CHARVAZ, Andrea
Nato in Savoia a Hautecour (Tarantasia) il 25 dic. 1793, in una famiglia di agricoltori, da Marie-Etienne e da Marie Borlet, studiò dapprima nella scuola locale (1802-1808), poi nel regio ateneo di Moûtiers, quindi nel seminario di Chambéry, infine (1815-17) nel Collegio delle province a Torino. Laureato in teologia nell'università di Torino nel 1817, ordinato sacerdote nel 1818, insegnante di teologia morale e Sacre Scritture nel seminario di Chambéry (aveva rifiutato, dopo un soggiorno a Parigi, una cattedra di teologia alla Sorbona), fu vicario generale della diocesi di Chambéry, e, dal settembre 1825 al settembre 1833, precettore dei figli di Carlo Alberto di Savoia. Questo incarico gli permise stretti rapporti con le persone della corte e del governo torinese e, soprattutto, di conquistare la fiducia della famiglia reale, specie del futuro re Vittorio Emanuele II che gli manifestò sempre attaccamento. Alla fine dell'incarico fu fatto vescovo, com'era tradizione per gli ex precettori dei principi di Savoia, ed ebbe la diocesi di Pinerolo (consacrato il 9 marzo 1834).
In questa diocesi a confessione mista (circa 30.000 cattolici e 20.000 valdesi), il ministero dello Ch. coincise con un momento importante per le valli valdesi. Fornito di solida preparazione dottrinale, molto attivo e zelante, scrittore ed oratore di talento, pur nutrendo per i valdesi sentimenti di fraterna carità e mantenendo con alcuni di loro cordiali relazioni personali, lo Ch. fu di un'assoluta intransigenza nell'applicare le leggi restrittive dei loro diritti civili. E negli sforzi di convertire la minoranza riformata ebbe il costante appoggio di Carlo Alberto, di S. Pellico, e della marchesa Giulia di Barolo. Il suo rigido atteggiamento verso i valdesi (verso gli ebrei, era ancora più rigido), ispirato a una concezione dogmatica integralista e conservatrice, contribuì però all'opposto ad attirare su di essi l'attenzione dell'opinione liberale sia laica sia cattolica, a mobilitare in loro favore le simpatie del protestantesimo europeo: in definitiva, non volendo, facilitò la loro emancipazione del 17 febbr. 1848.
Se sul terreno storico aveva intrapreso a confutare la tesi della successione apostolica dei valdesi (Recherches historiques sur l'origine des Vaudois et sur le caractère de leurs doctrines primitives, Paris 1836), dispiegò anche un ardente proselitismo per combatterne le dottrine, sia nelle numerose pastorali sia nella sua Guide du catéchumène vaudois ou cours d'introductions destinés à lui faire comprendre la vérité de la religion catholique (5voll., Paris 1840-50; cfr. dello Ch. anche Guida del catecumeno Valdese,ossia difesa del cattolicesimo contro gli errori dei protestanti, 2 voll., Torino 1857).
Lo Ch. moltiplicò le visite pastorali, insediò nella diocesi congregazioni religiose e missionarie, aprì centri per accogliere i convertiti - che furono poi ben pochi -, restaurò e costruì santuari come la chiesa grande e il priorato dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, a Torre Pellice.
Consigliere del re nel 1844, consigliere di Stato straordinario nel 1847, in seguito al regio editto sulla stampa (26 marzo 1848) si dimise da vescovo (9 maggio) per protesta contro l'abolizione della censura ecclesiastica e contro l'introduzione, per gli scritti degli ecclesiastici di argomento non religioso, della approvazione da parte dell'autorità civile. Poco prima era stato sconfitto, come candidato cattolico-conservatore nel collegio di Moûtiers, nelle elezioni del 27 apr. 1848. Insignito di pensione dal governo, nominato arcivescovo di Sebaste in partibus infidelium (3 luglio 1848) e ministro di Stato, lo Ch. visse appartato fino all'elevazione al seggio arcivescovile di Genova (27 sett. 1852), accettato per le insistenze del re.
In questa difficile diocesi, lacerata tra fazioni rivali di un clero particolarmente indocile, fu dapprima impegnato ad affermare la propria autorità; dovette così lottare contro periodici intrighi orditigli contro in Vaticano da gruppi conservatori, e fronteggiare l'opposizione di parte dell'aristocrazia e l'ostilità dichiarata del card. U. Spinola. Seppe, nell'insieme, curare l'amministrazione diocesana assai trascurata dai predecessori, le visite pastorali, la formazione del clero, la partecipazione agli affari politici e religiosi del regno.
Per ciò che riguarda più strettamente la dottrina, lo Ch. proseguì la repressione del proselitismo protestante: nel giugno 1853 faceva fallire il progetto di trasformare in tempio evangelico l'ex chiesa cittadina della Madre di Dio. Con motivazioni di stretto legalismo, riteneva che l'emancipazione civile e politica degli ebrei e dei protestanti non avesse cambiato né i modi d'esercizio dei loro culti né il divieto alla loro propaganda religiosa. Per ciò che invece riguarda più ampiamente la politica, la sua importanza venne crescendo a partire dal 1852. Molto ben introdotto e assai ascoltato per le suo estese relazioni nell'alta società e fra il personale di governo, investito dell'affettuosa fiducia sovrana, consultato frequentemente dai confratelli e fungendo da collegamento tra l'episcopato francese, piemontese e savoiardo, da parte di Pio IX e del cardinale G. Antonelli, lo si riteneva un possibile intermediario nei rapporti tra S. Sede e Stati sardi. E d'altra parte i vescovi del regno, soprattutto quelli della Savoia, si rendevano conto che lo Ch. usava la sua influenza presso il re per difendere le prerogative del clero e opporsi alla laicizzazione dello Stato.
Il primo intervento politico dello Ch. risale a quello scontro sulla legislazione ecclesiastica piemontese che portò alle leggi Siccardi (1850): in forma del tutto privata egli era stato incaricato da Roma di pressioni dirette sul re, fallite per la fermezza del ministro. Ora l'intervento dello Ch. fu in senso spiccatamente anticavouriano, in occasione della crisi di gabinetto del 1852.
Il re gli aveva affidato la ricerca di possibili accomodamenti con Roma, mettendogli a disposizione i servizi di M. Bertone di Sambuy, plenipotenziario presso la S. Sede. Dopo la ricusazione sovrana del progetto di legge sul matrimonio civile, condannato formalmente dal papa, e le dimissioni del 22 ottobre di M. d'Azeglio, il 24 il re aveva convocato il Cavour, pur pensando che un ministero di destra, retto da O. Thaon di Revel, fosse più idoneo a risolvere le difficoltà col Vaticano. Avendo però il Cavour rifiutato d'accettare come condizione alla designazione il ritiro della legge sul matrimonio civile, il re lo indirizzò allo Ch. e al Sambuy per informarsi dello stato dei rapporti con Roma. Durante l'incontro, il 15, lo Ch. indicò chiaramente che un gabinetto costituito dal Balbo avrebbe incontrato il favore del Vaticano. La soluzione Balbo, o Balbo-Revel (cui lo Ch. dette una mano interpellando per il portafogli dell'Interno G. L. Mercier, intendente generale della Savoia), sfumò per le reticenze del Revel e le limitatissime probabilità d'investitura parlamentare. E il 2 novembre il Cavour ricevette l'incarico.
Benché il Cavour abbia poi scritto dello Ch. "esser egli stato l'autore della crisi del 1852" i rapporti tra i due migliorarono, in un clima di benevolenza e reciproca fiducia. Se il Cavour ne apprezzò la moderazione, il senso della misura, il rispetto delle istituzioni, da parte sua lo Ch. si rese conto che, nella particolare situazione del tempo e dell'Italia, questi era l'unico uomo di Stato capace di risolvere i conflitti tra Roma e Torino.
Ritenuto genericamente un gretto conservatore, per l'intransigenza dottrinale, l'opposizione ai protestanti e l'atteggiamento nella crisi del 1852, da parte dei vescovi confratelli lo Ch. fu invece accusato di lassismo e subordinazione ai voleri della corte e del governo. In realtà il suo comportamento fu più complesso, e determinati motivi ne spiegano la apparente contraddittorietà.
Le origini savoiarde lo legavano affettivamente e saldamente alla dinastia, e nello stesso tempo era ostile ad ogni forma di gallicanismo, e assolutamente intransigente e inflessibile in materia di dogma e d'ortodossia. Ma si preoccupava anche di curare un modus vivendi tra Chiesa e Stato, e in questo senso si collegava alle preoccupazioni del Cavour. Conscio ormai che la vita contemporanea richiedeva certi adattamenti, che la società era incamminata verso il liberalismo, egli scindeva lo spirituale dal temporale, e nella prassi politica parteggiava per la moderazione e la conciliazione. Questa mentalità pragmatica, che l'accostava al Cavour, spiega come, pur senza diventare l'intermediario privilegiato della questione romana, vi abbia avuto una parte non trascurabile, accostandosi alle idee del padre C. Passaglia e non mostrando un incondizionato attaccamento al potere temporale di Pio IX.
Sincero patriota, in politica interna aveva accettato lealmente il regime costituzionale e il governo rappresentativo, pur avendo forti prevenzioni contro U. Rattazzi e l'entourage del Cavour. In politica estera condivideva i sentimenti dei compatrioti savoiardi e della Destra piemontese verso la questione italiana. Criticava cioè l'Inghilterra, e in una certa misura la Francia, perché a partire dal congresso di Parigi (1856) avevano coltivato "les folles illusions de l'Italie", sviando Cavour e Piemonte dal prioritario obiettivo di una riconciliazione col Papato.
Senza chiasso né polemiche, con discrezione, lo Ch. collaborò a soluzioni distensive col Cavour tutte le volte che le basi dogmatiche del cattolicesimo non fossero in causa. La sua moderazione non lo fece in genere associare alle proteste collettive dei vescovi del regno, preferendo rivolgersi per conto suo ai fedeli con lettere pastorali; pur senza abbandonare apertamente la solidarietà con l'assemblea del clero che aveva manifestato contro la soppressione delle comunità religiose, lo Ch. si adoperò per sdrammatizzare la crisi.
Durante il soggiorno a Roma per i preparativi del dogma dell'Immacolata, proclamato nel 1854, lo Ch. era stato incaricato dal re, insieme con F. M. Vibert, vescovo di Saint-Jean de Maurienne, e con L. Rendu, vescovo di Annecy, di sondare le intenzioni vaticane circa la legge sui conventi. Il sovrano si persuase dell'acquiescenza dello Ch. al progetto governativo, se dichiarò che "Mg. Charvaz était au courant de tout et avait tout approuvé". I prelati interessati scrissero lettere di protesta. Lo Ch. però, incaricato il 3 marzo 1855 di commemorare la morte (20 gennaio) della regina Maria Adelaide, non s'associò ai reazionari clericali che vedevano la divina punizione nei lutti di casa reale (erano morti anche la regina madre, Maria Teresa, il 12 gennaio, e Ferdinando duca di Genova, il 10 febbraio).
Dopo la cosiddetta crisi Calabiana lavorò con discrezione ed efficacia a riaccostare Roma e Torino, senza mettersi mai in luce, preferendo agire sui confratelli, e continuando una regolare corrispondenza col Cavour. Negli anni difficili della vita politica piemontese, dal 1855 al 1858, fu uno dei pochissimi vescovi ad avere rapporti costruttivi col governo.
Nell'aprile 1857 redasse una memoria contro quel progetto di legge per le fabbriche ecclesiastiche, presentato al Senato, che in pratica esautorava il clero dall'amministrazione dei beni, ma rifiutò di presentare il controprogetto dell'episcopato al Cavour, che del resto lo scartò. A questo raccomandò il padre A. Theiner, prefetto degli Archivi vaticani e sostenitore di un accordo sulla questione romana (giugno 1857), e s'adoperò perché i cattolici dei principati romeni ottenessero la libertà di culto dal sultano. In occasione delle elezioni del novembre 1857 evitò di inasprire i rapporti col potere civile, indirizzando ai diocesani una pastorale scevra di polemica, che raccomandava di compiere il loro dovere civico. Con lo stesso animo trattò col Cavour la spinosa nomina del vescovo di Nizza, facendo trionfare l'abate Sola, curato di Vigone, contro l'abate ginevrino G. Mermillod sostenuto dalla Destra, e l'abate Vachetta, economo generale dei beni ecclesiastici di Torino, favorito dal Cavour stesso. La fiducia di questo si tradusse nell'offerta, declinata, d'assumere oltre a Genova la diocesi di Asti (novembre 1857). Lo Ch. premette sul re per dissuaderlo dal matrimonio con Rosa Vercellana, osteggiato anche dal Cavour, e quando questi fece fallire il progetto lo felicitò come "d'un grand service rendu au pays" (14 febbr. 1859).
Pur preoccupandosi per l'impegno del Piemonte nella questione italiana, appoggiò la guerra del 1859 con una patriottica pastorale, e ordinando preghiere per la vittoria, il che gli valse i complimenti del Cavour. Per l'annessione delle Legazioni e dell'Italia centrale evitò ancora una volta scontri frontali tra clero e governo. Al momento della prima missione dell'abate V. E. Stellardi riguardante le Romagne diffidò il re dallo spogliare parte degli Stati della Chiesa, anche se con compensi materiali (15-16 ott. 1859); nello stesso tempo però reiterò gesti di distensione.
Raccomandò infatti di dare poca pubblicità all'enciclica di protesta Nullis certe di Pio IX (16 febbr. 1860); intervenne perché non si invitasse il clero alle manifestazioni per l'annessione delle Romagne e dell'Italia centrale; consigliò di non dar rilievo alla scomunica di Vittorio Emanuele II, per evitare urti e divisioni (31 maggio 1860). S'oppose decisamente alla tendenza del basso clero a partecipare alle sottoscrizioni e petizioni patriottiche per Garibaldi; ritenne che i militari piemontesi non fossero obbligati in coscienza a rifiutarsi di occupare i territori pontifici. Nel maggio 1860 intervenne presso Cavour per far liberare il vicario generale di Bologna, imprigionato per non aver celebrato un Te Deum per la festa dello statuto.
Ceduta la Savoia alla Francia, optò per la nazionalità italiana, il 27 apr. 1861. Intanto però la sua salute s'era deteriorata. Aveva così presentato le dimissioni, accordate l'8 luglio 1860 dal governo, ma rifiutate nell'interesse della Chiesa dal papa e dal card. Antonelli per non perdere i servigi d'un prelato ben accetto alla corte di Torino. Appoggiò la missione del padre Passaglia, le cui idee sulla questione romana condivideva, e lo ricevette su richiesta del Cavour. In proposito scriveva a questo il 14 febbr. 1861: "S'il m'est donnè de pouvoir le faire, je ne refuserais pas mon faible concours, dès que vous le jugerez utile. Un arrangement et si désirable et il serait si avantageux sous tout rapport".
Proclamato il Regno d'Italia (17 marzo 1861), lo Ch. contribuì ad applicare il principio della separazione dello spirituale dal temporale, appoggiando la legge del 5 maggio 1861, che lasciava al clero facoltà di partecipare alle cerimonie patriottiche ufficiali. Di contro a una circolare Minghetti che faceva pressioni sugli ecclesiastici, e alle reticenze di alcuni confratelli che volevano una netta opposizione, fece prevalere l'empirica e neutrale soluzione dei non partecipare né rifiutare, sì da evitare le suscettibilità di Roma e di Torino.
La morte di Cavour (6 giugno 1861) lo colpì "de stupeur et de désolation". Ormai il peso negli affari pubblici dello Ch., che aveva rifiutato un seggio di senatore, andava declinando. Si dedicò alla predicazione e all'amministrazione della diocesi, continuando a godere del favore della famiglia reale, di cui celebrava i matrimoni e i battesimi, e che gli conferiva l'Ordine della SS. Annunziata (3 ott. 1862) e il gran cordone della Corona d'Italia (3 maggio 1868). Usò della sua influenza, che non era più quella dei tempi di Cavour, per combattere il progetto di soppressione delle congregazioni religiose (associandosi alla Rimostranza presentata al re dai vescovi delle Province di Torino e Genova il 19 nov. 1864) e quello sul metrimonio civile. Approvò l'enciclica Quanta cura e il Syllabus; poi in seguito a nuove accuse di eccessivo liberalismo ripresentò le dimissioni. Fu interpellato per la sede arcivescovile di Torino, ma il progetto sfumò per la difficile successione a Genova. Dopo lunghe trattative fu nominato a Genova coadiutore il canonico S. Magnasco (21 maggio 1868), e le dimissioni dello Ch. furono registrate il 7 ag. 1869. L'ultima pastorale (1º giugno 1868) era stata di protesta contro l'obbligo del servizio militare per gli ecclesiastici.
Ritiratosi in Savoia, lo Ch., la cui salute si era aggravata dopo il 1865, morì il 18 ott. 1870 a Mont Saint-Michel presso Moûtiers. A cura del can. E. Jorioz ne furono raccolte le Oeuvres pastorales et oratoires in 4 voll. (Paris 1880).
Fonti e Bibl.: E. Jorioz, Notizia biogr. intorno a S. E. mons. A. Ch., Asti 1871; A. Campanella, Lettera al rev. sig. canonico E. Jorioz, e Lettera seconda al reverendissimo sig. canonico E. Jorioz, Genova 1871; P. Tacchini, Sopra i docum. inseriti nella notizia biogr. volgarizzata di mons. A. Ch., Genova 1872; J. Borrel, Vie de Mgr Ch., précepteur de Victor-Emmanuel II,archevêque de Gênes, Chambéry 1909; P. Guichonnet, Les archives de monseigneur A. Ch., précepteur de Victor-Emmanuel II,et leur intérêt pour l'histoire du Risorgimento, in Rass. stor. del Risorg., XLI (1954), pp. 385-390; Id., Une version nouvelle de la formation du premier ministère Cavour,ibid., XLIII (1956), pp. 339-45; P. Guichonnet-W. Maturi, Due conversaz. tra Vittorio Emanuele II e monsignor Ch. sulla prima missione Stellardi riguardante le Romagne(16-18 ottobre 1859), in Rivista stor ital., LXIV(1962), pp. 232-236; M. Hudry, Correspond. de Manfredo Bertone,comte de Sambuy,ministre plénipotentiaire du gouvernement sarde auprès du Sain-Siège(nov. 1851-nov. 1852)à monseigneur A. Ch., in Chiesa e Stato nell'Ottocento. Miscell. in onore di P. Pirri, Padova 1962, I, pp. 327-54; Id., Cavour et Ch. (1852-1861), in Miscell. cavouriana, Torino 1964, pp. 127-204; L. M.De Bernardis, Mons. A. Ch. e il giurisdizion. sabaudo, in Annali della Fac. di scienze pol. dell'Univ. di Genova, I(1973), pp. 87-104; A. Armand-Hugon, Storia dei valdesi, Torino 1974, pp. 286-295; A. M. Ghisalberti, M. e R. d'Azeglio per l'emancipaz. degli israeliti in Piemonte, in Studi in on. di P. A. D'Avack, Milano 1976, II, pp. 581-624; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari 1977, II, 2, pp. 632 ss.; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica…, VII, Patavii 1968, p. 307.