CALMO, Andrea
La biografia del C. è ancora quasi tutta da ricostruire, sia per la scarsezza di dati documentari, sia per la contaminazione con elementi spuri, desunti per lo più dalle Lettere, che poco hanno a che vedere con la persona reale dell'artista. Il solo documento diretto finora noto è il testamento, conservato assieme a quello della moglie presso l'Archivio di Stato di Venezia. Da entrambi gli atti apprendiamo che i coniugi ebbero due figlie, che essi lasciarono provviste di denaro e di un modesto podere nel Trevisano. Giulia, la moglie, testò nel 1566 e premorì al marito; questi testò nel 1568 e morì il 23 febbr. 1571. Nel registro dei Necrologi della Repubblica veneta si legge sotto questa data: "M. Andrea Calmo, de anni 61, da febre". Questa seconda precisazione consente di indicare nel 1510 o nel 1511 l'anno in cui egli nacque, quasi sicuramente a Venezia; la lieve incertezza dipende dal computo more veneto dell'anno della morte (il testamento divenne infatti esecutivo in data 2 marzo 1572, come si ricava da altro strumento allegato).
All'infuori di queste scarne notizie, il resto della vita del C. è congettura o silenzio. L'unica fonte alla quale i pochi studiosi che si occuparono di lui abbiano attinto è il racconto biografico di Alessandro Zilioli, incluso nelle Vite dei poeti italiani e rimasto manoscritto. Ad esso si rifecero palesemente lo Zeno, in una Annotazione alla Biblioteca del Fontanini, e il Mazzuchelli, in una "vita" preparata per gli Scrittori d'Italia e che non vide la luce; a cui nulla aggiunsero le notizie di Francesco Bartoli e i brevi appunti linguistici e biografici del Gamba. Ma il racconto dello Zilioli, al quale la prossimità cronologica e il legame di parentela con lo Scipione Zilioli a cui il C. dedicò una lettera parrebbero conferire un certo credito, risulta contaminato da inserti inattendibili, tolti dal pittoresco garbuglio delle Lettere.In alcune di queste l'autore si compiace di descriversi, al pari dei suoi immaginari sottoscrittori, come appartenente per nascita al mondo dei pescatori e dei barcaiuoli dell'estuario, e quindi al ceto più umile e periferico tra quanti costituivano il tessuto dell'antica civitas lagunare. Di qui l'atteggiamento conservatore, di buon veneziano all'antica, che il C. si compiace spesso di affettare. Ma nulla, in realtà, se non una certa dimestichezza col lessico ittiologico e marinaresco che traspare da alcune opere e che potrebbe provenirgli da altra via, lascia pensare che egli uscisse da una famiglia di pescatori o di batelanti.Nel testamento egli ricorda il padre e la madre come sepolti nella basilica dei SS. Giovanni e Paolo, privilegio impensabile per una famiglia del popolo minuto; i fratelli Giacomo e Piero vengono pure menzionati come benestanti. Ora, tra una famiglia di barcaiuoli o di pescatori veneziani di quel tempo e il ceto popolare urbano, coesistente con la piccola borghesia bottegaia e artigianale (alla quale il C. più verosimilmente appartenne), correvano notevoli differenze, specie per quanto poteva riferirsi alla educazione o alla sfera delle curiosità culturali. Le notizie dello Zilioli accennano a un periodo di apprendistato letterario presso un prete; ma certo la cultura del C. non ricalcò che alla lontana il modello umanistico, rinserrandosi nei domini estesi ma poco profondi di una accesa fantasia linguistica (che può ricordare; se proprio vogliamo ricercare una ascendenza analogica, la bizzarria burchiellesca).
Quasi sicuramente egli fu soltanto un attore e un commediografo, né accedette agli ordini, sia pure inferiori, di qualche ufficio pubblico, al quale la sua condizione di "cittadino originario" avrebbe potuto indirizzarlo. Ciò spiega, al di là degli occasionali accenni di alcune lettere, la sua mancanza di rapporti continuativi con personaggi noti e influenti, e la conseguente penuria di documenti che anche indirettamente lo riguardino: segno di un'esistenza che, malgrado i clamorosi successi colti sulle scene e la fama assicuratagli dalla fitta serie di opere a stampa, dové trascorrere nel cerchio di una notorietà estranea a un reale interesse da parte della società dei potenti. Un barbiere e un sanser (un mediatore) sono tra i testimoni dell'autografia del testamento, ed entrambi si dichiarano intrinseci da lunga data dell'amico, defunto.
Ad alcuni dei maggiori artisti allora attivi a Venezia il C. dedicò delle lettere; ma, dietro agli elogi iperbolici che egli indirizza all'Aretino o al Tintoretto, si intuisce la scarsa confidenza e il sentimento di soggezione che l'autore dové nutrire verso quei sommi. Più familiari appaiono invece i rapporti con artisti minori, quali il Doni e il Parabosco, e con colleghi versati come lui nell'arte comica, quali il Giancarli e il Molino detto il Burchiella. Anche gli amici del C. vanno dunque ricercati nel milieu mediano e modesto al quale appartennero i suoi parenti, e dal quale non pare che egli, nel corso della sua pur fortunata carriera, abbia saputo o voluto distaccarsi.
è assai probabile che una più sistematica battuta negli archivi consenta di identificare qualche nuovo documento che getti un po' di luce sulla figura anagrafica dell'autore. Ma, per la sua posizione marginale rispetto a personaggi di maggior rilievo, esponenti della vita pubblica, si può escludere fin d'ora che intorno al C. sia possibile mettere in luce la messe di testimonianze che a più riprese, e specialmente in questi ultimi anni, sono emerse, per merito di abili ricercatori, intorno al Ruzante. Il C. non ebbe alle spalle un uomo industre e indaffarato come il protettore del Ruzante Alvise Cornaro, che coinvolse variamente l'attore-autore nella propria attività economica; né la sua parentela e le sue amicizie furono nemmeno lontanamente paragonabili con la vasta rete di conoscenti e di affini che avvolse, lasciando ampie tracce nelle carte d'archivio, la vita di Angelo Beolco.
Tuttavia un attento esame delle opere supplisce in buona misura alla carenza di dati documentari. La poetica, la psicologia, la cultura del C. emergono abbastanza chiaramente alla lettura delle commedie, delle pastorali, delle rime e soprattutto delle lettere. Queste ultime rappresentano l'aspetto più originale della produzione calmiana, e costituiscono nel loro genere un monumento pressoché unico nella nostra letteratura dialettale. Dei quattro libri che le raccolgono diede una edizione critica tuttora insostituita V. Rossi, contribuendo non poco, con il commento e una dotta introduzione, alla conoscenza dell'autore.
Si tratta, per dirla con le parole dell'autore stesso, di un'ampia raccolta di "ingegnosi cheribizzi" e di "fantastiche fantasie", indirizzati in forma di lettere da presunti pescatori (onde l'equivoco delle origini del C. da un tale ceto) a destinatari illustri o fittizi. Circolano in queste composizioni (anche in quelle dell'ultimo libro, che si indirizzano a varie cortigiane di Venezia) un'amabile arguzia e un'intima ironia, e un misto - come scrisse il Molmenti - di pazzia e di senno, che permette all'autore di pzssare, con calcolata abilità, dalla chiacchiera divagante e per così dire gratuita alla velata allusione a fatti e personaggi pubblici e alla loro affabulazione mediante il sapiente alternarsi dei vari livelli in cui si sviluppa lo stile espositivo. Il modello di queste strane composizioni sembra essere stato il Ruzante, il quale, con la lettera "alla morosa" (conservataci da un cod. della Marciana e pubblicata da V. Rossi in appendice alle Lettere del C.), apre una sorta di nuovo genere letterario (nuovo almeno nella tradizione dialettale, dove già fioriva il genere affine dei testamenti), a metà strada tra l'epistola giocosa e il monologo o sprolico di destinazione teatrale.
Sull'uso almeno in parte teatrale delle Lettere calmiane non sussistono dubbi: non solo se ne trovano ampie tracce nei componidi altri autori contemporanei o di poco posteriori (per limitarci a un solo esempio, le parti in veneziano della Vedova di G. B. Gini altro non sono che abili parafrasi di brani desunti dalle Lettere del C.), ma esse vengono spesso ricordate in documenti concementi il teatro dell'arte come opera di repertorio, alla quale i comici attingevano monologhi, concetti e battute - i cosiddetti "generici" - per i loro intrecci a soggetto. In uno dei prologhi di Domenico Bruni, ad esempio, la servetta della commedia, che finge di essere anche la serva dei suoi compagni di lavoro, enumera una serie di opere usate dai comici per le loro improvvisazioni e "tirate "(la Fiammetta del Boccaccio, Le bravure del Capitano Spavento, la Celestina, finanche Platone), assegnando a Pantalone le Lettere del Calmo.
Ora, se ciò avveniva a non molti anni di distanza dalla scomparsa del loro autore, è assai probabile che l'iniziatore dell'uso scenico di quest'opera, destinata in apparenza alla lettura tramite le stampe, sia stato il C. stesso. I sottoscrittori delle missive si fingono usualmente dei vecchi veneziani, torcellani o buranesi, dei quali ripetono l'assennata psicologia, ligia alle consuetudini e ai costumi del buon tempo antico; onde viene fatto di collegare queste lettere in forma di monologhi (o piuttosto monologhi in forma di lettere) con le parti del vecchio, che sappiamo da altre fonti il C. era solito interpretare sulla scena. La figura del vecchio (discendente in linea retta dal senex del teatro latino) compare costantemente nelle commedie e nelle egloghe; e ciò è una conferma che l'autore-attore si dedicava con predilezione a tale ruolo specialistico, formalmente assai prossimo a quello del Magnifico o proto-Pantalone (lo Zilioli lo indica in quello di Pantalone senz'altro). Le Lettere rappresentano dunque il primo repertorio linguistico e tecnico della maschera che in seguito avrebbe assunto questo nome e che sarebbe diventata con esso il simbolo del borghese veneziano e uno dei personaggi principali della commedia dell'arte. Il parallelo più convincente è offerto dalle celebri Lettere di Isabella Andreini comica gelosa, che, malgrado l'apparente fisionomia di opera retorica, rappresentarono per lungo tempo un repertorio di "generici" per le parti degli innamorati.
Il teatro del C., al quale le Lettere sono dunque per più versi congiunte, consta di sei commedie e di quattro egloghe piscatorie, ma è relativamente meno noto anche tra il pubblico dei lettori specialisti. Manca di esso una edizione critica, manca una ristampa divulgativa moderna, mentre le antiche stampe sono rare e di lettura difficile. Esse contengono sovente dei testi plurilingui, nei quali compaiono idiomi inconsueti, come il gergo furbesco e il romaico parlato nelle colonie greche di Venezia (più noto come linguaggio stradiotesco), idiomi che i tipografi del tempo rendevano in lezioni approssimative, spesso correggendo a loro arbitrio secondo consuetudini ortografiche estranee a quei linguaggi (si pensi, per fare l'esempio più evidente, al trapasso, per il romaico, dall'alfabeto greco a quello latino). Si trattava in realtà di un linguaggio mancante di una tradizione scritta, o destinato piuttosto allo scambio verbale, la cui diffusione era limitata alle sottili fasce mistilingui degli empori commerciali (e in primo luogo di Venezia), o a gruppi ristretti di parlanti, come gli appartenenti ai corpi della cavalleria leggera, reclutati in prevalenza nei possessi albanesi e levantini della Repubblica.
I personaggi dello stradiotto (come il soldato Floricchi della Spagnolas)e del mercante levantino (come il vecchio Demetrio della Rodiana)sono presenti tra gli interlocutori delle commedie calmiane. Essi non rappresentano una creazione originale del C., ma si direbbero piuttosto uno svolgimento parallelo di tipi già diffusi della letteratura popolaresca (Parmigero eloquente in un misto di veneto e di neo-greco ha il suo capostipite nel personaggio di Manoli Blessi strathioto, protagonista di una serie di poemetti di stampo picaresco, che incominciano a circolare intorno alla metà del secolo). La figura del levantino, soldato mercenario o commerciante, è il prodotto di una moda letteraria che ha i suoi corrispondenti nel personaggio del bravo, parlante in bulesco (ossia nel linguaggio dei buli, un veneziano cittadinesco inframmezzato da termini e da espressioni gergali), del facchino, che recita in bergamasco (il dialetto dei valligiani emigrati a Venezia a stentare la vita nei fondaci e nei magazzini portuali), nel personaggio del lanzo, che parla con forte accento germanico (un carboner todesco ha parte nella Spagnolas), e in quella del raguseo, spesso rappresentato nelle vesti di un ciarlatano, che si esprime nella propria parlaùra dalmatina (ovvero in un linguaggio di impronta veneziana caratterizzato da storpiature slave). Come lo stradiotto, come il bergamasco, così anche il raguseo o raugeo ora un personaggio non insolito nel panorama della folla cosmopolita che si aggirava in quella grande plaque tournante di scambio e di raccordo tra Oriente ed Europa centrale che fu Venezia nei secoli d'oro.
Una siffatta galleria di personaggi, alquanto inconsueti nella tradizionale tipologia della conunedia cinquecentesca, ha i suoi archetipi in opere precedenti il teatro calmiano, quali la Bulesca, la Farsa de Ranco, la stessa Venexiana (per il tipo del facchino) e la pleiade dei poemetti popolari a dialogo, la cui discriminante dal teatro vero e proprio è difficilmente precisabile. Il C. attinse a una realtà oggettiva già parzialmente plasmata dalla tradizione letteraria e contribuì per sua parte a solidificarla in convincenti modelli per la scena. Ma, nella ricognizione dei propri personaggi, egli si attenne principalmente agli esempi di vita urbana che la città gli poneva sott'occhio. Il tipo del villano pavano, secondo un trapasso già presente nelle ultime opere del Ruzante, risulta sradicato dal proprio ambiente contadino e definitivamente aggregato, in qualità di famiglio, a un padrone residente in città, come Saltuzza, il servo protagonista della commedia omonima. Gli altri interlocutori, se si eccettuano i tipi anomali cui si è accennato (il greco, lo schiavone, il tedesco, peraltro caratterizzati da una loro peculiare presenza veneziana), trovano riscontro nei personaggi della commedia in lingua e si rifanno, per suo tramite, al ceppo originario della tradizione novellistica: e tali sono i vecchi, gli innamorati, le coppie di servi. Di qui il carattere vagamente apografico che distingue il teatro del C. rispetto a quello di altri autori della cerchia veneta, e in primo luogo del Ruzante.
Al predominio della civiltà cittadina e all'egemonia della convenzione culturale il C. non seppe opporre una solida cultura propria, che rielaborasse gli spunti tradizionali e gli apporti d'autore in una diversa temperie intellettuale. Città e convenzione divengono le due componenti di un gusto per l'artificio letterario che, se da un lato fanno di lui l'esponente più tipico della maniera postruzantiana, dall'altro sembrano anticipare taluni caratteri dell'età barocca. Il linguaggio è sentito prevalentemente come materia fantastica, da maneggiare secondo l'estro o il capriccio del momento, non come elemento oggettivo, da impiegare secondo una precisa ricerca di effetti realistici. La pluralità degli idiomi immessi nella commedia, con l'aggiunta degli eloqui artificiali predetti, è sfruttata quasi esclusivamente sul piano dell'elaborazione verbale, a volte senza un preciso legame con lo stato sociale del personaggio. Il procedimento è portato alle estreme conseguenze nelle egloghe, dove sono introdotti a mero scopo buffonesco dei pastori che declamano i loro versi in bergamasco e in veneziano, una maga che recita le sue formule in greco-veneto, un ciarlatano che dice la sua tirata in dalmatino, e così via. Ma anche nella Rodiana, nel Travaglia e in altre commedie il pastiche linguistico prolifera su sé stesso con una abbondanza che lo rende eccessivo e che finisce per provocare nel lettore degli effetti disorientanti; e poco conta stabilire se il C. si associò in questo a un uso già praticato sulle scene veneziane, sviluppandolo, o subendone la tirannia.
Un excursus tra i predecessori e gli epigoni (Antonio Molino detto il Burchiella, Giovanni Paulovichio, Domenico Taiacalze, Zuan Polo, Gigio Artemio Giancarli, Marino Negro) dimostra che il C. non fu l'iniziatore della voga phirilinguistica nella commedia veneziana, e che da questa si estese ad altri centri della commedia italiana del Rinascimento. Altrettanto può dirsi per l'invenzione e la struttura dei testi, che risultano largamente esemplati su soggetti convenzionali, quando non ricalcati su modelli del repertorio precedente.
Con la sola eccezione della Spagnolas, che sembra essere stata la sua prima opera destinata al teatro e che è la più originale e la più vivace per la linearità dello svolgimento e l'immediatezza con cui sono resi i personaggi, le altre commedie del C. ripetono situazioni e motivi già noti. Il Saltuzza, in cui l'autore dichiara di voler "uscire dall'ordine antico" e di voler fare opera "piena di naturalità", riecheggia il soggetto della novella del Decam.III 6, dell'Assiuolo del Cecchi e del Frate del Lasca. Il Travaglia riprende in parte lo schema degli Ingannati degli Intronati di Siena e del Viluppo del Parabosco; la Rodiana, stampata sotto il nome del Ruzante e rivendicata dal C. nel prologo del Travaglia, cela forse un episodio di pubblicità editoriale (a spese di un autore meno noto), ma probabilmente rielabora un testo o uno spunto del commediografo padovano ispirato a sua volta dalla popolare novella di Tofano del Boccaccio (Decam.VII 4).Tale è certamente il caso della Fiorina e della Pozione, entrambe rifacimenti di due testi notissimi, la prima della omonima commedia del Ruzante e la seconda della Mandragola del Machiavelli.
E veramente, se l'intento del comico veneziano non fosse stato diverso da quello di un comune pligiario, si tratterebbe di episodi a stento giustificabili, anche in ordine alla mediocrità delle commedie derivate. Ma rifacendosi a lavori di fama sperimentata e transigendo sulla propria originalità creativa (in un'epoca in cui il "diritto d'autore" non era sottoposto a vincoli di sorta e in cui di li a poco, con il Marino, si sarebbe dibattuta la questione dei limiti di liceità del cosiddetto "furto" letterario), il C. affermava un'esigenza diversa, che veniva facendosi strada in un panorama teatrale già notevolmente mutato rispetto a quello di pochi decenni addietro. Fin dall'esordio della sua carriera, il teatro dovette rappresentare per lui un'attività professionale, dalla quale egli traeva i mezzi per il proprio sostentamento. Una simile attitudine corrisponde all'ambiente: se a Padova, nei primi decenni del secolo, il teatro nasceva occasionalmente, appoggiandosi con il Ruzante alla piccola corte di Alvise Cornaro e non discostandosi dalla pratica generale del tempo (per la quale la recita restava pur sempre il prodotto di una cerchia di gentiluomini dilettanti), a Venezia il gusto per gli spettacoli era diffuso fin dal secolo precedente in una schiera di ricchi e attivi sodalizi - le famose compagnie della Calza -, tra i cui scopi ricreativi il teatro occupava il primo posto.
Già in questa considerazione vediamo come a Venezia esistessero i presupposti per una attività teatrale intensa e continuativa, e germogliassero i frutti di un embrionale professionismo. I legami del C. con la nutrita consorteria di buffoni, di attori e di virtuosi, allignanti in città fin dai primi del secolo, stanno a dimostrarlo; e testimoniano di una rapida modificazione avvenuta nei rapporti tra i teatranti e il pubblico, con il graduale afficciarsi alla ribalta del comico di mestiere; il quale non è ancora o non è tutto il futuro comico dell'arte, ma ne anticipa in larga misura i connotati salienti.
Nel C. l'anticipazione riguarda prevalentemente la natura del testo (e in questa prospettiva si spiegano le sciattezze e le carenze di forma, solo in parte imputabili all'imperizia drammaturgica), ma questa anticipazione investe da vicino (e in ciò è il suo aspetto più interessante) anche il ruolo tradizionalmente assegnato all'attore. Estraneo alla classe dirigente, verso la quale ostenta un atteggiamento di rispettosa sudditanza, non sorretto da un appropriato corredo di buone lettere e nemmeno sospinto dall'ansia di sperimentazione che sembra avere animato il Ruzante, forse sottratto a una approfondita meditazione intorno al proprio lavoro dagli eccessi più clamorosi del cosmopolitismo lagunare (di cui ripete, adeguandoli alla propria scala, il proliferante ingombro decorativo e la sostanziale esilità di contenuto), incline a quella sorta di disponibilità sensuale (qui sublimata nella materia linguistica) che si rivela una costante dell'indole veneziana, egli non poteva che ricercare in sé stesso, e quindi in primo luogo nella propria esperienza professionale, i mezzi per adeguarsi a un gusto e a una tecnica in trasformazione.
I modelli che egli sceglie sono i lavori più rappresentativi di alcuni autori contemporanei, che egli sente il bisogno di modificare, forse avvertendone inconsciamente la misura classica, secondo il proprio modo di concepire il teatro. Si assiste così al vanificarsi, in adattamenti di cui è doveroso riconoscere la goffaggine, del significato di opere come la Mandragola o la Fiorina;in compenso si percepisce il rilevarsi del ruolo dei personaggi, in funzione di una accresciuta autonomia dell'attore nello spettacolo. L'attore, mediante l'artificiosa dilatazione dei monologhi, invade gran parte dello spazio scenico e diviene il perno motore dell'azione. La preminenza assunta dal "parlato" è paradossalmente il primo elemento disgregatore del testo, al quale si aggiungerà di li a poco il dinamismo acrobatico e gestuale del mimo. Nella doppia fisionomia di autore-attore che caratterizza l'interprete cinquecentesco, la personalità dell'attore prende il sopravvento su quella dell'autore. Il testo, che nella messinscena ruzantiana restava pur sempre al centro dello spettacolo, smarrisce la sua tensione significante e si trasforma in supporto per un meccanismo diverso. Nel C., e più ancora nei suoi continuatori (Giancarli, M. Negro), si ha l'impressione che esso si riduca in misura considerevole alla fimzione di un supporto per gli altri elementi, che concorrono alla formazione dello spettacolo. La esigenza del repertorio lo spinge probabilmente più in là: accanto alle commedie distese, la cui struttura mostra tuttavia un sostanziale disinteresse per la trama, spinta fino a una sorta di intercambiabilità delle parti, si accumula il vasto materiale delle Lettere, il cui uso teatrale (di inserto "a soggetto") rimane, nella pratica del C. stesso, pressoché indubitabile.
L'importanza della sua opera si proietta così, sotto la specie del tecnicismo, lungo l'arco di fioritura del teatro secentesco e segnatamente dei comici di mestiere. Di costoro egli fu un vero antenato, per esperienza e per vocazione elettiva; e se è certamente inesatto schematizzare la sua influenza sul teatro successivo fino al punto di salutare in lui il padre della commedia dell'arte (come fatto dalla maggioranza degli studiosi che si occuparono di lui), non è invece inesatto riconoscere nel C. uno dei suoi maggiori precursori. Le ragioni di tale funzione esemplare presso i comici posteriori, della prolungata fortuna delle opere del C. tra i professionisti della scena (testimoniata, come per quelle del Ruzante, dall'alto numero delle ristampe che se ne fecero a Venezia nella seconda metà del secolo) si possono variamente interpretare, sia con motivi di gusto - impliciti in quanto si è osservato sulla flessibilità dei soggetti calmiani e sul loro aspetto prebarocco -, sia con motivi di opportunità contingente. È certo che l'accurata eliminazione di ogni riflesso della politica e del dibattito religioso del tempo, diciamo pure l'ovvietà, sotto questo riguardo, del teatro del C., sembrava fatta apposta per piacere ai commedianti del Seicento, autori di un teatro disimpegnato da ogni riferimento alla realtà della Controriforma e oppresso dal timore della censura ecclesiastica (che pure non risparmiò le ultime edizioni del Calmo). è un fatto che buona parte del teatro popolareggiante di area settentrionale, tra la metà del Cinque e la fine del Seicento, reca nei suoi più significativi documenti una marcata impronta calmiana. Calmiana, nei materiali linguistici e nelle movenze prebarocche, è la maniera stilistica e umorale di alcune tipiche commedie del primo Seicento, quali la Veneziana di G. B. Andreini; calmiane, nell'impianto di fondo e naturalmente nelle parti in dialetto, sono le commedie del romano Giovanni Briccio; calmiano è lo stile delle "comedie harmoniche" di Orazio Vecchi e di Adriano Banchieri, preludenti gli estri vocali e i capricci del melodramma; calmiano è lo spirito, e in parte il linguaggio, della più antica raccolta di scenari, il Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala; calmiani sono gli echi e i motivi che si riscoprono in una quantità di testi minori su cui è venuto appuntandosi in anni recenti l'interesse della critica.
Edizioni. Le prime edizioni delle commedie sono: Las Spagnolas (nelle altre stampe La Spagnolas), sotto lo pseudonimo di Scarpella Bergamasco, Venezia 1549; Il Saltuzza ibid. 1551; La Rodiana, sotto il nome del Ruzante, ibid. 1551; La Pozione, ibid. 1552; La Fiorina, ibid. 1552; Il Travaglia, ibid. 1556 (ma rappresentato nel 1546). Le Egloghe pastorali e le Rime piscatorie vennero pure stampate per la prima volta a Venezia nel 1553. Un'edizione completa delle opere calmiane, con interventi della censura ecclesiastica, vide la luce a Treviso negli anni 1600-1601. Il primo libro delle Lettere fu stampato a Venezia nel 1547, il secondo nel 1548, il terzo nel 1552, il quarto nel 1556; l'elenco completo delle stampe è in G. Martucci, A. C. comico veneziano e le lettere piacevoli e facete, in La Rassegna nazionale, 16 settembre 1887, pp. 335-344, e nella edizione con testo critico e con illustrazioni storiche e dialettologiche curata da V. Rossi, Le lettere di messer A. C.riprodotte sulle stampe migliori, Torino 1888 (sulla quale cfr. G. Rua, Le lettere di A. C. e la loro importanza per le tradizioni popolari, in Archivio per lo studio delle tradiz. popol., VIII[1889], pp. 81-92). La commedia Il Saltuzza venne ripubblicata (sul testo della princeps)a cura di G. Dall'Asta, Venezia 1956 (sui limiti di questa edizione cfr. la recensione di N. Vianello in Lettere italiane, X[1958], pp. 243-246; e anche N. Mangini, in Rassegna di cultura e di vita scolastica, XI[1957], fasc. 10). Alla ediz. della Dall'Asta si rifanno le più recenti ristampe della commedia in volumi antologici (in Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, II, Milano 1959, pp. 777-847, e in Teatro veneto, a cura di G. A. Cibotto, Parma 1960, pp. 377-422); l'edizione critica del Saltuzza con introd., testo, traduz., illustraz. storico-linguistiche e glossari, a cura di L. Zorzi, è in preparazione presso l'edit. Einaudi [Torino 1973].
Fonti e Bibl.: L'autografo della Vita di A. Zilioli si conserva nella Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia; copie del sec. XVIII sono nei codd. It.X, 1 (= 6394) e It. VII, 288 (= 8640) della Biblioteca Marciana di Venezia; la Vita del C.del Mazzuchelli è conservata nel cod. Vat. lat.9263, cc. 229v-232v; altre notizie bibliografiche che lo riguardano sono nel cod. Cicogna 519 della Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia. Il testamento del C. è oggi conservato all'Archivio di Stato di Venezia, Testamenti, n. 1200 (cfr. C. Musatti, Iltestamento di A. C. e di sua moglie, in Ateneo veneto, s. 4, XLVIII [1925], pp. 97-101). Si vedano inoltre: A. F. Doni, La libraria [prima], Venezia 1550, c. 7r; G.Parabosco, Il primo libro delle lettere familiari, Venezia 1551, cc. 57v-53r; G.Fontanini-A. Zeno, Biblioteca dell'eloquenza italiana, I, Venezia 1753, pp. 382 s.; F. Bartoli, Notizie istoriche de' comici italiani, I, Padova 1781, pp. 146 s.; B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, Venezia 1832, pp. 66-72; 2 ediz., riveduta e annotata da N. Vianello, Venezia-Roma 1959, pp. 69-73; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, I, Padova 1832, p. 104; M.Sand, Masques et bouffons, II, Paris 1862, p. 117; A. Bartoli, Scenari inediti della Commedia dell'Arte, Firenze 1880, introd.: passim;P.Molmenti, A. C., in Gazzetta letteraria (Torino), 25 giugno 1881, ristampato in Vecchie Storie, Venezia 1882, pp. 19-50 (e rielaborato nel saggio Un veneziano spirito bizzarro, in Venezia. Nuovi studi di storia e d'arte, Firenze 1897, pp. 198-235); l'introd. di V. Rossi alle Lettere, Torino 1888, fondamentale anche per i riferimenti bibliografici; L. Rasi, I comici italiani, I, Firenze 1897, pp. 549-553; I. Sanesi, La commedia, I, Milano1911, pp. 422-426; K. M. Lea, Italian Popular Comedy, New York 1962, pp. 239-245; M. T. Herrick, Italian Comedy in the Renaissance, Urbana, Ill. 1960, pp.55 s.; L. Zorzi, Congetture sul C., in Comunità, XXII(1968), n. 152, pp. 91-98.
Sugli aspetti linguistici dell'opera calmiana sono da vedere gli appunti di E. Teza, manoscritti nel cod. It.IX, 663 (=11978) della Biblioteca Marciana (cfr. N. Vianello, Note di Emilio Teza sulla lingua del C., in Lettere italiane, IX[1957], pp. 197-204); G. Vidossi, Note al "Naspo bizaro", in Il Folklore italiano, VI(1931), pp. 106-133 (poi in Saggi e scritti minori di folklore, Torino 1960, pp. 46-70); Id., Parole di A. C., in Lingua nostra, XIII(1952), pp. 106-108; G.Sala, La lingua degli stradiotti nelle commedie e nelle poesie dialettali veneziane del sec. XVI, in Atti dell'Ist. veneto di sc., lett. ed arti, CIX(1950-1951), pp. 141-188, 290-343; G.B. Pellegrini, Postille a "Il Saltuzza" di A. C., ibid., CXIX(1960-1961), pp. 1-24.