Kovács, András
Regista ungherese, nato a Kide, presso Kolozsvár (Romania) il 20 giugno 1925. Si può considerare uno degli autori ‒ insieme a Miklós Jancsó, László Szabó e pochi altri ‒ cui è legata la rinascita del cinema ungherese intorno alla metà degli anni Sessanta, particolarmente con Hideg napok (1966; Giorni freddi). Nella sua produzione ha alternato la fiction al documentario ed è forse l'unico regista che per continuità e forza creativa ha accompagnato il cinema ungherese dagli anni Sessanta sino al terzo millennio, rinnovando sempre poetica e stile. Dopo aver frequentato il liceo calvinista di Kolozsvár, si trasferì a Budapest dove fu ammesso all'Accademia di teatro e cinema. Ancora studente, venne eletto direttore del collegio Árpad Horváth e, appena diplomato, nel 1951 fu chiamato come responsabile della sezione sceneggiature alla Mafilm. Esordì nella regia con Zápor (1961, L'acquazzone), cui seguì il poetico Pesti háztetök (1962, I tetti di Budapest). Nel 1964 con il documentario-inchiesta Nehéz emberek (Uomini difficili) ottenne il premio della critica ungherese, inaugurando il cosiddetto cinema etico, un vero cinéma vérité. Il film mostra l'ottusità e la burocrazia che congelavano la creatività dei ricercatori le cui invenzioni invece ottenevano successo all'estero. Hideg napok rivela lo sconosciuto massacro di circa tremila civili serbi compiuto dai soldati ungheresi a Novi Sad, evidenziando la questione della responsabilità personale sganciata dai 'motivi storici' (uno dei temi costanti di K.). Il regista introduce il 'punto di vista mobile' (ognuno dei quattro condannati racconta il fatto secondo il proprio ricordo) utilizzando il flashback soggettivo e il fuori campo con inattesi effetti drammatici e di suspense. Indimenticabili alcune soluzioni, come per es. gli angoscianti spari relativi alle esecuzioni di massa sulla neve in secondo piano, mentre in primo piano gli ufficiali e i fascisti preparano la fossa sul lago ghiacciato. Con Falak (1968, I muri), K. parla dei muri interiori ed esteriori che circondano ognuno di noi, in una storia montata in parallelo tra Budapest e Parigi, dove un ingegnere si reca per vendere un sistema industriale non proprio perfetto. Onestà etica e compromesso, confronto tra vita all'Ovest e all'Est, e tra soluzione socialista e democrazie occidentali: l'aria del Sessantotto è ben ritratta da K. e le citazioni sono diverse (per es. la festa intellettuale parigina e la serata nel locale engagé, che ricorda i parties e i luoghi della Roma bene-colta felliniana). Bekötött szemmel (1975; Ad occhi bendati), in un contesto di guerra, traccia la storia di un prete che si rifiuta di certificare un miracolo (un condannato a morte salvatosi all'ultimo minuto invocando un santo). Abile amalgama tra analisi storica dei primi anni Cinquanta ‒ periodo di facili sospetti, rapide denunce e definitive sparizioni fisiche ‒ e fine indagine psicologica è A ménesgadza (1978; Il recinto), con la sua sapiente regia negli interni, il lavoro sui primi piani, una scrittura classica; K. scava nei volti dei personaggi a cercare la responsabilità personale e il diritto di disobbedire quando l'ordine è assurdo. L'incipit e l'explicit, con i cavalli che girano in tondo nel recinto, metafora vichiana della Storia, rimandano alla chiusa di Hideg napok con quel camminare nervoso di uno dei due condannati all'interno della cella. Dedicato al privato è l'esangue Szeretök (1983, Amanti): un amore impossibile tra un musicista sposato e una ricercatrice tra fermate d'autobus e attese 'povere' in piazza. K. è tornato ai problemi politico-sociali con Valahól Magyarórszágon (1987, In qualche luogo in Ungheria), che respira pienamente l'apertura gorbačëviana, in cui si racconta il non facile tentativo di rinnovare la politica attraverso la vicenda di un candidato regionale del partito voluto dai cittadini ma non dalla gerarchia. L'Ungheria dopo il 1989 tra facili sogni e cocenti delusioni è ritratta da K. in Álommenedzser (1993, Manager da sogno) dove l'autore ironizza sulla facilità di creare ricchezza, tra tecnologia e new economy, incentrando la storia su un losco faccendiere. Negli ultimi anni K. è tornato al documentario, soprattutto televisivo, con film ambientati nella Transilvania romena, terra delle sue origini (Gznet egykory iskolamba, 1996, Messaggio alla mia scuola di una volta, e Srülötatum: Kide, 2001, Il mio paese nativo: Kide) o tesi a completare un discorso già iniziato: A nehéz emberek ma (1997, Uomini difficili oggi), dove incontra tre dei quattro protagonisti del documentario di trent'anni prima.
U. Casiraghi, Il giovane cinema ungherese, Porretta Terme 1970, passim; Cinéma hongrois, in "La revue du cinéma", 255, decémbre 1971, pp. 34-84; Manca la speranza che il mondo sarà migliore, intervista ad A. Kovács, a cura di J. Pintér, in "Lumière", luglio-settembre 1998, pp. 11-14.