BOLDÙ, Andrea
Nato il 5 marzo 1518 dal patrizio veneziano Battista di Antonio Boldù, del ramo di Santa Marina, e da Faustina di Angelo Barozzi, e sposatosi nel 1553 con Chiara (secondo altri Dianora) Michiel di Tommaso, vedova di Antonio Bernardo, apparteneva a ricca famiglia patrizia del ceto senatorio. Possedeva alcune centinaia di campi, concentrati nel Padovano, a Bragni, Lupia e Saletto, dove fece costruire una villa, al cui compimento legava alcuni mesi prima di morire le rendite di buona parte delle sue proprietà: caratteristico esempio di quegli investimenti improduttivi cui in misura sempre crescente si dedicava l'aristocrazia veneziana, dopo che, abbandonati i traffici mercantili, si era venuta convertendo alle attività economiche e agli ideali di vita della nobiltà di Terraferma. Della sua giovinezza sappiamo, grazie a una lettera scrittagli in quell'occasione da Pietro Aretino, che nel luglio 1542 era confinato a Padova da una condanna, inflittagli a quanto pare per colpa non grave. La sua personalità non emerse dalla consueta routine delle magistrature cittadine fino a quando, il 31 genn. 1560, fu eletto ambasciatore presso il duca di Savoia.
Invero non gli veniva affidato alcun compito di grande rilievo politico. Lo scopo della sua missione consisteva in sostanza nello stabilire rapporti di buona amicizia con uno Stato - come scrisse il B. nella sua relazione - "posto per il sito suo quasi baluardo all'Italia contro i popoli stranieri e barbari), stretto in una morsa tra Francesi e Spagnoli, ancora insediati nelle principali piazzeforti del paese, e che poteva quindi divenire un naturale alleato di Venezia contro la potenza asburgica. È comprensibile dunque che la Repubblica di S. Marco si affrettasse ad allacciare stabili rapporti diplomatici col ducato di Savoia, subito dopo la sua ricostituzione all'indomani della pace di Cateau Cambrésis, inviando, per la prima volta dopo il 1497, un suo ambasciatore residente. Similmente il B. trovò alla corte sabauda un ambiente favorevole e ben disposto ad appianare i motivi di attrito tra i due Stati. Di questa atmosfera è sintomatica la rivelazione fatta al B. da Emanuele Filiberto delle trame ordite dal duca di Sessa, governatore di Milano, per impadronirsi col tradimento di alcune fortezze veneziane.
Della sua missione ci informano a sufficienza, oltre alla relazione, i dispacci inviati al Senato e al Consiglio dei Dieci. Partito da Venezia nel marzo del 1560, dopo brevi soste a Milano e a Vercelli, giunse il 25 apr. a Nizza, dove soggiornava temporaneamente la corte sabauda, che il B. seguirà poi nei suoi spostamenti in Piemonte. La principale questione politica di cui egli ebbe modo di occuparsi fu il progetto del duca di formare una lega con gli altri Stati e con i cantoni svizzeri cattolici, allo scopo dichiarato di combattere gli eretici e, soprattutto, di restituire ai Savoia Ginevra e le altre terre perdute di recente. Come già avevano fatto la Francia e la Spagna, anche il governo veneziano, che era stato tempestivamente preavvertito dal B. dei propositi del duca, respinse la proposta (4 febbr. 1561), giudicando inopportuna un'iniziativa lontana dagli interessi di Venezia, e che per giunta avrebbe sollevato l'ostile diffidenza delle altre potenze europee, all'indomani della pace faticosamente raggiunta.
I rapporti tra la Repubblica ed Emanuele Filiberto, allora raffreddatisi, divennero tesi in seguito alla formale protesta dei diritti sabaudi su Cipro, espressa alla Signoria dall'ambasciatore Claudio Malopera. Il B. in tale occasione non aveva certo brillato per abilità diplomatica, quando, conversando qualche tempo prima su tale argomento col Malopera mentre questi si trovava in licenza a Vercelli, per informarsi delle sue istruzioni lo aveva indotto a toccare il delicato argomento - di cui naturalmente a Venezia non si voleva neppur sentir parlare - e si era perfino astenuto dall'opporgli le energiche rimostranze che il caso avrebbe richiesto. Il Consiglio dei Dieci indirizzò allora all'incauto ambasciatore un aspro rimprovero. Il duca tuttavia, una volta ottenuto lo scopo principale della protesta, che consisteva nell'evitare la prescrizione dei suoi diritti, premendogli di conservare buoni rapporti con la Repubblica, si affrettò a sconfessare il suo ambasciatore, richiamandolo da Venezia, e trovò pure modo di dichiarare pubblicamente alla presenza del B. che non intendeva sentir parlare della questione di Cipro.
Altro motivo di tensione tra Venezia e Savoia fu l'incidente provocato da due galee corsare del duca, comandate da Andrea Provana di Leyni, che nell'ottobre del 1560 avevano fermato e saccheggiato due navi veneziane nelle acque di Cefalonia, col solito pretesto di sequestrare le merci appartenenti a Turchi ed Ebrei. Energiche furono le rimostranze della Signoria, timorosa anche che i Turchi ne traessero occasione per aprire le ostilità con Venezia; ma la volontà di Emanuele Filiberto di evitare una rottura con la Repubblica di S. Marco, più che l'abilità del B., permise una soddisfacente composizione della vertenza con il risarcimento dei danni.
La residenza del B. presso la corte sabauda terminò prima della scadenza del mandato, e forse il suo anticipato richiamo in patria è da attribuirsi al malcontento del governo veneto per i ripetuti errori che ne avevano rivelato la scarsa attitudine a reggere il delicato ufficio. Dopo il severo rimprovero in occasione del problema di Cipro, il Consiglio dei Dieci aveva dovuto esprimere ancora una volta con parole eccezionalmente dure il proprio "grave risentimento" contro l'ambasciatore, colpevole di essere caduto in imperdonabili imprudenze, recandosi segretamente di notte a Saluzzo ad abboccarsi con Ludovico Birago, al servizio francese, che assieme al fratello Carlo aveva manifestato il proposito di passare agli stipendi della Repubblica. Si spiega quindi che il B. non sia stato eletto in seguito ad altra ambasciata.
Nei primi giorni di novembre del 1561, essendo ormai giunto il successore Sigismondo Cavalli, il B. fece ritorno a Venezia, recando con sé la stima di Emanuele Filiberto, che quattordici anni più tardi manterrà la promessa di far da padrino al primo nipote del B., e si servirà di lui per compiere alcuni acquisti in Venezia.
La relazione letta dal B. al Senato il 12 dicembre, assai ampia e dettagliata, reca il timbro inconfondibile del realismo e dell'acutezza che solitamente ispiravano i giudizi dei diplomatici veneziani: ma non va taciuto il dubbio, particolarmente consistente in questo caso, che nella stesura delle relazioni, come anche dei dispacci, potesse intervenire spesso in misura considerevole la mano esperta dei segretari. Secondo lo schema consueto di questi documenti, la relazione offre un vivace ritratto del duca e della sua corte, delle condizioni politiche e militari del ducato, dell'economia piemontese e delle finanze dello Stato. Degna pure di nota è l'attenzione con cui il B. - riprendendo quanto più ampiamente aveva esposto in un dispaccio al Consiglio dei Dieci - esamina la possibilità di importare dal Piemonte il frumento necessario per far fronte alle esigenze annonarie della Repubblica, uno dei problemi più assillanti del governo veneziano.
Eletto savio di Terraferma nel 1564 e altre volte negli anni successivi, prese ancora parte alla vita politica, benché, come avvertiva l'ambasciatore sabaudo a Venezia nel 1575, non godesse di molta considerazione tra il patriziato. Nel 1567 propose da solo e fece approvare dal Senato l'incriminazione di Marino Cavalli, bailo a Costantinopoli accusato di corruzione e di trasgressione agli ordini ricevuti (il Cavalli fu poi assolto). Nel 1573 fu sindaco e avogador straordinario in Levante. Dopo questo faticoso e ingrato incarico la sua presenza nella vita pubblica divenne meno assidua, ma nel 1581 lo vediamo ancora savio, di Terraferma intervenire in Senato per proporre una riforma dell'estimo riforma che venne respinta a larga maggioranza.
Nel suo testamento, scritto di proprio pugno il 18 luglio 1594, troviamo ancora un'eco della sua ambasceria, laddove dispone di collocare nella villa di Saletto, oltre al proprio ritratto, quelli del duca e della duchessa di Savoia. Morì pochi mesi dopo, nel gennaio del 1595, e fu sepolto a S. Giacomo di Murano, nell'arca che vi si era fatto costruire.
Fonti e Bibl.: E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, VI, Venezia 1853, pp. 421 s.; Venezia, Civico Museo Correr, cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 103r. Sull'ambasciata in Savoia è fondamentale A. Segre, Emanuele Filiberto e la Repubblica di Venezia(1545-1580), in Misc. di storia veneta, s. 2, VII (1901), pp. 104-166, 453-465, 499-504; cfr. anche: Id., Alcuni documenti sulle relazioni traSavoia e Venezia nel secolo XVI, in Nuovo arch. veneto, n. s., III (1902), pp. 52-57 e 62-73 (sull'incidente navale di Cefalonia). La relazione di Savoia è pubblicata pressoché integralmente in E. Alberi, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 2, I, Firenze 1839, pp. 401-470; cenni su di essa in W. Andreas, Die venezianischen Relazionenund ihrVerhältnis zur Kultur derRenaissance, Leipzig 1908, passim e partic. p. 62, e in A. Pino-Branca, La vita economica degli Stati italiani nei secoli XVI,XVII,XVIII, Catania 1938, pp. 23-112. Cfr. anche nell'Archivio di Stato di Venezia: Senato,Dispacci diambasciatori,Rubricario di Savoia, E 1*, cc. 1r-11v (nn. 1-66, 68-71); Capi del Consiglio dei Dieci,Lettere di ambasciatori, busta 28, nn. 1-24, 26; Avogadori di comun,Nascite di patrizi, I, c. 32r; Sez. notarile,Testamenti Secco, busta 1190, f. 14; M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 56. Il contratto di nozze è al Civico Museo Correr, ms. P. D., c. 2633/6, c. 9. Altre notizie in P. Aretino, Lettere, II, 386, in Opere, a cura di F. Flora, Milano-Verona 1960, p. 898; Nunziature di Venezia, VIII, a cura di A. Stella, Roma 1963, p. 260.