Calmo, Andrea
Commediografo e attore comico, nato a Venezia nel 1510 circa e morto «de anni 61, da febre» (come detto nel registro dei Necrologi della Repubblica veneta) il 23 febbraio 1571. Dal suo testamento (1568) e da quello della moglie Giulia (1566) si ricava che la coppia aveva due figli ai quali i genitori lasciarono denaro, dei terreni e una casa nel Trevigiano. Le indagini di Piermario Vescovo (1996) hanno consentito di verificare e di precisare le ipotesi dei precedenti biografi. C. non proveniva da una famiglia di pescatori o di barcaioli, secondo una tradizione che ha la sua origine nella ‘biografia’ di Alessandro Zilioli (m. 1650) inserita nelle Vite dei poeti italiani – opera rimasta manoscritta –, sulla scia di un brano delle sue lettere (la 24 del III libro, ad Anton Francesco Doni: «el poco frutuoso Calmo, alevào in le pescaresse e cressùo inte le lagune e nudrigào inte i canestri e amaistrào a piar del pesce», Le lettere, a cura di V. Rossi, 1888, p. 211). Invece, l’archivio della Scuola Grande di S. Marco attesta il suo inserimento (ma anche quello della sua famiglia e di alcuni dedicatari delle sue lettere) nel gruppo degli amministratori della Scuola stessa, la sua professione («Andrea Callmo tenttor», mestiere che era già di suo padre, Tadio) e il fatto che si presentò e fu eletto a diverse cariche nella Scuola: degan (‘decano’) nel 1538, sindaco nel 1542, di nuovo degan nel 1549-50 (Vescovo 1996, pp. 211-28).
La produzione di C., a Venezia, dal 1540 (anno della prima rappresentazione della sua commedia La Rodiana) alla metà degli anni Cinquanta, ha carattere di sperimentazione letteraria, teatrale e linguistica. In quel periodo scrive i quattro libri delle Lettere (che vengono pubblicati nel 1547, 1548, 1552, 1556 e regolarmente ripubblicati decine di volte fino all’inizio del Seicento) «nella vulgar antiqua lengua Veneta» e che «contengono vari cherebizzi e fantastiche fantasie philosofiche in varie materie» (come recitano i sottotitoli rispettivamente del 4° e del 1° volume delle Lettere), le Egloghe pastorali (1553), Le Rime pescatorie (1553) e sei commedie «in diverse lingue ridotte» pubblicate tra il 1549 e il 1556. Indirizzandosi Alla gloriosa Fama nella ‘lettera di chiusa’ del terzo libro delle Lettere, C. dichiara che «l’immortalissima dea» si meraviglierà che «un picolo vermeto, co’ son mi, me habbia metuo a voler afadigar el son dele vostre ribombante squile, sotto pretesto de cusì rozze, basse e alla bonissima invention», ma aggiunge anche che
se vu consideré el senso, la moralitae con el fin del mio scriver, e’ son cautissimo che no ve desdegneré de favorirme e dar un precioso eterno fomento alle mie opere, honorando sempremai i Danti, i Verzilî, i Petrarchi, i Ovidî, i Boccazzi, i Dominichi, i Danieli, i Plauti, i Ariosti, i Terentii, i Machiaveli, i Zanotti, i Molci, i Tibaldei, i Spironi, i Fortunî, i Corsi, i Venieri, e quel Dala Casa, con l’armonia de’ Paraboschi e d’i Piaseveli Intronatti, con i Doni e cetera quem virtutis (Le lettere, cit., p. 249).
Tra i letterati nominati da C. figura anche M., ma la citazione ci fa capire anzitutto come C. richieda per la lingua veneziana un posto nella letteratura, anche se soltanto faceta e burlesca. Si noti il parallelismo di fondo – non c’è nessun legame obiettivo possibile – con il brano del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua in cui si spiega che quando
le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termini et motti che faccino questi effetti; i quali termini, se non son proprii e patrii, dove sieno soli intesi e noti, non muovono né possono muovere (§ 67).
Anton Francesco Doni, anch’egli nell’elenco dei letterati e al quale è indirizzata la citata lettera III 24, comprendera benissimo questa richiesta e scriverà appunto, a proposito di C., nei suoi Marmi (1552): «Io ho quell’Andrea Calmo per un bravo intelletto, ché almanco egli ha scritto mirabilmente nella sua lingua e ha fatto onore a sé e alla patria» (I, p. 96). Le Lettere di C., sulla scia di quelle di Pietro Aretino (la cui pubblicazione è di quegli stessi anni, a Venezia, dal 1538 al 1557, e il cui successo è indubbio e duraturo), scelgono con decisione il comico e il faceto, pur volendo mantenere alla lingua veneziana una dignità letteraria; e la scrittura delle Egloghe e delle Rime pescatorie va nello stesso senso.
L’esperienza teatrale di C. si svolge sulle scene, dove a ogni carnevale egli rappresenta commedie, con grande successo, di cui è testimone una lettera del 13 febbraio 1548 a lui indirizzata da Girolamo Parabosco:
Che fate voi hora, il mio dolcissimo messer Andrea? Non vi fate voi adesso, che è il carnevale, correre dietro tutti coloro c’hanno gusto del buono? [...] E’ mi par di vedervi sopra la scena, farvi schiavi quanti vi veggono et odono. Io sento fin qui il rumore dello applauso che vi danno le genti; le quali, montando le mura del loco dove sete, rompendo porte e passando canali et d’alto smontando, si pongono a periglio di mille morti per poter solamente godere una sol hora la dolcezza delle vostre parole (Le lettere, cit., p. XXXIV).
E la lettera Alle signore comedie, ‘chiusa’ del II libro, dimostra quale piacere provasse C. mentre era in scena:
Care fie dolce, da ben, galante, honorae, piasevole, alliegre, ioconde e vertuose, e’ ve son pur grandissima-mente grosso debitor, che da tutti i spasemi, travaggi, fortune, stracoli, fastidii, scalmane, paure, desasii, incendii e necessitae che patisso i undese mesi e mezo de l’anno, int’una sera me fe’ tornar el sangue vivo in le vene, recrear i spiriti, consolar la nattura, averzar i meati, sustentar el cuor e ingrassarme la vita (Le lettere, cit., p. 154).
Quindi, se non si può propriamente parlare di un «mestiere» teatrale, come fa notare Vescovo (1996, pp. 113-14), è comunque opportuno sottolineare l’esperienza reale della scena e la ricerca di un piacere corrisposto tra chi rappresenta e chi guarda e ascolta. Il teatro di C. rivendica la propria autentica econcreta dimensione scenica. È, esplicitamente, un teatro d’attore nella cui pratica si fa appello a una «corporale eloquenza» accanto a quella dimensione linguistica che permette di ascoltare la varietà delle lingue praticate a Venezia (veneziano, padovano, bergamasco, greghesco, schiavonesco e toscano) e, in misura minore, nel mondo (spagnolo, francese, turco, tedesco).
Bisogna aggiungere che questa pratica teatrale è legata a un gruppo di amici che si definiscono come «la scuola d’i Liquidi, boni compagni», compongono testi e commedie, e calcano le scene del carnevale insieme a messer Andrea; tra questi si può fare il nome di Gigio Arthemio Giancarli (di cui abbiamo due commedie, La Capraria, 1544, e La Zingana, 1545) e di Antonio da Molin detto Burchiella, che diede alle stampe di Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1561 un testo famoso, I fatti e le prodezze di Manoli Blessi Strathioto, scritto in greghesco (veneziano intriso di parole greche e deformato dalle abitudini locutorie e fonetiche dei greci che vivevano a Venezia); il Burchiella, in scena, interpretava ovviamente il personaggio che parlava in quella lingua.
Nel 1552 (e poi nuovamente nel 1561, 1600 e 1625) C. pubblica a Venezia La Potione, comedia facetissima et dilettevole in diverse lingue ridotta (quattro brevi atti senza divisione in scene), che si ispira alla Mandragola di cui, in pratica, riprende la beffa e alcuni brani testuali (per es., la prima frase di Randolfo: «Rospo non ti partire, ch’io ti voglio un poco» ripete quella di Callimaco: «Siro, non ti partire, i’ ti voglio un poco»). La Mandragola ha una specifica vicenda veneziana: fu recitata nel carnevale del 1522 – e Marin Sanudo ne dà notizia – e poi in quello del 1526, come sappiamo da una lettera di Giovanni Manetti a M. (28 febbr. 1526, Lettere, pp. 417-18). Marin Sanudo parla della prima rappresentazione in questi termini:
In questa sera [13 febbr. 1522] a li Crosichieri fo recitata una altra comedia improsa per Cherea luchese e compagni, di uno certo vechio dotor fiorentino che havea una moglie, non poteva far fioli etc [corsivo redazionale]. Vi fu assaissima zente, con intermedii di Zan Pollo e altri buffoni, e la scena era sì piena di zente che non fu fato il quinto atto perché non si poté farlo, tanto era il numero di le persone (Diarii, 32° vol., col. 458).
Dopo aver chiarito che l’afflusso di «assaissima zente» era dovuto alla presenza di due attori allora famosissimi, Cherea e Zan Pollo, e non alla fama della commedia o del suo autore, si può insistere sul modo per lo meno drastico con il quale la fabula viene riassunta. Ora, nella Potione, il prologo alla greca de chesto scumerdia non dice altro, e si accontenta di sviluppare l’etc. sanudiano:
me salda à recurdanza, sì, sì, una vecchio no pustu fari fioli, l’aldro zuvegni xe namurao cul so muieri, e mentuo del menzo una berdalasco gulainzzo, chie per danari la stamena, la ducanti, fa rufianenzo del ponvero vecchio chilonso, e tundi candi voli truffari Madonna Culindonia, per chie anchi ella ghel pentero in corpo un merdisina, che saranstu masculi, e nu se corze del gambarula chie fando misseri Despundao so cusorte.
La Potione è quindi solo questa doppia beffa, a danno del ponvero vecchio chilonso e di Madonna Culindonia; non c’è il «frate mal vissuto»; non c’è il minimo accenno a una trasformazione finale di Madonna Calidonia paragonabile a quella di Lucrezia, che dopo la notte con Callimaco «pare un gallo!» ed è «molto ardita» (Mandragola V v); d’altronde Madonna Calidonia non compare mai in scena; non c’è nulla di paragonabile all’attività di Callimaco in Francia, dove il santo più venerato è San Cucù! Vari momenti sono però ispirati a scene della Mandragola: il caso del «segno» (Mandragola II iv-vi) viene ripreso all’inizio del II atto della Potione, ma con maggior trivialità; la scena del «garzonaccio» (Mandragola IV ix e V ii), diventato nella Potione «un garzonet orbo, che nog veg miga» (Potione, fine dell’atto III, inizio dell’atto IV). Di M., come già fece notare Giorgio Padoan, «vi è ben poco, o, meglio, niente» (Padoan 1982, p. 178). Viene da pensare, tenuto conto anche della brevità dell’opera, che solo la varietà delle lingue (il prologo alla greca, il veneziano, il toscano, il bergamasco e il padovano) e soprattutto l’estro teatrale di C. e della sua brigata abbiano potuto trasformare una fabula così scarna in uno spettacolo «facetissimo e dilettevole».
Bibliografia: Le lettere, 4 voll., Venezia 1547-1556; Las Spagnolas (poi La Spagnolas) [sotto lo pseudonimo di Scarpella Bergamasco], Venezia 1549; Il Saltuzza, Venezia 1551; La Rodiana [sotto il nome di Ruzante], Venezia 1551; La Potione, Venezia 1552; La Fiorina, Venezia 1552; Le Egloghe pastorali, Venezia 1553; Rime pescatorie, Venezia 1553; Il Travaglia, Venezia 1556; Le lettere, a cura di V. Rossi, Torino 1888; La Spagnolas, a cura di L. Lazzerini, Milano 1979; Rodiana, a cura di P. Vescovo, Padova 1985; Il Travaglia, a cura di P. Vescovo, Padova 1996; Le bizzarre, faconde et ingegnose rime pescatorie, a cura di G. Belloni, Venezia 2003; Il Saltuzza, a cura di L. D’Onghia, Padova 2006.
Per gli studi critici si vedano: V. Rossi, introduzione ad A. Calmo, Le lettere, a cura di V. Rossi, Torino 1888, pp. I-CLVI; L. Zorzi, Tradizione e innovazione nel ‘repertorio’ di Andrea Calmo, in Studi sul teatro veneto fra Rinascimento ed età barocca, a cura di M.T. Muraro, Firenze 1971, pp. 221-39; L. Zorzi, Calmo Andrea, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 16° vol., Roma 1973, ad vocem; G. Padoan, Momenti del Rinascimento veneto, Padova 1978; G. Padoan, La Commedia rinascimentale veneta, Vicenza 1982; J.-C. Zancarini, Andrea Calmo, auteur-acteur vénitien, in Culture et professions en Italie (XVIe-XVIIe siècles), éd. A.Ch. Fiorato, Paris 1989, pp. 43-66; P. Vescovo, Da Ruzante a Calmo, tra «Signore comedie» e «Onorandissime stampe», Padova 1996.