Andrea Alciato
Incluso a buon diritto da Claudius Cantincula nel triumvirato dei grandi riformatori della giurisprudenza rinascimentale, assieme a Guillaume Budé e Adalricus Zasius, Alciato ha dato precocemente voce nella sua opera alle istanze umanistiche di rifondazione del sapere giuridico. Unendo la perizia filologica e la conoscenza storica a una formazione tecnica di prim’ordine, egli incarna un nuovo modello di giurista che, pur senza essere animato da velleità iconoclaste verso la grande tradizione bartolista, sperimenta un metodo d’indagine delle fonti romane che si pone nei fatti in alternativa rispetto a quello medievale e apre la strada al superamento del mos italicus, influenzando in modo decisivo gli sviluppi della scienza giuridica europea.
Nato a Milano (o forse ad Alzate, nei pressi di Como, località di provenienza della sua famiglia) l’8 maggio 1492, da Ambrogio Alciato, ricco mercante, e Margherita Landriani, di nobile e antica famiglia, Alciato ha per maestri letterati di una certa rinomanza, tra i quali in primo luogo Aulo Giano Parrasio, che lo avviano allo studio delle humanae litterae (compreso il greco: egli ascolta infatti le lezioni di Giovanni Lascaris e di Demetrio Calcondila) secondo i dettami umanistici.
Con tale solida preparazione di base affronta gli studi giuridici (forse già nel 1507), frequentando prima lo Studium di Pavia, dove ha tra gli altri come docenti Giason del Maino e Filippo Decio, e poi (non prima del 1511 e fino al 1514) quello di Bologna (dove ascolterà anche Carlo Ruini), per addottorarsi infine in utroque iure a Ferrara, senza avervi però mai studiato, l’8 marzo 1516.
La sua attività si dipana quindi senza sosta tra l’esercizio della professione legale, subito abbracciata (già nel 1517 è ammesso nel collegio dei giureconsulti), e l’insegnamento universitario, tenuto anzitutto oltralpe, prima nello Studium di Avignone (dalla fine del 1518 al 1522, e di nuovo dal 1527 al 1529) e poi in quello di Bourges (1529-1533).
Carico di fama e di onori (tra l’altro nel 1521 papa Leone X gli aveva concesso il titolo di conte palatino con il connesso privilegio di creare dottori), nel 1533 Alciato torna definitivamente in Italia (dopo un primo rientro a Milano negli anni 1522-1527), dove insegna di volta in volta a Pavia (1533-1537), Bologna (1537-1541), di nuovo Pavia (1541-1542), Ferrara (1542-1546) e ancora Pavia (1546-1550), conteso dalle più importanti università e attento a spuntare da tale concorrenza le condizioni economiche più vantaggiose.
Creato nel marzo del 1546 protonotario apostolico, continua a intessere relazioni epistolari e personali con i maggiori intellettuali del suo tempo, mentre negli ultimi anni gli attacchi di gotta gli rendono difficile l’insegnamento. Muore a Pavia nella notte tra l’11 e il 12 gennaio 1550.
Ancora molto giovane, Alciato si distingue per lo spiccato interesse per la storia antica, dedicandosi alla raccolta e trascrizione delle epigrafi romane d’area milanese (nei Monumentorum veterumque inscriptionum, quae cum Mediolani tum in eius agro adhuc extant collectanea, libri duo, mai editi, all’infuori della prefazione) e allo studio della storia di Milano (che intende ricostruire nei Rerum patriae libri IIII, invero mai ultimati, e pubblicati postumi nel 1625).
La sua inclinazione per un sapere enciclopedico, che lo induce a coltivare le lettere anche dopo aver abbracciato gli studi giuridici, lo convince della necessità di mettere a frutto la storia e la filologia per interpretare le norme romane, e gli consente di avvicinarsi ai testi giustinianei con un bagaglio culturale più ricco e con un approccio innovativo rispetto alla tradizione; pur in possesso di una preparazione tecnica di prim’ordine, egli non si appaga dei risultati del metodo di lettura e interpretazione delle fonti classiche usato dai giuristi medievali, e sperimenta su ampia scala l’applicazione del sapere umanistico per la migliore comprensione delle norme contenute nel Codice e nel Digesto.
Ciò significa reintegrare i passi greci che i giuristi medievali avevano espunto, studiare con scrupolo anche le parti delle antiche compilazioni dedicate al diritto pubblico e sin lì trascurate, e passare al setaccio il materiale normativo tramandato dal Corpus iuris per emendare le numerosissime interpretazioni errate fornite dai maestri della glossa e del commento, causate dalla loro ignoranza della storia antica e specificamente della concreta organizzazione istituzionale romana.
Sulla base del lavoro di recupero di tali conoscenze avviato dagli umanisti italiani del Quattrocento (si pensi all’opera storiografica di Flavio Biondo e alla innovativa impostazione della Roma triumphans), Alciato si dedica alla revisione del patrimonio interpretativo accumulato dalla scienza giuridica medievale: le proposte di lettura dei testi offerte da glossatori e commentatori si dimostrano non di rado destituite di ogni fondamento e sovente risibili, perché costruite sulle sabbie mobili di una carente conoscenza storica, in senso ampio, della società romana.
Per altro verso, Alciato non considera come un dato acquisito il testo delle compilazioni giustinianee utilizzato dalla scuola bolognese, adottato dopo Accursio come testo standardizzato e ancora comunemente diffuso all’inizio del Cinquecento, ma si dedica a un certosino lavoro di verifica della sua corrispondenza all’originale. Egli mette a frutto il confronto della vulgata bononiensis con testimoni risalenti a prima della normalizzazione bolognese e accursiana in specie (parla in più luoghi della consultazione di antiqui codices), che riportano frequentemente lezioni ben diverse e più corrette di quelle accolte dai glossatori. Ciò gli permette di intervenire con successo in moltissimi casi a emendare e migliorare il testo tradito, unendo l’avveduto ricorso alla filologia a una raffinata sensibilità giuridica, che lo guida nell’interpretazione dei passi più difficili.
Già i primi scritti dati alle stampe da Alciato indicano le opzioni culturali che lo guideranno poi per tutta la vita: nel 1515 sono pubblicate infatti a Strasburgo due operette significative (chiuse in realtà entrambe già nel 1514), l’una, una raccolta di Annotationes ai Tres libri del Codice (dove l’autore mette a frutto la storiografia del tardo impero e, per primo, la Notitia dignitatum), e, l’altra, un Opusculum volto a recuperare i brani in greco del Digesto. Si tratta del preludio ai corposi e precoci risultati del lavoro paziente e accurato di revisione e integrazione del testo delle compilazioni di Giustiniano che verranno offerti nelle opere edite a Milano nel 1518, a opera di Alessandro Minuziano, in una miscellanea (più volte ristampata negli anni successivi) che comprende i Paradoxa iuris civilis, le Dispunctiones, i Praetermissa (il cui primo libro corrisponde all’Opusculum già citato), le Annotationes in tres posteriores libros Codicis Iustiniani (anch’esse già edite), il trattato De eo quod interest e infine una Declamatio che propone il modello di una disputa legale, scritta in un latino ispirato a Seneca; un insieme di lavori che si giovano di un metodo del tutto nuovo e schiettamente umanistico, e che impongono la proposta culturale del giovane giurista all’attenzione degli uomini di cultura di tutta Europa.
L’insegnamento nello Studium di Avignone costringe Alciato a confrontarsi con il commento di interi titoli del Digesto, utilizzando un metodo esegetico più tradizionale e sperimentato, almeno nella forma, rispetto a quello delle prime opere. Il successo e la rinomanza europea rapidamente arrisi alle sue lezioni avignonesi testimoniano certamente di un approccio anticonformista alle fonti romane, assai gradito agli studenti, però le opere di commento tratte dai suoi corsi propongono giocoforza l’immagine di un giurista più vicino ai modelli tradizionali: nascono così i commenti al titolo De verborum obligationibus (pubblicato a Lione nel 1519) e al De vulgari et pupillari substitutione del Digesto (oltre al commento al titolo De praesumptionibus delle Decretali, edito poi nel 1538, ancora a Lione). Nel 1520-21 Alciato commenta il titolo De operis novi nunciatione e soprattutto avvia la lettura del De verborum significatione.
La fama del giurista milanese si consolida negli anni avignonesi, fino alla definitiva consacrazione nel periodo d’insegnamento a Bourges, quando annovera illustri uditori dei suoi corsi, e financo il re Francesco I, che gli accorda il suo favore e la sua protezione.
Continuando a coltivare gli interessi storici (nel 1529 a Lione pubblica per la prima volta l’edizione della Notitia dignitatum, alla quale premette il De magistratibus, civilibusque et militaribus officiis e il trattato De quinque pedum praescriptione), Alciato pone mano al trattato in quattro libri De verborum significatione, una delle sue opere più mature, che viene pubblicato nel 1530 insieme al commento all’omonimo titolo del Digesto (50, 16), già terminato in una prima stesura nel 1522.
Si tratta di anni molto fecondi, nei quali l’attività del giurista si dispiega in varie direzioni: al 1529 risale il trattato De singulari certamine seu duelli (pubblicato in edizione pirata a Parigi nel 1541), così come lo scritto polemico In Stellam et Longovallium [...] defensio, che svolge una polemica contro Pierre de L’Étoile, Jean Longueval e Francesco Ripa, al 1530 i Commentarii ad rescripta principum, al 1531 la prima edizione degli Emblemata, brevi e sentenziosi componimenti allegorici in versi latini dal contenuto perlopiù moraleggiante e spesso ispirati alla mitologia classica e alla storia antica, poi illustrati con immagini a essi abbinate, destinati a un successo editoriale straordinario, ristampati innumerevoli volte e tradotti in tutte le maggiori lingue europee.
Gli anni successivi al definitivo ritorno in Italia non sono altrettanto fertili, in quanto dedicati soprattutto all’insegnamento universitario e alla professione legale, anche se il genuino metodo umanistico di Alciato riemerge nei Parerga, usciti a più riprese (nel 1538 i primi tre libri, già quasi pronti in realtà da vari anni, poi nel 1543 altri sette e infine postumi gli ultimi due), ricca raccolta alluvionale di ‘notazioni a margine’ di vario contenuto, che segnala la perdurante fiducia dell’autore nell’apporto della cultura storico-filologica per il progresso della scienza giuridica.
A differenza di Budé, peraltro, Alciato non recide il legame con la prassi, costantemente svolgendo con successo l’attività forense e dedicandosi anche alla stesura di consilia; ciò gli consente di mantenere un aggancio con i problemi della vita giuridica dei suoi tempi e di non ridurre il suo sforzo di restaurare i testi romani nel loro genuino tenore a una attività puramente erudita e unicamente volta alla conoscenza storica dell’antico diritto romano.
La figura intellettuale di Alciato si connota dunque per tale costitutiva complessità, resa manifesta dalla sua duplice attività di avvocato e di professore universitario. In lui il giurista attento alla dimensione applicativa delle dottrine giuridiche ed esperto della pratica forense convive con il raffinato studioso dell’antichità, l’appassionato cultore della storia patria e il profondo conoscitore delle opere letterarie e storiografiche greche e latine.
In tale poliedricità d’interessi e di conoscenze è racchiuso il modello del giurista di nuova formazione, intenzionato a non tradire la specificità del suo sapere tecnico e delle sue funzioni ma anche capace di comprendere che tale sapere dev'essere fondato su basi più solide e dev'essere irrobustito inserendolo nel contesto delle altre discipline, in forza di una cultura propriamente enciclopedica.
In tale progetto culturale Alciato procede più decisamente e in modo meno unilaterale di Zasius e di Budé, e fornisce un esempio imitato con entusiasmo dai giovani studenti che assistono ai suoi corsi (come Bonifacius Amerbach, prima suo allievo ad Avignone e poi amico fedele, che intrattiene con Alciato un fittissimo carteggio, per noi fonte preziosa di informazioni) e accolto con grande favore dagli intellettuali contemporanei (tra i quali spicca Erasmo da Rotterdam, con cui Alciato entra in rapporto epistolare, e che gli tributa in più occasioni aperti attestati di stima).
La novità del metodo di Alciato si manifesta soprattutto in opere che mirano a intervenire in maniera puntuale per integrare ed emendare i testi giustinianei, nonché a contestare e correggere le interpretazioni divenute insostenibili alla luce del rinnovato sapere umanistico: di questo tipo sono gli scritti più originali, a cominciare da quelli giovanili, che danno ad Alciato una precoce fama europea, raccolti nel volume milanese del 1518, ovvero i più tardi Parerga.
Si tratta di opere asistematiche, d’impianto inedito, adatte a far risaltare l’erudizione enciclopedica dell’autore e capaci di erodere decisivamente dall’interno il sistema di sapere bartolistico, mediante le molte centinaia di microinterventi testuali e interpretativi che, presi nel loro complesso, restituiscono un diritto romano diverso e più ricco (soprattutto sul versante pubblicistico) e sgretolano di fatto buona parte dell’impalcatura teorica costruita dai giuristi medievali a partire da testi errati e manchevoli, fornendo lo spunto ai giuristi culti per avviare una complessiva revisione critica di molte dottrine pseudoromanistiche formulate da glossatori e commentatori.
Nonostante ciò, Alciato non assume mai posizioni di critica indiscriminata e di chiusura aprioristica verso la tradizione del diritto comune, anche se tale moderazione non evita che in Italia il ceto giuridico si mostri piuttosto freddo verso le sue posizioni riformatrici.
Di rilievo, infine, l’atteggiamento alciateo verso i consilia, che, pur rappresentando un elemento non secondario dell’attività forense, non meritano a suo avviso la dignità della stampa. La sua posizione eterodossa, espressa nell’ultimo cap. del libro XII dei Parerga, edito postumo, nega valore scientifico ai responsa, formulando un circostanziato atto d’accusa contro l’avidità dei giuristi e la carenza di deontologia professionale e di probità scientifica da loro dimostrata.
Nelle parole di Alciato il consilium, che storicamente ha rappresentato un prezioso mezzo per mettere in contatto nel processo teoria e prassi, con giovamento indubbio per entrambe, diviene strumento di pervertimento della scienza giuridica e fonte di concreta ingiustizia a danno delle parti (i nove libri che raccolgono i suoi responsi ci sono stati infatti tramandati da un’edizione postuma, voluta e curata dal congiunto ed erede Francesco Alciato).
Ottima conoscenza del greco (tanto da cimentarsi con la traduzione delle Nuvole di Aristofane e la stesura di epigrammi in greco), reputata indispensabile per capire nella loro interezza i testi giustinianei, studio della storia romana, con un’attenzione privilegiata per l’organizzazione istituzionale dello Stato romano e le sue magistrature – cioè per quel diritto pubblico disciplinato soprattutto negli ultimi libri del Codice e tradizionalmente trascurato dai giuristi medievali a causa della sua inutilità per il presente –, ricorso intelligente alla filologia per sanare passi palesemente mendosi senza dover ricorrere a interpretazioni fantasiose o addirittura prive di senso comune, inserimento del dato giuridico in un contesto più ampio, ricavato dal confronto con una pluralità di fonti extragiuridiche (letterarie, archeologiche, storiche, linguistiche): questi i salienti caratteri di novità della lettura alciatea delle fonti romane, che consentono insieme di avere a disposizione un testo più vicino all’originale, e più sicuro, e di comprenderlo meglio, senza le ingenuità, gli anacronismi e le infedeltà (più o meno consapevoli) che inficiano la scientificità e dunque l’attendibilità di tanta parte del lavoro interpretativo dei giuristi medievali.
Quasi tutte le opere di Alciato hanno conosciuto numerose edizioni e ristampe, già durante la vita dell’autore, che non di rado ha apportato rimaneggiamenti. Di ciascuna si indica qui soltanto la prima edizione, con l’eccezione dei Responsa e dell’Opera omnia, di cui indichiamo anche l’edizione comunemente ritenuta migliore o più completa.
In tres posteriores libros Codicis Iustiniani annotationes, e Opusculum, quo graece dictiones fere ubique in Digestis restituuntur, Argentinae 1515.
Paradoxorum ad Pratum lib. VI. Dispunctionum. lib. IIII. In tres lib. Cod. lib. III. De eo quod interest lib. I. Praetermissorum. lib. II. Declamatio una, Mediolani 1518.
Lectura super secunda parte ff. novi in titulo de verborum obligationibus, Lugduni 1519.
De quinque pedum praescriptione, Liber unus. De magistratibus, civilibusque et militaribus officiis, Liber unus, Lugduni 1529.
In Stellam et Longovallium [...] defensio, Basileae 1529.
De verborum significatione libri quatuor, e In tractatum eius argumenti veterum iureconsultorum commentaria, Lugduni 1530.
Ad rescripta principum commentarii. De summa trinitate. De sacrosanct. eccl. De aedendo. De in ius vocando. De pactis. De transactionibus, Lugduni 1530.
Libellus, de ponderibus et mensuris [...], Haganoæ 1530.
Emblematum liber, Augustae Vindelicorum 1531.
In Digestorum seu Pandectarum librum XII. qui De rebus creditis primus est, Rubric. Si certum petatur, commentarius, [Basilea?] 1537.
Praesumptionum tractatus, Ioannis Nicolai Arelatani I.U.D. studio pervigili amplissimis auctus additionibus [...], Lugduni 1538.
Parergon iuris libri III [...], Basileae 1538.
De singulari certamine seu duelli tractatus, Parisiis 1541.
Omnia quae in hunc usque diem sparsim prodierunt usquam, opera [...], Basileae 1546.
De formula Romani imperij libellus [...], Basileae 1559.
Responsa, nunquam antehac excusa, Lugduni 1561.
Responsa, libris novem digesta [...], Basileae 1582.
Opera omnia in quatuor tomos legitime digesta [...], Basileae 1582.
Emblemata cum commentarijs [...], Patavii 1621.
Rerum patriae […] libri IIII [...], Mediolani 1625.
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