definitiva dell'epifisi cerebrale, corpo pineale, fra gli organi endocrini è tuttora oggetto di dibattito. Sin dall'altro secolo fu studiata la struttura, la vascolarizzazione, l'innervazione e lo sviluppo di tale organo in diversi Vertebrati; più recentemente furono compiute indagini ultrastrutturali e istochimiche in condizioni normali e sperimentalmente modificate. Si sostiene che la pineale subì nella serie dei Vertebrati un'evoluzione da organo essenzialmente fotorecettore ad organo endocrino, ma non è stato chiarito se nel corso di tale evoluzione le cellule fotorecettrici si trasformarono in elementi secernenti oppure coesistano in tutti i Vertebrati questi due tipi di cellule come elementi distinti. Poco più di dieci anni or sono fu estratto dalla pineale di bovini un metossindolo caratteristico, la melatonina; più tardi ancora fu dimostrato che la pineale sintetizza tale sostanza e contiene inoltre rilevanti quantità di serotonina e di altre ammine biogene, che probabilmente non sono sintetizzate in loco. Nonostante contrastanti prove sperimentali, è largamente accettato che la luce e rispettivamente l'oscurità ambiente possono influenzare nella pineale la sintesi della melatonina attraverso la mediazione dell'innervazione simpatica; la denervazione dell'organo per estirpazione dei gangli cervicali superiori di ambo i lati bloccherebbe l'azione della luce sulla pineale. In tali condizioni sarebbe anche abolita l'influenza della luce sull'attività delle gonadi, azione che sarebbe mediata dalla pineale per mezzo di variazioni quantitative della sintesi di melatonina: questa, liberata dalla pineale, giungerebbe per mezzo del liquor oppure del sangue ai centri nervosi, particolarmente a parti del mesencefalo e dell'ipotalamo, influenzandone l'attività neuroendocrina.
Indagini di microscopia elettronica hanno nel contempo messo in luce nella pineale di Mammiferi l'esistenza di esili spazi pericapillari, di fenestrature della parete endoteliale e la presenza nelle cellule endoteliali di numerose vescicole di pinocitosi, quadri cioè simili a quelli che si rintracciano anche in ghiandole endocrine; ma, in mancanza di altre prove più dirette, questi reperti non sono sufficienti per attribuire all'epifisi una funzione endocrina specifica.
Forse in nessun altro settore dell'anatomia più che nel sistema nervoso l'indagine morfologica ha costituito e costituisce il fondamento indispensabile per l'impostazione di ricerche di fisiologia e per un'obiettiva interpretazione dei risultati sperimentali. Eppure, nonostante l'ingente mole di fatti scoperti dai neuroanatomici in questo secolo e le geniali ipotesi costruite sui dati della morfologia, le lacune e le incertezze delle attuali conoscenze sui meccanismi funzionali dei centri nervosi sono ancora rilevanti e, spesso, non si può rintracciare una soddisfacente corrispondenza fra la documentazione anatomica e rispettivamente i risultati della neurofisiologia e della neurologia clinica.
La scoperta, verso la fine dell'Ottocento, della tecnica di colorazione sopravitale (Ehrlich) e soprattutto di metodi specifici di impregnazione metallica degli elementi nervosi, in particolare i metodi di C. Golgi e di S. Ramon y Cajal, e i continui perfezionamenti introdotti nell'antico metodo di studio della degenerazione di centri e vie nervose, consentirono un'analisi dettagliata e precisa della struttura del sistema nervoso centrale e periferico. Già negli ultimi anni dell'Ottocento fu formulata su solide basi morfologiche la teoria del neurone, che inseriva il tessuto nervoso nel quadro della dottrina cellulare, in contrasto con ipotesi precedenti che prospettavano invece l'esistenza di una rete anastomotica fra i prolungamenti delle cellule nervose, cioè di una continuità fisica fra elementi nervosi diversi. Tale teoria trovò piena conferma nei dati della elettrofisiologia e, più tardi, nelle indagini con il microscopio elettronico, le quali evidenziarono anche a livello submicroscopico l'indipendenza dei singoli neuroni e l'esistenza di semplici contatti citoplasmatici (sinapsi) nelle aree microscopiche di collegamento fra elementi nervosi diversi. È interessante rilevare, a questo proposito, che furono due morfologi, A. van Gehuchten e S. Ramon y Cajal, a formulare la legge della polarizzazione della conduzione degli eccitamenti nervosi in senso cellulipeto nei prolungamenti citoplasmatici, dendriti, e cellulifugo nel prolungamento nervoso, neurite, dei neuroni. Più recenti indagini hanno offerto una base morfologica anche alla dottrina dell'intervento di mediatori chimici nella tràsmissione dell'impulso nervoso.
Nelle pagine Seguenti si accennerà assai sommariamente a qualche aspetto soltanto del quadro estremamente complesso della neuroanatomia e dell'evoluzione che questa ha subito nel Novecento.
Le basi gettate da P. Flechsig fra il 1870 e il primo decennio di questo secolo sulle connessioni fra parti diverse del sistema nervoso centrale, sono state allargate e via via modificate anche per quanto si riferisce a centri e vie che in passato sembravano già ben conosciute. Un esempio caratteristico è costituito dal fascio piramidale, cosiddetto della ‛motilità volontaria', che P. Flechsig (1876) dimostrò originare dalla corteccia precentrale e non dai nuclei della base come aveva sostenuto L. Türck: le connessioni di queste fibre con i motoneuroni spinali furono rivelate da W. Waldeyer (1891), il quale puntualizzò la costituzione a catena bineuronale di questa via motoria e definì i componenti anatomici del riflesso spinale. Ancora nei primi decenni del Novecento la circonvoluzione precentrale (area 4) era considerata la sola area corticale motoria e il fascio piramidale il solo sistema motorio corticifugo, nonostante che altri fasci (corticopontini, cortico-talamici, cortico-rubro, ecc.) fossero già stati dimostrati e fosse stata prospettata l'esistenza di una via motoria indiretta, cortico-ponto-cerebello-spinale. Soltanto dopo i risultati della stimolazione elettrica di altre aree corticali si incominciò a riconoscere l'importanza di altre vie corticifughe oltre che dall'area 4, vie che più tardi furono incluse nel sistema motorio extrapiramidale, cioè un complesso di sistemi plurineuronici e di centri che interverrebbero nei movimenti automatici associati che accompagnano risposte motorie specializzate. Ricerche sperimentali e cliniche dovevano in seguito fornire prove che tali centri corticali e vie possono esercitare un'attività compensatoria delle aree e vie motorie piramidali. Indagini eseguite con il metodo delle degenerazioni sul sistema nervoso di Primati dimostrarono a loro volta che nel fascio piramidale sono incorporati almeno tre gruppi principali di fibre: cioè, oltre a quelle di origine prevalentemente (ma non esclusivamente) precentrale, che si collegano a neuroni somatomotori direttamente o, più spesso, tramite neuroni funicolari, anche fibre che dalle aree corticali frontali scendono a gruppi di cellule reticolari del tronco cerebrale e che sono impegnate verosimilmente nei meccanismi posturali, e fibre pre- e post-centrali e parietali superiori che vanno ai territori dei nuclei intercalati nelle vie sensitive ascendenti, esercitando probabilmente influenze regolatrici di impulsi della sensibilità cosiddetta epicritica. La conoscenza di vie corticifughe motorie extrapiramidali ha proceduto di pari passo con i progressi delle indagini sulla sostanza reticolare (v. sistema reticolare ascendente) del tronco cerebrale, che è interessata nella propagazione di eccitamenti ai motoneuroni e che riceve fibre da nuclei della base e dal diencefalo. La sostanza reticolare risultò una formazione molto complessa, nella quale la sistematizzazione anatomica di nuclei o centri e di sistemi di fibre è spesso difficile o incerta e comunque insufficiente per spiegare le varie e complesse funzioni alle quali sembra adibita, come rivelano le stimolazioni elettriche dirette.
Indagini di neurologia comparata avevano da tempo messo in luce differenze caratteristiche fra regioni diverse della corteccia cerebrale, che si ritrovano con costanza in Mammiferi diversi si da consentire d'istituire omologie fra aree determinate in specie differenti anche assai lontane fra di loro. Th. H. Meynert (1867-1888) per primo divise la corteccia in neopallio (chiamato poi isocortex dai Vogt, neocortex da Smith) e archipallio (allocortex, Vogt; archicortex, Smith), cioè la corteccia olfattoria, nella quale lo strato esterno è costituito soprattutto da fibre mieliniche e che non riceve importanti proiezioni dal talamo. Attualmente la denominazione di corteccia è in genere riservata soltanto alle strutture grigie superficiali del telencefalo che possiedono un minimo di tre strati di cellule, collegati fra di loro da un traliccio regolare di prolungamenti neuronici organizzati radialmente e tangenzialmente; d'altra parte è riconosciuto che il solo elemento comune all'isocortex e all'allocortex è la possibilità di rintracciare in ambedue due lamine fondamentali: l'esterna, che riceve fibre afferenti specifiche e da cui partono fibre di associazione per altre aree corticali; e l'interna, dalla quale originano fibre che si proiettano a regioni extracorticali. L'isocortex, a sua volta, fu detta omotipica quando possiede i caratteristici sei strati di cellule, oppure eterotipica: in quest'ultima si distinse, infine, un tipo granulare, i cui strati di cellule piramidali non sono regolari o mancano e sono sostituiti da piccole cellule, granulari, e un tipo agranulare. Dal punto di vista del significato funzionale, è stato accertato che i grandi sistemi di fibre di proiezione corticifughe provengono da aree agranulari, mentre la corteccia granulare è caratteristica delle aree sensitive.
Mentre dunque veniva dato grande sviluppo, sin dalla fine dell'Ottocento, allo studio della struttura della corteccia cerebrale, citoarchitettonica, e delle differenze che presenta in regioni diverse - fatti messi in luce, nel cervello umano, dai classici studi di P. Flechsig e, in seguito, di K. Brodmann, O. e C. Vogt, C. von Economo e altri - l'analisi del significato funzionale di tali differenze non avanzò di pari passo, anche per mancanza, per lungo tempo, di tecniche adeguate. Gli studi di citoarchitettonica offrirono utili indicazioni ai fisiologi; tuttavia, da un lato valsero anche a radicare l'impressione che esista a livello corticale un mosaico di territori diversi esattamente delimitati, dall'altro concentrarono l'attenzione dei ricercatori più sulle differenze che sulle analogie fra le varie aree corticali, non tenendo spesso conto del fatto che tali differenze sono talora più quantitative che qualitative, che in genere non sono profonde e, soprattutto, che la citoarchitettonica fu studiata quasi esclusivamente con metodi che consentono di evidenziare soltanto i corpi delle cellule nervose e non le connessioni fra neuroni corticali o fra questi e fibre afferenti, aspetti questi sicuramente più significativi dal punto di vista funzionale.
Nel lungo contrasto fra fautori e oppositori della teoria di localizzazioni corticali precise, si è maturata nei neurologi la convinzione che il concetto di specializzazione regionale di funzioni relativamente semplici non sia antagonistico ma piuttosto complementare del punto di vista unitario del complesso comportamento dell'individuo; per non pochi neurologi le varie parti della corteccia sarebbero equivalenti funzionalmente nel senso che tutta la corteccia agirebbe in modo integrato.
D'altra parte, i neuroanatomici, in base alla sicura dimostrazione che fibre corticifughe da singole aree si portano a strutture tanto diverse fra di loro, non mancarono di insistere sulla probabile complessità delle funzioni corticali e di mettere in guardia da eccessive semplificazioni nell'uno o nell'altro senso, dato anche che le indagini fisiologiche sono in genere limitate volta a volta allo studio di uno o pochi mutamenti funzionali.
Oltre alla citoarchitettonica e alla mieloarchitettonica, che si riferisce alla distribuzione e alla quantità delle fibre nervose nei vari strati della corteccia, tentativi sono stati compiuti per definire anche una ghoarchitettonica in base alla varia ripartizione degli elementi di nevroglia, e si sta sviluppando da qualche anno una chemoarchitettonica in relazione alla localizzazione di enzimi cellulari dimostrabili istochimicamente in aree diverse, dotate quindi di diverso metabolismo, in particolare per rilevare, a livello microscopico e submicroscopico, sede e attività di sinapsi eccitatorie e inibitorie contrassegnate rispettivamente da mediatori chimici diversi (acetilcolina e acido gamma-amminobutirrico).
Il cervelletto è un'altra delle parti dell'encefalo alle quali sono state dedicate minuziose indagini sin dall'inizio di questo secolo. Sulla base di ricerche embriologiche e anatomo-comparative, sono state successivamente proposte diverse suddivisioni dell'organo in lobi a significato funzionale diverso; D. Ingvar, soprattutto, ha più decisamente prospettato l'opportunità di distinguere nel cervelletto tre piani, caratterizzati dall'arrivo di fibre che portano afferenze diverse, vestibolari, spinali, cerebrali; circostanza importante, anche perché lo studio delle modificazioni filogenetiche dimostrò che nuove acquisizioni nella serie dei Vertebrati si manifestano piuttosto come accrescimento di strutture preesistenti che addizione di nuove strutture, cosicché il piano fondamentale anatomo funzionale del cervelletto non sembra subire modificazioni sostanziali nella filogenesi. Contemporaneamente venivano acquisiti numerosi dettagli sulla struttura della corteccia cerebellare, il cui piano fondamentale, caratterizzato da una spiccata uniformità nelle varie regioni, era stato fissato sin dalla fine dell'Ottocento. In particolare, furono minutamente reinvestigate e la modalità di terminazione delle fibre afferenti alla corteccia - sia come fibre muscoidi che si connettono ai granuli, sia come fibre rampicanti, che istituiscono sinapsi con i dendriti ascendenti delle cellule di Purkinje - e le connessioni fra i vari tipi di cellule della corteccia. In base al progredire di queste conoscenze, e di quelle sull'attività della corteccia grazie agli studi di elettrofisiologia, sono andate gradualmente modificandosi le vedute sui suoi meccanismi funzionali.
Da studi condotti parallelamente sulla struttura micro- e submicroscopica e sull'attività di singoli sistemi di fibre afferenti ai neuroni di Purkinje è stato dedotto ad esempio (1967) che questi ultimi svolgerebbero attività inibitoria sui neuroni dei nuclei subcorticali del cervelletto con i quali il loro neurite si connette; questi a loro volta riceverebbero impulsi eccitatori da collaterali delle fibre afferenti alla corteccia, come fibre muscoidi e rampicanti. I segnali emessi dai neuroni di tali nuclei sarebbero integrati a livello dei neuroni del tronco cerebrale con stimoli che vi giungono da varie altre sorgenti per essere trasmessi per le vie discendenti ai neuroni somatomotori, oppure alla corteccia cerebrale tramite il talamo (Eccles, Ito e Szentàgothai, 1967). Questi autori, da una riconsiderazione dei circuiti neuronici della corteccia cerebellare e in considerazione dell'architettura prevalentemente a maglie rettangolari di questa, hanno avanzato un'ipotesi esplicativa dell'attività del cervelletto paragonandola a quella di un elaboratore elettronico, il quale, integrando e organizzando le informazioni che vi giungono, regola l'esecuzione dei movimenti a livello spinale e modifica il controllo dei movimenti esercitato dalla corteccia cerebrale; questi autori propongono anche l'ipotesi che nella corteccia cerebellare l'esercizio possa determinare neoformazione o accrescimento di contatti sinaptici, prospettando in tal modo la possibilità che l'attività sinaptica si accresca con la funzione.
Altro settore del sistema nervoso nel quale le conoscenze si sono allargate notevolmente nel corso del Novecento è quello del controllo delle attività viscerali. I primi dati anatomici e funzionali sul sistema nervoso viscerale risalgono al Settecento e ai primi anni dell'Ottocento, quando M.-F.-X. Bichat osservò che il sistema nervoso regola le funzioni della vita organica come quelle della vita animale e rilevò l'intervento della ‛volontà' sulle seconde e delle ‛emozioni' sulla circolazione, respirazione, digestione e sulla secrezione ghiandolare. Ma gli studi sul sistema nervoso vegetativo subirono un rilevante impulso soltanto verso la fine dell'Ottocento, quando W. H. Gaskell (1886) prospettò l'innervazione di ogni viscere ad opera di due ordini di fibre nervose ad attività opposta, aprendo così la via alle scoperte di J. N. Langley (1892), che distinse sede e distribuzione di elementi pre e postgangliari di quella parte del sistema nervoso che egli chiamò ‛autonomo' distinguendovi un sistema toracolombare e rispettivamente uno cranio-sacrale. Più tardi, con stimolazioni dell'ipotalamo e con la distruzione di tale regione, fu provata l'esistenza di nuclei centrali dell'autonomo, che furono poi studiati anatomicamente mentre venivano precisate sede, struttura dei centri pregangliari cranici e vie discendenti nel tronco cerebrale e nel midollo spinale. Le informazioni sui centri corticali che controllano le attività viscerali derivano in larga misura da esperimenti sugli animali e, nell'uomo, dai risultati di stimolazioni dirette nel corso di operazioni craniche. Tali centri interesserebbero ampie zone della corteccia frontale premotoria e dei giri orbitali, di parti del lobo dell'insula, dell'ippocampo, ecc. e sarebbero collegati ad altre aree corticali oltre che connesse in doppia via con l'ipotalamo e con centri viscerali più caudali.
Le modalità di terminazione periferica delle fibre viscerali costituiscono uno degli argomenti più dibattuti e forse meno conosciuti, anche perché i mezzi tecnici a disposizione per questi studi non garantiscono sempre dal pericolo di artificiosità nelle preparazioni, che possono indurre a interpretazioni errate. In questo campo si sono scontrati sin da prima degli anni venti i sostenitori della teoria del neurone, e pertanto della trasmissione degli eccitamenti attraverso discontinuità sinaptiche, e rispettivamente i ‛reticolaristi' i quali prospettavano, secondo varie modalità, l'esistenza di una rete diffusa di fibrille nervose entro ad un sincizio citoplasmatico che si estenderebbe sino ai tessuti non nervosi che ne sono innervati. Tuttavia, indagini al microscopio elettronico hanno consentito nell'ultimo decennio di confermare anche per i territori viscerali sinora indagati l'esistenza di sinapsi interneuroniche e di giunzioni citoneurali fra fibre nervose ed elementi muscolari lisci, cellule ghiandolari, ecc., dimostrando cioè l'individualità morfologica dei singoli elementi nervosi anche nel distretto viscerale del sistema nervoso. Recentemente è stata proposta una tecnica istochimica la quale, sfruttando la fluorescenza in luce ultravioletta delle catecolamine dopo trattamento con formalina, consente di mettere in evidenza con nettezza le cellule e le fibre nervose viscerali adrenergiche (ortosimpatiche) nelle sezioni microscopiche dei vari organi: in tal modo si può analizzare più agevolmente che in passato numero e disposizione di tali fibre, e anche trarre dall'intensità della fluorescenza qualche deduzione sulla concentrazione del trasmettitore chimico dell'impulso, che varierebbe in relazione a variazioni dell'attività nervosa viscerale in condizioni funzionali diverse.
Dopo questo parziale prospetto di alcune delle attuali conoscenze dei diversi sistemi anatomici, non è forse superfluo riconoscere che la ricerca anatomica nei primi decenni di questo secolo ricevette impulso anche da iniziative atte a intensificare gli scambi e a favorire i dibattiti fra i morfologi dei vari paesi. Una di queste fu la costituzione, sin dal 1905, di un comitato permanente, con partecipazione delle Società Anatomiche inglese, germanica, francese, statunitense e della Società Zoologica Italiana, per l'organizzazione di congressi federativi di anatomia. Il che servì anche a stimolare l'organizzazione di altre associazioni nazionali di anatomia, oltre a quelle già da prima istituite nel Regno Unito (1887), in Germania (1887), negli S.U.A. (1888), in Giappone (1893) e in Francia (1899). A un rapido ed esteso scambio di conoscenze fra i morfologi contribuirono anche, sin dagli anni venti, la pubblicazione periodica e la larga diffusione dell'‟Anatomischer Bericht", poco dopo dei ‟Berichte ueber die wissenschaftliche Biologie", seguiti più tardi da altre iniziative analoghe.
D'altra parte, l'esigenza di snellire e unificare la pletorica nomenclatura anatomica, che si era andata disordinatamente accrescendo nel corso dei secoli, tanto da comprendere alla fine dell'Ottocento circa 50.000 nomi con una ricchezza di sinonimi che ingeneravano confusione, spinse la Deutsche Anatomische Gesellschaft (1889), l'American Association of Anatomists (1890), l'Anatomical Society of Great Britain and Ireland (1893) a costituire commissioni apposite per la revisione e la sistemazione della nomenclatura. Un primo elenco latino di circa 6.000 termini fu approvato nel convegno del 1895 della Deutsche Anatomische Gesellschaft (Basileae Nomina Anatomica, B.N.A.). Quarant'anni più tardi aggiornamento e revisione di tale elenco furono affidati a un comitato di studio formato al IV Congresso federativo (Milano 1936), che in seguito (Oxford 1950) si allargò trasformandosi nell'International Anatomical Nomenclature Committee, I.A.N.C., e pubblicò un nuovo elenco in latino (Nomina Anatomica, Paris 1955) che, continuamente riveduto in seguito, ha raggiunto la sua terza edizione nel 1966. Sottocommissioni speciali hanno atteso all'elaborazione anche di Nomina Embryologica e di Nomina Histologica, non ancora pubblicate in forma definitiva.
5. Prevedibili sviluppi futuri
Già da quanto è stato prospettato nelle pagine precedenti traspare quanti siano ancora i problemi della morfologia che richiedono ulteriori studi a tutti i livelli di grandezza, a partire da quello macroscopico, che sotto l'aspetto anatomo-comparativo, antropologico e applicativo medico-chirurgico può costituire ancora un campo fruttuoso di ricerca. Lo stesso sviluppo dei trapianti di organi umani, come vari altri aspetti della chirurgia, continueranno a richiedere un approfondimento delle conoscenze anatomiche degli organi e dei loro rapporti morfologici e funzionali. In realtà, non vi è settore dell'anatomia nel quale le conoscenze attuali siano esaurienti o possano essere considerate definitive. Ciò è vero soprattutto per il sistema nervoso per quanto attiene alle connessioni sia fra le varie parti dell'encefalo e del midollo spinale, sia fra sistema nervoso e cellule, tessuti e organi, la cui attività è regolata e, in certi casi, la stessa sopravvivenza condizionata, dai rapporti con il sistema nervoso. In questo, più ancora che in altri settori, si rileva spesso, come si è detto, un divario più o meno spiccato fra i dati della ricerca fisiologica e quelli dell'indagine anatomica; sotto questo riguardo la collaborazione fra anatomici, fisiologi e clinici, che ha già dato sensibili frutti da quando si è istituita, dovrà essere ulteriormente estesa e intensificata.
Per quanto si può oggi prevedere, l'indirizzo prevalente nei prossimi decenni continuerà, come in recenti anni, a essere l'indagine nei campi dimensionali più minuti, ove già i morfologi hanno potuto gradualmente avvicinarsi alla biochimica della sostanza organizzata. Il ponte fra morfologia submicroscopica e biochimica è costituito dalla cosiddetta ‛biologia molecolare', disciplina in continua e rapida espansione ma che sinora non ha ancora potuto offrire un'alternativa di ricambio al quadro fondamentalmente vitalistico della cellula, dei tessuti e degli organi prospettato dai morfologi sperimentali. Tentativi di traduzione dei reperti ultrastrutturali in dati biochimici sono già stati compiuti con successo quando i componenti cellulari rivelati dal microscopio elettronico hanno potuto essere isolati, purificati e caratterizzati biochimicamente: in questi casi sono state perseguite indagini correlative di grande significato, come è avvenuto per l'analisi dei filamenti elementari che intervengono nella contrazione delle fibre muscolari, per i lisosomi, i mitocondri, le vescicole sinaptiche delle terminazioni delle fibre nervose, ecc. È probabile che secondo questa direzione si svilupperanno le ricerche di microscopia elettronica nel prossimo futuro; non potrà, d'altra parte, essere trascurato l'indirizzo complementare, in certi casi il solo perseguibile attualmente, di trarre indicazioni sulla composizione biochimica delle ultrastrutture in situ con l'applicazione di adeguati metodi istochimici specifici, alcuni dei quali, come si è accennato in altra parte, sono già stati utilmente impiegati, in particolare per la rivelazione della sede e dell'entità di attività enzimatiche.
I progressi in tale direzione, che ovviamente dipenderanno in larga misura dalle future conquiste nei campi di confine con la morfologia e dallo sviluppo di nuovi mezzi d'indagine, non potranno di per sé rispondere pienamente ai fondamentali quesiti tuttora aperti. Molti di questi, infatti, si riferiscono più che alla struttura e all'attività di singole cellule o di popolazioni di cellule simili, all'integrazione di queste a livello degli organi e di questi ultimi nell'unità dell'organismo, sia nel corso dello sviluppo sia quando gli organi sono già edificati in modo apparentemente stabile e sono diventati capaci di funzione. D'altra parte, sinora la maggior parte delle indagini sperimentali sulle connessioni e interazioni fra cellule e tessuti diversi sono state compiute prevalentemente su elementi coltivati in vitro, cioè in condizioni tutt'affatto speciali non soltanto più semplici ma anche sostanzialmente diverse da quelle presenti nell'organismo. Dovranno pertanto essere elaborate nuove tecniche che consentano di controllare e di estendere tali conoscenze su tessuti e organi mantenuti nella loro sede e con le loro connessioni fisiologiche.
Un altro indirizzo, al quale non abbiamo ancora accennato, avrà probabilmente importanti sviluppi in avvenire. Gli oggetti di studio dell'anatomia sono entità suscettibili di misura sotto i più vari aspetti, dall'ambito delle grandezze macroscopiche sino a quelle submicroscopiche e molecolari; una delle possibilità della morfologia è dunque quella di prestarsi alla formulazione di una parte dei suoi problemi nel linguaggio formale delle matematiche. A questo scopo già in passato sono stati via via raccolti e continuano tuttora a essere accumulati dati quantitativi, e gradualmente sono state compiute elaborazioni matematiche di tali valutazioni sia prendendo in considerazione isolatamente singoli parametri sia istituendo correlazioni fra parametri diversi. La realizzazione di tali studi è da qualche tempo singolarmente agevolata dall'impiego di elaboratori elettronici, che incominciano a essere utilizzati dai morfologi anche per la costruzione e il controllo della validità di ‛modelli' simulanti l'andamento di eventi o processi che comportano modificazioni o interazioni di variabili misurabili, e per la formulazione di ‛programmi' presumibilmente analoghi a quelli ipotizzabili per l'organismo o le sue parti sia nel corso dello sviluppo sia nelle manifestazioni della funzione.
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