ANDREA da Parma (da Strumi)
Nacque nella prima metà dell'XI secolo in località imprecisata a cinque giornate da Vallombrosa così che, in seguito a una identificazione della tradizione vallombrosana, venne chiamato Andrea da Parma, anche se non c'è nessuna prova su questa origine. Fu prete e poi abate di Strumi, un'abbazia vallombrosana nel Casentino e per questo viene identificato dalla tradizione indifferentemente secondo le due località. Non si sa nulla sulla sua famiglia né sui motivi che lo portarono a Milano, dove fu certamente vicino ad Arialdo. Dopo il 1066 lasciò la città lombarda, dopo aver partecipato alle lotte e alle esperienze della pataria e aver collaborato alla ricerca del cadavere di Arialdo, soffrendo imprigionamenti e persecuzioni. Durante la sua esperienza patarina ebbe contatto coi chierici e coi monaci che da Firenze Giovanni Gualberto aveva inviati per assicurare al popolo dei "fideles", in lotta contro l'arcivescovo Guido da Velate, un clero non macchiato da simonia; probabilmente con uno di loro, Rodolfo, destinato poi a diventare abate generale dei Vallombrosani, come successore di Gualberto, nel 1066 andò a Vallombrosa, dove nella nuova famiglia monastica trovò la possibilità di realizzare la conciliazione delle sue tendenze fondamentali: un desiderio profondo di vita ascetica e contemplativa e la volontà di agire nella società per la riforma della Chiesa. A Vallombrosa, ove visse l'esperienza del prodigioso espandersi della nuova comunità, il prete patarino scrisse intorno al 1075, per incarico forse di Rodolfo, la biografia di Arialdo, l'opera piú caratteristica della sua personalità. Da due anni era morto il Gualberto, che probabilmente A. conobbe di persona, anche se non ne fa mai cenno esplicitamente. A. come abate di Strumi viene ricordato per la prima volta l'anno 1085 e per l'ultima l'8 giugno 1100, (Davidsohn, Forschungen, I, p.69).
Egli morì certamente prima del gennaio 1106, quando abate di Strumi viene ricordato un Angelo.
Del suo governo abbaziale si ricorda solo, nella tradizione vallombrosana, un suo intervento per pacificare Enrico IV con i Fiorentini. Intorno al 1092 compose la Vita Gualberti, l'altra biografia che, insieme con quella di Arialdo, costituisce l'opera letteraria da lui tramandataci.
L'uomo appare attraverso lo scrittore ed è vano ridurre la figura di A. a quella di un fanatico, in cui la passione di parte e lo zelo del combattimento rasentano la follia. Nella temperie così singolare della lotta popolare e monastica per la riforma religiosa, le opere di A. hanno un loro vigore e una loro dignità, anche letteraria, e costituiscono inoltre una testimonianza preziosa sugli avvenimenti e sullo spirito dei tempi. Più vivace e appassionata è la prima, dove l'eco dei combattimenti è ancora vicino e dove le folle contrapposte dei "fideles" e dei simoniaci sono le vere protagoniste intorno alle grandi e forti figure di Arialdo, di Landolfo e di Erlembaldo. Passioni di parte ed entusiasmo religioso, profonda commozione per la nuova esperienza di un'azione liturgica scevra da macchie e da contaminazioni con i simoniaci (basta pensare alla descrizione della vita religiosa nella canonica milanese e alle processioni salmodianti guidate da Arialdo), si accompagnano a un senso forte e crudo della realtà, degli interessi, anche economici, delle parti contrapposte. Pagine come la descrizione della spedizione notturna dei chierici simoniaci e dei loro sostenitori contro la chiesa e i beni di Arialdo, con un senso così preciso del valore delle coltivazioni e delle cose che essi volevano distruggere o come quelle che rappresentano le scene della vita familiare di Arialdo giovane nella casa di campagna, fervide di opere domestiche e di serietà religiosa, sono pitture di costume non frequenti nella letteratura agiografica medievale. Un vigore particolare hanno le rappresentazioni degli effetti della predicazione degli uomini della pataria e le mosse collettive delle folle dell'una e dell'altra parte. I dialoghi immaginati tra gli eretici e i fedeli, pur negli schemi di periodo coordinati secondo certi modelli evangelici, ci danno veramente il senso di una vita intensa, dove la passione religiosa arriva a fondere e a trasformare gli impulsi rozzi e violenti delle parti in lotta. Da un lato tutti i buoni, Arialdo e i suoi, dall'altro tutti i cattivi, l'arcivescovo e i suoi chierici, ma nell'urto non mancano sfumature e colori che danno il senso della lotta e della vita, come quando A. descrive la divisione profonda nella città e nelle singole famiglie. Alcune scene, poi, hanno un rilievo pittorico veramente notevole, come l'assalto a Landolfo, il movimento degli uomini intorno a Erlembaldo, la ricerca affannosa di Arialdo e la miracolosa esaltazione del suo corpo martirizzato. Nella vita di Giovanní Gualberto, più che la folla, domina la figura del santo, nella sua vita ascetica e nella lotta per la costruzione della sua spiritualità. È un carattere violento e duro, come forse fu A., ricco di passione e di forza, quello che ci viene rappresentato, prima nell'ambiente di S. Miniato, poi nella ricerca di una nuova forma di esperienza ascetica e spirituale nella solitudine di Vallombrosa. C'è anche un intento polemico contro le degenerazioni naturali dell'ordine dalla purezza primitiva, per esaltare nel fondatore, insieme, l'estremo rigore e la grande libertà nei riguardi di coloro che gli stavano vicino. La forza drammatica del racconto è naturalmente meno vivace che nella vita di Arialdo e molti sono i quadretti frammentari e gli episodi staccati, anche se nella Vita Gualberti ha trovato posto quella mirabile lettera di Pietro Igneo sulla prova del fuoco sostenuta da un monaco vallombrosano contro il vescovo Pietro di Pavia tacciato di simonia. Questa lettera non è di A., ma c'è qualche cosa in quel racconto della pataria fiorentina che richiama le pagine migliori della biografia di Arialdo. Molto del tono più calmo e più disteso della seconda vita rispetto alla prima si deve certamente ai quasi vent'anni che separano le due opere nel tempo e anche all'atmosfera più distesa per l'affermazione più piena degli ideali di riforma. Se c'è polemica, è contro coloro che in qualche modo sembrano voler offuscare l'ideale della purezza primitiva. Comuni però nei due testi sono non solo il fervore e l'entusiasmo religioso, ma il senso della realtà. Se nella vita di Arialdo c'è il senso della campagna lombarda e della vita milanese, in quella del Gualberto c'è una diffusa e quasi compiaciuta attenzione per gli aspetti più caratteristici di un mondo dove ci sono feudali e popolani, preti e rustici, ma soprattutto pastori e animali nelle solitudini e nei grandi spazi delle foreste appenniniche. Ed è veramente da stupirsi che il Baethgen abbia operato dei tagli in alcuni dei più caratteristici e pittoreschi squarci di questa vita quotidiana, il cui gusto non è certo sempre così vivo nei documenti del secolo. In conclusione, A. resta come storico, come patarino, come monaco uno degli interpreti più vivi e interessanti del suo tempo.
Opere: Vita Sancti Iohannis Gualberti, in Acta Sanctorum Iulii, III, Antverpiae 1723, pp. 343-365 (integrale); altra ediz. in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XXX, 2, a cura di F. Baethgen, Lipsiae 1935, pp. 1080-1104 (incompleta); Vita Sancti Arialdi, ibid., a cura di F. Baethgen, pp. 1047-1075.
Bibl: R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, I, Berlin 1896, p. 69; R. Morghen, Gregorio VII, Torino 1942, p. 127; C. Violante, La pataria milanese e la riforma ecclesiastica, I, Roma 1955, passim (cfr. Indice); R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 337, 340, 342, 356, 360, 362, 364; G. Miccoli, Pietro Igneo, Roma 1960, cfr. Indice dei nomi; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., II, col.1716.