CORNER, Andrea
Nacque a Venezia il 18 dic. 1511, primogenito del futuro procuratore Giacomo e della ricchissima Marina Morosini di Orsatto.
Dei tre rami in cui era divisa la famiglia, il padre apparteneva a quello che risiedeva nel palazzo a S. Maurizio, sul Canal Grande, ed era figlio del cavaliere e procuratore Giorgio, fratello della regina di Cipro, Caterina. Le aderenze, il prestigio, le ricchezze di cui godevano i genitori decisero ben presto il futuro del Corner. Superata la crisi seguita alla sconfitta di Agnadello, recuperate le proprietà in Terraferma, la famiglia riuscì infatti ad imporre tra il patriziato lagunare un suo peculiare ruolo di adesione costante alla causa della religione e della S. Sede: sette cardinali ebbero infatti i Corner, nel corso di un secolo e mezzo, ai quali va aggiunto un numero ancor più elevato di vescovi, arcivescovi, abati. Nell'ambito di questa successione di dignità ecclesiastiche va dunque inquadrata la figura del C. che, nonostante l'età giovanile in cui venne a morte, ne rappresenta uno dei primi e fondamentali anelli di congiunzione.
In questo senso, nel quadro di una predeterminata carriera ecclesiastica, si muovono le scarse indicazioni che le fonti ci forniscono riguardo alla sua giovinezza: a soli dodici anni, il 26 luglio 1524, il C. entrava formalmente in possesso dell'abbazia di S. Zeno di Verona (del cui titolo peraltro era già stato investito da tempo), in seguito alla morte dello zio paterno, il cardinale Marco, vescovo di Padova e abate, oltre che di S. Zeno, di Carrara (Padova) e Vidor (Treviso).
Ben poco sappiamo ancora dei primi anni del C., che dovettero essere in buona parte dedicati agli studi di diritto e umanità (il Cappellari lo dice "uomo di profonda letteratura e versatissimo nella facoltà poetica"), mentre non trova conferma la notizia, riportata dal Moroni, secondo cui fu anche chierico della Camera apostolica.
Si tratta probabilmente di errore per l'omonimia con uno zio paterno (post 1482-post 1563), arcivescovo di Spalato dal 1515, che anche il Pastor e l'Eubel confondono con il C., attribuendo erroneamente a quest'ultimo anche la diocesi di Spalato.
Il C., invece, fu vescovo di Brescia. Ricevette il possesso della ricca diocesi il 13 marzo 1532 dallo zio cardinale Francesco, che ne era amministratore, ma con numerose restrizioni: dovette infatti impegnarsi a riservare metà delle entrate al cardinale Grimani e, dell'altra metà, a consegnare ai nipoti ex fratribus Marco e Giorgio altri 1.400 ducati. A Brescia, peraltro, il C. non risiedette mai: rimase a Venezia, ad aiutare la famiglia nella ricostruzione del palazzo sul Canal Grande, distrutto da un incendio, ad appoggiare la carriera politica del padre, che cinque anni dopo (1537) acquistava per 16.000 ducati il titolo di procuratore, posto in vendita dalla Repubblica nelle emergenze della guerra contro il Turco, e a coltivare, con i prediletti studi, l'amicizia dei letterati, documentata in particolare tra la fine degli anni '30 e l'inizio dei '40.
Lodato dall'Aretino, ossequiato dal Giovio, nel '41 riceveva la dedica di un commento del Petrarca, stampato a Venezia per cura del lucchese Bernardino Daniello, ma in gran parte merito del patrizio ed erudito Trifone Gabriel, acuto e vivace interlocutore di Pietro Bembo. Di questo fervore intellettuale restavano manoscritti, secondo la testimonianza dello Zeno, nove libri di epistole (due in volgare e sette in latino) e due opere più particolarmente attinenti all'attività pastorale, il De statu praelatorum e il De residentia episcoporum.
Venuto a morte il cardinale Francesco nel novembre 1541, il C. subentrò a pieno titolo nella diocesi bresciana; un anno più tardi, il 16 dic. 1544, Paolo III lo elevava alla dignità cardinalizia col diaconato di S. Teodoro. Era il terzo esponente della famiglia a conseguire l'alta carica, e la sua azione si uniformò alle direttrici tracciate dai predecessori, concentrando ogni sforzo nel conciliare la politica della Repubblica con quella del pontefice e, soprattutto, dell'imperatore.
Il momento era assai delicato giacché, con l'aprirsi del concilio tridentino, speranze di pace e riconciliazione si alternavano con improvvisi irrigidimenti e velleità di sopraffazione, mentre si faceva più aspra la tensione tra Carlo V ed il papa. Assume dunque particolare valore il fatto che l'opera del C. sia ampiamente documentata nei dispacci intercorsi tra i nunzi in Germania e la Segreteria di Stato nel corso dei cruciali anni '46-'48: così, il 24 luglio 1547, l'ambasciatore imperiale presso la S. Sede, Hurtado de Mendoza, poteva tranquillizzare il suo sovrano circa le intenzioni dei Veneziani, riguardo ai contrasti che lo opponevano ai principi tedeschi, sulla scorta delle assicurazioni del C., e qualche mese più tardi, in ottobre, confermare allo stesso che, nel concistoro dedicato alla situazione creatasi per Piacenza dopo la scomparsa di Pier Luigi Farnese, il veneziano si era espresso "mostrando en sus palabras particular officio a Su Magestad". La completa dedizione del C. alla causa imperiale è motivo ricorrente nei dispacci del Mendoza, che mostra di tener in gran conto le informazioni, provenienti da Venezia, che questi gli forniva, del resto rivelatesi sempre attendibili, come a proposito della lega antimperiale sollecitata dal pontefice nel novembre 1547.
Naturalmente a Venezia non mancò chi trovò da ridire sul robusto carteggio che intercorreva tra i familiari del C. e la Curia: nell'aprile 1550, infatti, il Consiglio dei dieci imprigionava il fratello del cardinale, Giorgio, "per suspetto - così riferiva il nunzio Beccadelli - di certe lettere che dicono essersi ritrovate in cifra al detto Rev.mo". Un mese durò la detenzione di Giorgio, tra la costernazione del fratello ed il disappunto dello stesso pontefice Giulio III, che del cardinale apprezzava i servigi presenti e passati (dei quali ultimi aveva goduto nel corso del conclave che lo aveva portato sul soglio di Pietro): poi le aderenze della famiglia e le pressioni politiche riuscirono a rimuovere ogni accusa.
Maggiori afflizioni provennero invece al C. dalla sua diocesi bresciana, cui certo la cronica assenza del pastore non aveva recato giovamento: la città ed il territorio erano infatti diventati un pericoloso focolaio di eresie, che avevano trovato adepti persino tra gli esponenti della nobiltà, mentre a nulla erano giovati gli editti emanati dai suffraganei del C., il vescovo di Milo Gian Pietro Ferretti e poi quello di Arbe, Vincenzo Negusanti. La situazione, anzi, era andata a tal punto aggravandosi, che nell'agosto 1550 i deputati sopra l'Eresia avevano convocato in Collegio il Beccadelli per risolvere la questione: ad essere posto sotto accusa era, implicitamente, l'operato del C., che il nunzio cercò in tutti i modi di difendere, osservando ch'egli non mancava di "ogni diligentia per trovare un buon suffraganeo", e valenti predicatori. Tale azione non riuscì peraltro a concretizzarsi, perché il C. moriva a Roma di lì a poco, il 30 genn. 1551.
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