CORNER, Andrea
Nacque a Venezia il 19 marzo 1686, quarto dei sette figli di Francesco di Nicolò e di Lucrezia Dolfin di Daniele.
La famiglia, che costituiva il ramo di S. Maurizio della "Ca' granda" Cornara, era certamente tra le più illustri e prestigiose dell'intero patriziato, sia per gli uffici e le cariche ricoperte dai suoi membri, sia per l'entità delle ricchezze accumulate: procuratori di S. Marco, la massima dignità della Repubblica dopo il dogado, furono il nonno, il padre e il fratello Nicolò, il primo, tra l'altro, inviato ambasciatore straordinario all'imperatore Leopoldo, il secondo ai papi Alessandro VIII e Clemente XI. Quanto al patrimonio della famiglia, la "condizione" presentata da Francesco Corner per la redecima del 1711 elencava circa centodieci tra case e botteghe a Venezia, cui se ne aggiungevano altre numerose in Terraferma, soprattutto a Padova e ad Asolo, e una trentina di possessioni, per un'estensione complessiva di più di 1500 "campi", sparse nel Padovano, Trevigiano, Polesine, Dogado; la rendita netta complessiva veniva calcolata in 16.901 ducati annui.
Nel 1711, non appena raggiunta l'età minima richiesta dalla legge, il C. venne eletto capitano di Vicenza, un incarico di particolare responsabilità, solo eccezionalmente affidato ad un giovane senza previe esperienze di governo; non dovette però restarne troppo lusingato, dato che rifiutò di partire, come del resto fecero gli altri quindici eletti dopo di lui, al punto che il Maggior Consiglio riuscì a trovare qualcuno disposto ad accollarsene l'onere solo nell'ottobre del 1713: esempio clamoroso dello scarso favore con cui i giovani patrizi che miravano a raggiungere i vertici dell'amministrazione guardavano ormai ai gravosi reggimenti di Terraferma, preferendo di gran lunga costruire i loro cursus honorum sulla comoda trafila delle magistrature cittadine, seguita dalle dispendiose ma tanto più prestigiose missioni diplomatiche.
Lo stesso C. ebbe presto altre occasioni di manifestare la pertinacia di questa inclinazione, evitando tanto la podesteria di Brescia che quella di Padova, cui era stato eletto rispettivamente il 6 giugno ed il 5 dic. 1717. Iniziò invece il suo servizio pubblico come camerlengo di Comun, dal febbraio 1715 al maggio 1716. Entrò poi subito negli organi centrali di governo, nel 1715-16 come savio agli Ordini e quindi, nel secondo semestre del '16, come savio di Terraferma, carica in cui venne poi riconfermato sistematicamente, rispettate le necessarie contumacie, fino al 1719, con l'ulteriore responsabilità, negli ultimi due anni, di cassiere del Collegio. Contemporaneamente venne eletto ad una nutrita serie di uffici collaterali: fu infatti avvocato per le Corti nel 1717, provveditore ai Beni inculti nel 1717-19, provveditore al Cottimo di Alessandria nel 1718-19, revisore e regolatore dei Dazi nel 1719; finalmente, il 6 settembre di quell'anno ottenne il suo primo incarico diplomatico come ambasciatore presso la corte pontificia.
Giunse a Roma nell'aprile del 1720, in un momento in cui agli antichi motivi di amarezza - come lo stallo della lotta antigiansenista e le irrisolte contese giurisdizionali e beneficiarie coi Savoia - nuovi elementi di tensione e di frustrazione concorrevano ad oscurare la fine del lungo pontificato di Clemente XI: gli strascichi delle vicende alberoniane, con la precipitosa quanto poco dignitosa marcia indietro nei confronti della Spagna, dopo che questa aveva replicato alla soppressione della bolla "della Crociata" con la chiusura della Dataria, "che vuol dire - annotava perplesso il C. - a troncare il corso ad un fiume d'oro" per le casse pontificie; l'inanità degli sforzi del nipote Alessandro Albani a Vienna per la restituzione di Comacchio, quando invece era risultata vana l'opposizione del papa alla nomina cardinalizia del Cienfuegos, pretesa da Carlo VI; l'ambizione parimenti frustrata di essere ammesso quale mediatore al progettato - e mai attuato - congresso di Cambrai per la definizione dell'assetto politico d'Europa. La linea moderatamente filoimperiale adottata con pragmatico realismo da Innocenzo XIII, particolarmente nella vertenza per l'investitura del Regno di Napoli, aveva contribuito ad avviare a soluzione talune di queste questioni, senza peraltro riuscire a sollevare granché il prestigio politico del Papato. Era pertanto chiaramente artificioso rivendicare - come faceva il C. nella sua relazione al Senato - una posizione di centralità politica alla S. Sede, dove avrebbero dovuto convergere le fila dell'ordito diplomatico europeo: né i suoi dispacci ne recavano tracce di rilievo, occupati semmai a render conto delle vicende della bassa politica cardinalizia. Vero era piuttosto che, data la sua composizione sovranazionale, la corte romana in certo qual modo rifletteva il rilievo politico dei singoli Stati; ma qui il C. non poteva che prender atto con rammarico della marginalità cui era relegata la Repubblica, emblematicamente evidenziata dal fatto che i veneti aspiranti a conseguire prebende erano costretti a rivolgersi chi all'uno chi all'altro protettore straniero, con grave imbarazzo e discredito per l'ambasciatore stesso; e questi non nascondeva il suo sconforto al Senato, ricordando come a Roma "il vantaggio e la gloria della Patria gli avevano "spesso eccitati ramarico ed impatienza".
Ciononostante, sul piano dei rapporti diretti con la S. Sede, l'esito della missione del C. poteva considerarsi sostanzialmente positivo: con contegno fermo e risoluto, aveva contribuito a risolvere in favore del veneziano Barbarigo una nomina cardinalizia per la quale le altre potenze avevano esercitato forti pressioni su Clemente XI; con Innocenzo XIII aveva saputo sollecitare efficacemente il concorso nelle spese per la fortificazione di Corfù, ed aveva anche ottenuto vantaggiose convenzioni per l'esportazione di cereali dallo Stato della Chiesa, oppresso peraltro da una persistente sovraproduzione; infine non erano risultate inutili le sue decise proteste contro la progettata immissione nel Po delle acque del Reno, anche se proprio in riferimento a questo rilevantissimo negoziato egli doveva rimpiangere la mancanza in Roma di un effettivo gruppo di pressione filoveneto, laddove le altre potenze potevano appoggiare i propri interessi ad una più efficace pluralità di voci.
Il C. fece ritorno a Venezia nell'estate del 1723, ma solo il 20 luglio 1724 presentò la sua relazione al Senato, limitandosi a fornire un resoconto piuttosto piatto delle principali vicende che avevano interessato il Papato negli ultimi anni, e a delineare due ritratti sin troppo lusinghieri dei papi Albani e Conti; quanto allo Stato della Chiesa, gli bastava genericamente notare, con un compiacimento forse fuori luogo in un veneziano, che per le sue condizioni geografiche, economiche e demografiche esso "sarebbe un fiume da mettere in apprensione i vicini, se le sue acque si facessero andare unite, e non si lasciassero diramare in tante piccole diversioni, ch'il letto principale resta poco meno ch'asciutto, e non dà occasione di temere delle sue forze a veruno".
Insignito del titolo di cavaliere di S. Marco, il C. non tardò a riprendere il suo posto nei massimi organi di governo della Repubblica, dapprima come savio di Terraferma, quindi come savio del Consiglio e contemporaneamente come cassiere del Collegio. Ma già nel settembre 1724 la rinuncia di Francesco Grimani gli offriva l'opportunità di coronare la sua carriera diplomatica con la prestigiosa ambasceria di Vienna.
Prolungatasi dal giugno 1725 sino al maggio 1728, la missione del C. coincise con l'intero svolgimento della crisi che allora divise pericolosamente l'Europa, con l'Impero, la Spagna, la Russia schierate da una parte, e l'Inghilterra, la Francia e gli altri alleati hannoveriani dall'altra. Arrivato a Vienna proprio mentre si pubblicavano gli accordi politici e commerciali tra Carlo VI e Filippo V, che impressero alla crisi una forte accelerazione, il C. poté seguire da un osservatorio privilegiato il complesso evolversi della situazione politica, e benché propenso a privilegiare il peso delle ragioni dinastiche e diplomatiche rispetto agli interessi economici e commerciali in gioco, riuscì a dar conto efficacemente del progressivo ramificarsi e generalizzarsi di alleanze e di "gelosie", quasi per opera di un perverso meccanismo moltiplicatore che nessuno sembrava più in grado di arrestare, registrando il continuo acuirsi della tensione fino a rasentare una nuova guerra, evitata solo - sosteneva il C. con involontaria ironia - "per la mancanza d'essenziali mottivi e forti raggioni" per farla; l'improvviso ricorso alle soluzioni negoziali lo coglieva poi del tutto di sorpresa, costringendolo a confessare che gli risultavano talmente "confusi gl'oggetti più importanti" delle convulse trattative, da non potere "senza azardo... raguagliare l'ecc.mo Senato" su di esse.
Quanto al contegno di Venezia, la Repubblica si discostava dalla più rigorosa estraneità solo per assicurare Carlo VI di un impegno e di una vigilanza assidui sul versante orientale, pronta ad unire le sue truppe a quelle imperiali - il cui riarmo vedeva con favore - in caso di attacco ottomano: una disponibilità peraltro poco impegnativa tanto sul piano pratico, essendo i Turchi totalmente presi dalla guerra contro la Persia, quanto su quello politico più generale. Ben più difficile doveva risultare invece, nei rapporti con l'Impero, il compito del C. di "coltivare la buona armonia e far palesi insieme le giuste massime di cotesto savissimo Governo".
A rendere problematica la declinazione congiunta di questi due termini non era tanto il tentativo più o meno strisciante di erodere le posizioni commerciali venete (con l'imposizione di dazi proibitivi sui vini friulani, l'estromissione dalla condotta del sale in Lombardia, le mai sopite ambizioni su Trieste), quanto piuttosto il contegno tenuto dal potente vicino in occasione degli incidenti che quasi quotidianamente esplodevano lungo l'intero arco del confine, dall'Istria al Friuli al Cadore, non di rado con l'intervento diretto di rappresentanti e di truppe imperiali. Proprio all'inizio della missione del C. accadeva l'episodio più grave: i sudditi austriaci di Ostiglia, che pretendevano di utilizzare le acque del Tartaro per le loro risaie, d'accordo col governatore di Mantova avevano invaso le valli veronesi scortati da quaranta corazzieri e sessanta guastatori, e avevano danneggiato irreparabilmente le opere di canalizzazione, colpevoli di deviare tali acque sui terreni veneti. Per ogni motivo di contesa, il C. doveva dedicarsi a defatiganti trattative, che sfociavano periodicamente in proteste anche vigorose, incapaci peraltro di vincere le "naturali lunghezze" della corte viennese, o di far breccia negli "affari immensi" che tenevano occupato il cancelliere Zinzendorf o il principe Eugenio. In realtà la difficoltà di giungere a rapide soluzioni evidenziava la debolezza contrattuale della Repubblica, inutilmente celata nel reclamo per il rispetto formale di accordi - come nel caso del Tartaro - vecchi di secoli e del tutto superati dalle nuove condizioni politiche. Persino su di un punto gelosissimo, quale la navigazione di vascelli armati nel Golfo, il C. non aveva potuto dare reale efficacia alle proprie proteste, ed era stato costretto a registrare anzi l'ironia di Eugenio, che si mostrava stupito che la vigilanza garantita da alcuni brigantini imperiali non riuscisse gradita anche alla Serenissima.
Il C. era tornato da pochi giorni a Venezia, quando venne prescelto assieme a Pietro Cappello per un'ambasceria straordinaria a Trieste, col compito di esternare a Carlo VI, che vi si recava in visita, gli omaggi della Repubblica.
Dato il carattere della missione, i dispacci dei due si dilungano soprattutto nel magnificare la sontuosità dell'apparato e la ricchezza del nobile corteo che avevano allestito e che aveva riscosso la viva ammirazione dell'imperatore. Nonostante la brevissima permanenza, dal 10 al 13 settembre, il C. e il Cappello non rinunciarono comunque all'occasione che si offriva loro di rilevare di persona il completo fallimento di quelle "vaste idee di commercio" che tanto avevano preoccupato i Veneziani e che ormai potevano considerarsi, "se non affatto dileguate, almeno molto ristrette ed incapaci di recare alcuna gelosia a' principi vicini", soffermandosi con evidente compiacimento sull'abbandono in cui erano lasciati i fondaci ed il lazzaretto eretti dalla Compagnia d'Oriente, e sulla totale inattività dei cantieri navali; né mancava un'annotazione maligna sullo stesso Carlo VI, che dimostrava di gustare "più tosto delle contribuzioni e delli omaggi de' sudditi di quello si dimostri applicato alli affari di marina, dove qui tutto manca per darvi qualche figura".
Il C. fu ancora due volte savio del Consiglio, nell'ottobre del 1728 e del 1729; il 12 giugno del '29 venne eletto bailo a Costantinopoli, ma il 24 luglio ottenne la dispensa dal Maggior Consiglio, con riguardo al suo stato di salute ed alle missioni già svolte; nell'aprile 1730 venne eletto deputato alla Provvision del danaro pubblico.
Morì nella villa di famiglia, a Castelfranco, il 18 luglio 1730.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia veneta, 19;M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, c. 61; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro nascite, reg. 62, c. 110; Ibid., Provveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 922, cc. n. n., 18 luglio 1730; Ibid., Dieci savi alle decime, busta 280, n. 695; Ibid., Segretario alle voci, Maggior Consiglio, reg. 25, cc. 32, 155, 173, 220, 232; reg. 26, cc. 14, 30, 67, 154, 202, 219; Ibid., Segretario alle voci, Pregadi, reg. 21, cc. 21, 37, 55, 57, 70; reg. 22, cc. 1, 3, 4, 12, 14, 23, 56, 73, 74, 75, 106, 136; la dispensa da bailo è Ibid., Maggior Consiglio. Deliberazioni, reg. 47, c. 145; Ibid., Senato. Commissioni, filza 19 (nuova numerazione 24), cc. 1-10, 177; Ibid., Senato, Dispacci ambasciatori, Roma, filza 236, n. 554; filze 237-239; Ibid., Senato, Disp. amb., Germania, filza 218, nn. 268-269; filze 218-221; filza 222, nn. 1-3, cc. 161-174; Ibid., Disp. amb., Expulsis papalistis, filze 12, 13, 15; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, Lettere ambasciatori, filza 27, n. 393; Ibid., Provveditori alla Sanità, filza 675, nn.,19-42; la relazione di Roma è Ibid., Collegio, Relazioni, busta 23; cfr., inoltre Ibid., Senato, Roma ordinaria, reg. 96, cc. 4v-61v passim;reg. 97, cc. 1-39v passim;Ibid., Senato, Roma expulsis papalistis, reg. 10, cc. 1-38 passim;reg. II, cc. 1-35 passim;Ibid., Senato, Corti, reg. 102, cc. 43-222v passim;reg. 103, cc. 1-221 passim;reg. 104, cc. 2-229 v passim;Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, cc. 329v-330. Copia della Relazione delli NN. HH. Pietro Cappello et A. C. ambasciatori ... alla Maestà di Carlo VI, e in Venezia, Bibl. d. Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 1186, cc. 247v-250v; Ibid., Cod. Cicogna 3471: Delle lodi della Casa Cornaro. Oraz. di Domenico Giorgi bibliotecario dell'E.mo e R.mo Sig. Card. Gius. Imperiali indirizzata a S. E. il sig. A. C. ... ambasciatore della Ser. Rep. di Venetia... appresso... Clemente XI ...; Dispacci degli amb. veneti al Senato. Indice, Roma 1959, pp. 125, 247, 333 s.; L. Andruzzi, Orazione in lode di... A. C..., Bologna 1720; Relazione della privata e pubblica comparsa fatta in Roma... da A. C., Roma 1721; A. Zeno, Lettere, IV, Venezia 1785, pp. 43, 65, 141; L. Ranke, Die römische Päpste, ihre Kirche und ihr Staat im sechszehnten und siebzehnten Jahrhundert, III, Berlin 1836, pp. 501 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, XV, Roma 1933, p. 408; A. Pino-Branca, La vita economica degli Stati ital. nei secc. XVI, XVII, XVIII (secondo le relaz. degli amb. veneti), Catania 1938, pp. 431 s.; F. Antonibon, Le relaz. a stampa di ambasc. veneti, Padova 1939, p. 107; Relazioni di amb. veneti al Senato..., a cura di L. Firpo, II, Torino 1970, pp. LXV, LXVI; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-ecclesiastica..., XI, pp. 14, 37; XLI, p. 155; XCII, p. 574.