CENTANI (Centanni, Zantani, Zantanni, Zentani; erroneamente: Zantinus), Andrea
Proveniente da una ragguardevole famiglia patrizia veneziana, che nei Diari del Sanuto viene sempre indicata come Zantani (e sembra proprio essere questa la forma più corretta del cognome), nacque probabilmente nei primi anni del secolo XVI. Non sappiamo nulla della sua educazione religiosa e della sua formazione culturale, né siamo a conoscenza degli sbocchi professionali che gli aveva approntato la famiglia; sappiamo soltanto che nel decennio successivo al 1530 egli si trovava a Roma come funzionario nella segreteria del cardinale veneziano Marco Corner. In seguito alla resignatio di Paolo Borgasio al vescovado di Limassol (diocesi dell'isola di Cipro e suffraganea di Nicosia) il Corner lo propose per la successione rivolgendosi personalmente a Paolo III, che gli aveva promesso un posto nella gerarchia ecclesiastica per un suo "gentiluomo" quando se ne fosse reso vacante qualcuno.
Sembra però che il papa riuscisse a ottenere, in cambio del mantenimento dell'impegno preso, la consegna di Benvenuto Cellini - che gli era fuggito da Castel Sant'Angelo e aveva trovato ospitalità presso il Corner - malgrado la comprensibile riluttanza del cardinale veneziano alla trattativa. La fonte di questa informazione è il Cellini stesso, che nel primo libro della sua Vita racconta l'episodio dello scambio permettendoci in questo modo di conoscere che il C. (designato come "quel messer Andrea a cui toccava il vescovado") era in quel tempo un uomo di fiducia della corte romana del potente cardinale veneziano e che proprio tramite il Corner (che lo aveva ceduto al Borgasio nel 1516) ottenne il vescovado di Limassol, di cui venne effettivamente insignito il 14 luglio 1539.
Il 20 maggio 1540 il C. ebbe un breve di Paolo III, il quale lo autorizzava a prender possesso della sua diocesi cipriota benché non fossero ancora completate le formalità burocratiche per la stesura della regolare bolla di nomina. Il Paschini - che non ha trovato alcuna traccia documentaria di quanto tempo ancora restasse al seguito del cardinale Corner dopo la nomina a vescovo e che dubita anche fortemente sulla possibilità che abbia mai ricevuto gli ordini sacri - scrive che a Cipro il C. probabilmente non andò mai.
Il dubbio sul reale conferimento degli ordini sacri non pare abbia molta consistenza, precisando proprio l'Eubel che il vescovo di Limassol è registrato negli atti ecclesiastici ufficiali come "presbiter venetus". Quello sull'effettiva andata a Cipro ha invece una maggiore credibilità, se con questa formulasi vuole semplicemente significare: assenza permanente e definitiva dall'azione pastorale nella propria diocesi.
Ècerto infatti che - dopo il 1546 - il C. aveva una pressoché stabile residenza a Conegliano, dove si ritiene sia stato attivamente impegnato a curare i suoi interessi economici - ammesso che in questo territorio egli avesse in precedenza le sue proprietà e se fosse vero (e la cosa pare molto dubbia) che era stato insignito del locale priorato.
Infatti il documento allegato dagli studiosi per suffragare l'ipotesi (è una lettera del cardinale camerlengo Guido Ascanio Sforza scritta da Roma in data 12 dic. 1544) prova solo che il C. aveva ricevuto dalla S. Sede il compito di controllare se - in una richiesta di concessione di un terreno a livello perpetuo - andava effettivamente avvantaggiata la condizione economica della Chiesa e non venissero invece agevolati interessi privati. A rendere poi ancora più complicata la questione della sua residenza e attività a Conegliano prima del 1544 sta la notizia che egli aveva lasciato il suo servizio romano solo sei-sette anni prima del 1553. Quella che infatti è assolutamente certa è la stabilità della residenza a Conegliano a partire dalla seconda metà del 1546.
Dalle ricerche del Paschini emergeva una partecipazione piuttosto attiva e costante, o per lo meno regolare, alle sedute e alle discussioni del concilio di Trento: partecipazione che venne finanziata dando in affitto per due anni la mensa episcopale (la licenza è del 31 maggio 1546). Dagli studi dell'Alberigo - ben altrimenti articolati e documentati malgrado alcuni giudizi de fide frettolosi e tecnicamente inesatti - viene invece fuori una presenza personale estremamente limitata nel tempo (dalla metà di giugno alla metà di agosto del 1546 e appena qualche altra settimana tra il dicembre 1546 e il gennaio 1547) oltre che un intervento dottrinale scarsamente rilevante (il 15 giugno, quando parlò nella congregazione generale dedicata alla questione relativa ai lettori e predicatori della S. Scrittura; il 21 giugno e il 19 luglio, allorquando prese la parola sul tema che era posto all'ordine del giorno: "Super primo statu iustificationis" solo per dire che "conservatur per gratiam dei in iustitia iustus, per bona opera et orationes" e per concludere "quibus operibus consequitur gloriam aeternam").
Sempre secondo l'Alberigo, il C. aveva anche una collocazione precisa tra i vari gruppi presenti in concilio. Faceva infatti "parte di quei prelati che si rimettevano ad altri vescovi presenti scegliendo così una posizione ideologica". E questo si rileva facilmente dal suo "remisit se ad sacram synodum" del 9 luglio sulla questione della giustificazione e dal suo "consenso" del 3 genn. 1547 quando si parlò del problema della residenza dei vescovi. Come testimonianza ufficiale della sua partecipazione ai lavori del concilio vale l'attestazione di presenza rilasciatagli, ai fini dell'esenzione dal pagamento delle decime alla S. Sede, il 10 ag. 1546 (ma con la data del 20 luglio), da Angelo Massarelli, segrqtario generale dell'assemblea dei vescovi. A questa modesta partecipazione alla prima fase del concilio fa poi riscontro l'assenza permanente dalla seconda fase, quella bolognese.
La prima sintomatica (ma spesso sottovalutata) implicazione del C. nell'area del dissenso religioso si era già avuta nel 1542, quando Ambrogio Cavalli lasciò l'Ordine agostiniano e si pose materialmente sotto la sua protezione rifugiandosi a Cipro, dove fu nominato vicario della diocesi di Limassol e dove cominciò a predicare la parola divina nello "spirito" della riforma protestante. Quando poi il Cavalli venne fatto prigioniero per causa di religione e consegnato al S. Ufficio veneziano dell'Inquisizione, il C. organizzò la sua difesa ricorrendo direttamente a Girolamo Seripando contro l'intenzione del nunzio apostolico Giovanni Della Casa che aveva istruito il processo (i termini del quale sono: 22 genn. 1545 - 23 maggio 1545).
Secondo il Paschini (ma non tutti i biografi sono concordi, v. U. Rozzo, in Diz. Biogr. d. Ital., XXII, s.v. Cavalli, Ambrogio), proprio in seguito all'irrigidimento del protettore dell'Ordine agostiniano, che - non riammettendo il frate nell'Ordine come risulta dalle lettere del novembre e dicembre 1544 - non agevolava certo l'andamento del procedimento inquisitoriale, il C. preparò il piano per far fuggire il Cavalli dal carcere veneziano. In realtà dal documento che suffraga l'ipotesi non è in alcun modo possibile: inferire che le autorità politiche e religiose risalissero fino al Centani. Si può cavare soltanto (cfr. Campana) che la responsabilità personale dell'evasione ricadde unicamente sull'abate Centani, fratello del vescovo, "il quale è quello - scrive il nunzio - che mi fece torre frate Ambrogio da Milano, mentre io lo faceva condurre al luogo della abiuratione, et i signori capi lo bandirono perciò a tempo". Ed è proprio per questo motivo che l'episodio non lasciò traccia sulla "buona condotta" del C., dato che - come abbiamo visto - egli fu in grado di presentarsi personalmente alle sessioni del concilio di Trento partecipando ad alcune sedute senza mai incorrere in censure o provocare un provvedimento di inchiesta.
Sull'attività strettamente protestante - eventualmente anche di tipo radicale - svolta dal C. in Italia non abbiamo che qualche raro frammento di notizia. Lo Stella - che ne parla come di colui che favorì il movimento eterodosso tra Conegliano e Asolo a partire dalla crisi del 1548 - la colloca nel momento in cui "le diverse comunità anabattistiche già esistenti oppure proprio allora in via di formazione" cercavano di organizzarsi, anche "sulla base comune di una più razionale dottrina teologica", dopo la rapida dissoluzione dei gruppi filoprotestanti moderati. Di particolare importanza, ai fini di una migliore comprensione della "svolta" ideologica in senso radicale, è la scoperta della traccia dell'amicizia con il medico Girolamo Donzellino, di cui il C. frequentava la casa veneziana.
Le testimonianze raccolte ci permettono di dare qualche precisazione su quello che nei circoli radicali sottoposti al controllo inquisitoriale intorno al 1553 si sapeva intorno al Centani. Era noto che si era trasferito da Roma a Venezia all'incirca nel 1546-47 "per queste cose de religione" dopo essere stato al servizio romano del cardinale Durante (recte: Corner); che era stato "amico" di Ambrogio Cavalli "perseguitato e morto in Roma [ma fu bruciato solo nel 1556] per queste cose della religion"; che aveva frequentato la casa di sir E. Harvell, l'ambasciatore inglese residente a Venezia presso il quale lavorava come segretario uno dei massimi dirigenti del protestantesimo italiano, Baldassarre Altieri. Un altro importante collegamento ideologico è quello con il padovano Lucio Paolo Roselli, che tra i suoi scritti di propaganda protestante (l'inquisizione è del 22 giugno 1551) ne aveva pubblicato uno dedicato al Centani. Si tratta del Discorso di penitenza raccolto per messer Paolo Rosello da un ragionamento del reverendisismo cardinal [Gaspare] Contareno, stampato a Venezia nel 1549 senza indicazioni tipografiche, che porta infatti una dedicatio al Centani. Sembra molto corretta l'ipotesi del Perini che l'opuscolo - in considerazione dell'assenza del C. dalla fase bolognese del concilio - "fosse indirizzato a quegli elementi moderati presenti al concilio sui quali il ricordo del Contarini aveva ancora qualche suggestione".
L'attività di propaganda ereticale e di organizzazione riformata svolta dal C. a Conegliano non tardò a venire alla luce. Il modo in cui si svolse la repressione della sua azione negli anni Cinquanta è esemplare dell'intreccio tra politica e religione, tra potere delle grandi famiglie e sapere dell'Inquisizione romana in territorio veneziano. Il 20 luglio 1549 papa Paolo III, con un breve indirizzato al commissario dell'Inquisizione a Capodistria (Annibale Grisoni), dava incarico di estendere l'inchiesta sulla salute spirituale alla diocesi di Treviso e di procedere contro tutti coloro che erano sospettati di eresia nella citttà di Conegliano e dintorni facendo uso delle particolari facoltà concesse all'azione repressiva nel territorio istriano.
Il documento vaticano esibito dal Fontana è assai generico nella sua formulazione non facendo riferimento ad alcuna specifica dottrina eterodossa che venisse effettivamente divulgata a Conegliano né registrando alcun nome di propagatori o agitatori (o almeno di semplici sospetti) dell'eresia nei luoghi incriminati. La genericità del testo romano si spiega col fatto che essopredisponeva l'azione di controllo della situazione sulla base di una "notizia generale", cioè prima ancora che fosse giunta nelle mani del S. Ufficio l'informazione particolare redatta dalla nunziatura veneziana. Questa "informativa" infatti si trova solo nella lettera (pubblicata dal Campana) che il nunzio Della Casa scrisse al cardinale Paolo Farnese il 22 luglio. Egli denunciò il fatto che a Conegliano, secondo la rimostranza mossagli "in collegio" dal doge, praticavano un vescovo e un abate "i quali hanno contaminato di heresia la gioventù di quei luoghi" e espresse l'"opinione che si deputassi" il Grisoni stesso a fare un'inquisizione nella zona. Ma la volontà dogale e senatoriale - ben ferma a procedere nei confronti della diffusione dell'eresia in generale - si incrinò improvvisamente e cambiò di segno davanti alla constatazione che il vescovo di Limassol e suo fratello appartenevano alla famiglia patrizia veneziana dei Centani. Cosicché, nel novembre del 1549, la richiesta del nunzio "per avere il braccio secolare" a disposizione del commissario inquisitoriale il quale doveva trattare "nelle eresie" di Conegliano non venne nemmeno presa in considerazione. Anzi, stando alla documentazione raccolta dallo Stella, risulta che era stato proprio il C. in persona "a far insabbiare la denuncia e l'inchiesta" del S. Ufficio condotta contro quei "gioveni heretici" che a Conegliano facevano "pubblici circuli per le piazze ragionando insieme et senza rispetto" (la denuncia è del mese di giugno).
Con la morte poi di Paolo III e l'elezione di Giulio III al pontificato tutto sembrò tornato nella più assoluta normalità: il C. non venne più disturbato per un notevole numero di anni e poté anche continuare a svolgere regolarmente gli affari economici, connessi alla sua diocesi cipriota (cfr. il breve apostolico del 4 febbraio 1553, indirizzato al vescovo di Corono e all'arcidiacono di Limassol, segnalato dal Paschini). Quando però venne eletto papa Paolo IV (23 maggio 1555), che inaugurò un nuovo programma repressivo dell'eresia in Italia, anche la situazione personale del C. subì presto una radicale trasformazione e l'inchiesta nei suoi confronti cominciò probabilmente sulla base delle risultanze del processo al Cavalli (bruciato a Roma il 15 giugno 1556).
Attraverso una lettera inviata da Pietro Carnesecchi a Giulia Gonzaga con la data del 12 giugno 1557 risulta che il C. era stato, giusto in quel periodo di tempo, preso per conto dell'Inquisizione e che era stato tenuto vari mesi in prigione a Venezia a disposizione del S. Ufficio. Era infine stato messo in libertà provvisoria sotto cauzione con l'impegno di ricostituirsi prigioniero a ogni istanza del Tribunale: cosa che era appunto avvenuta nel giugno del 1557.
L'andamento del processo cui venne sottoposto ci è noto solo per sommi capi. Da due messaggi spediti al Senato della Repubblica dall'ambasciatore a Roma, Bernardo Navagero, il quale ammoniva a trattare "con destrezza" la cosa, risulta: che la questione era condotta personalmente da Michele Ghislieri, del quale veniva trasmesso un memoriale alle autorità veneziane probabilmente per sollecitare la pratica dell'estradizione stante la gravità del caso (18 genn. 1558); che la tesi della privatio era stata avanzata nel concistoro del 4 febbraio da Gian Michele Saraceni, il quale - come conferma l'Eubel - propose la "causa depositionis ab episcopatu propter haeresim". Malgrado la convinzione del Navagero che la "privatio" sarebbe stata fatta nel successivo concistoro, la questione slittò ulteriormente: bisognava infatti istruire formalmente il processo romano e disporre pienamente dell'imputato. È proprio in questo periodo di tempo (5 febbr. 1558-24 luglio 1559) che si deve essere realizzata la difficile pratica dell'estradizione del C. dal dominio veneziano nel territorio dello Stato ecclesiastico. Nell'agosto 1559, dopo essere stato tenuto "assai tempo" nelle prigioni romane di S. Onofrio, egli venne tradotto nelle galere dell'Inquisizione "sendo provati contra di lui cinque punti d'heresia" e il giorno 9 venne definitivamente "digradato et privato". Come si esprime l'Avviso di Roina del giorno 12 solo la condanna rimase "in petto" del pontefice: e fu la "perpetua carcere". Dopo la morte di Paolo IV, e l'elezione di Pio IV, la causa venne ripresa per rendere perfetta la sentenza emanata. Da altri due Avvisi di Roma sappiamo infatti che era stata preparata finalmente la "sentenza privatoria" (27 apr. 1560) e che essa venne "approbata et canonisata" nel concistoro del 29 maggio, cosicché si giunse rapidamente alla nomina del successore nella persona di Andrea Mocenico (1° giugno 1560). Questi avvenimenti sono confermati dai contemporanei messaggi del nuovo ambasciatore veneziano a Roma, Marco Antonio da Mula. Ma nessuno dei documenti segnalati fa mai riferimento al fatto clamoroso che si trattava ormai di una condanna emanata in contumacia. I tumulti popolari, che alla morte di Paolo IV avevano portato alla liberazione dei prigionieri del S. Ufficio e alla distruzione delle carte inquisitoriali, avevano infatti permesso anche al C. di fuggire da Roma e di allontanarsi non solo dallo Stato della Chiesa, ma anche dal territorio italiano, rifugiandosi in Svizzera. Sappiamo con certezza che nella primavera del 1561 il C. si trovava a Chiavenna, come esule per causa di religione. È quanto riferisce per primo il nunzio papale in Germania, Zaccaria Delfino, che - scrivendo da Schwarzach il 13 maggio 1561 al cardinale Carlo Borromeo per informarlo dell'incontro avuto a Strasburgo con Pietro Paolo Vergerio - accennava non solo alla presenza del C. nei Grigioni ma anche alla sua attività di controversista protestante.
Questa notizia apre la questione (allo stato attuale della ricerca erudita di assai difficile soluzione) degli scritti religiosi del Centani. La prima menzione che ne abbiamo è probabilmente quella contenuta nella confessione del Roselli, che nel 551 era in procinto di tradurre in italiano il testo francese dell'opera di Calvino e il libretto di un vescovo indicato solo come "gentiluomo venetiano" (ma si tratta di una indicazione ancora troppo vaga per poter parlare con qualche fondamento di una attività letteraria riformata negli anni in cui il C. operò nei gruppi del protestantesimo veneto). La seconda notizia è contenuta nel citato messaggio del Delfino al Borromeo: "Scrive contra sua santità e contra li cardinali, et particularmente venetiani, cose horrende" (ma si tratta di una informazione che non ha trovato finora alcun riscontro documentario tra le carte conservate negli archivi dei Grigioni). La terza notizia emerge dal prontuario di F.M. Haym, che segnala le seguenti opere scritte dal C.: Discorso breve sopra le sette pistole scritte a le sette chiese de l'Asia, per mano del suo amato e fidelissimo cancelliero Giovanni, ne le quali si vede esser adumbrato il vario stato de la chiesa dal principio della predication degli apostoli insino alla fine del mondo; Dei sette capi della bestia, della piaga mortale della bestia e della sua passata sanatione, e finalmente un risoluto giudizio contro il papato. Ambedue le "operette", che vennero pubblicate senza il luogo della stampa e prive del nome del tipografo nel 1560, sarebbero "un'empia declamazione contro la religione catolica". L'indicazione - rilevata dal Cicogna per contestarne giustamente l'attribuzione ad Antonio ("credo o di nome supposto o di altro" Centani) - ha un riscontro preciso sia nel manuale del Brunet che in quello del Graesse, che però videro materialmente solo il Discorso (un "petit volume rare" in 8º ridotto) in vendita presso un antiquario intorno al 1860. Sondaggi sui cataloghi del British Museum di Londra, della Bibliothèque Nationale di Parigi, della Biblioteca nazionale di Firenze non hanno dato alcun risultato. Da notare inoltre che nessuna delle due opere attribuite al C. appare negli indici dei libri proibiti emanati da Pio IV (1564), da Clemente VIII (1580), da Sisto V (1590) e pubblicati da H. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen 1886, (di cui cfr. anche Der Index der verbotener Bücher, I, Bonn 1883).
Non si è trovata finora traccia di una ulteriore attività religiosa del C. nel periodo dell'emigrazione e ci resta ancora sconosciuta la sua data di morte.
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