DANDOLO, Andrea
Nacque il 30 apr. 1306 da Fantino, del ramo di S. Luca, che viene ricordato nel 1312 fra gli elettori del doge Giovanni Soranzo e che morì il 13 ag. 1324.
Ebbe almeno due fratelli: Marco, di cui nulla si sa, e Simone, provveditore all'esercito contro Zara nel 1345, podestà di Treviso e, in seguito, fra i giudici del doge Marino Falier. Nel testamento dei D. è inoltre menzionata una sorella, di nome Agnese, monaca a S. Giovanni di Torcello.
Della sua formazione culturale si conosce poco, ma si può affermare con sicurezza che ebbe solida base giuridica. Ciò risulta evidente sia dall'attività del D. in campo giuridico sia dagli espliciti accenni contenuti nell'opera del contemporaneo Guglielmo Cortusi, che lo dice "legali scientia decoratus", sia da un documento del 13 dic. 1333 in cui il D. è definito "iurisperitus". t probabile che abbia frequentato lo Studio di Padova, ma non è sicuro che vi si sia addottorato, come invece sostengono scrittori tardi. Priva di fondamento pare inoltre la notizia (forse dovuta a confusione con l'attività del nipote Fantino) secondo cui avrebbe tenuto cattedra di diritto all'università padovana. Il Sanuto nelle Vite de' duchi scrive che il D. fu allievo di Riccardo Malombra, ma anche questa notizia non pare attendibile, dato che il celebre giurista professò a Padova dal 1295 al 1315. Malgrado le incertezze biografiche, è fuori di dubbio che il D. parallelamente alla formazione giuridica ne aveva ricevuta una letteraria, filosofica e storica. Accanto alla testimonianza di per sé probante della sua successiva attività di storiografo, abbiamo infatti precise indicazioni del Petrarca. Questi in una lettera al D. scritta da Padova nella primavera del 1351 sottolinea la giovanile familiarità che il suo corrispondente aveva avuto con le Muse, in seguito abbandonate per seguire la carriera pubblica e gli studi filosofici. Lo stesso Petrarca, in un'altra sua lettera al D. del 25 febbr. 1352, gli rammenta un periodo giovanile di viaggi apparentemente compiuti per diletto personale.
Nel 1328, dopo brevissimo tirocinio negli uffici pubblici, fu eletto procuratore di S. Marco sia pure con esigua maggioranza. Tale nomina, nonostante l'alto numero dei voti contrari, verosimilmente dovuti alla giovane età del candidato, sembra attestame le non comuni qualità. Un documento conservato all'Archivio di Stato di Venezia lo attesta procuratore de supra il 4 ott. 1328, ed è presumibile che sia succeduto a Marino Badoer deceduto nel marzo dello stesso anno. Durante il periodo in cui ricoperse tale ufficio (1328-1343), il D. fu eletto più volte savio con vari incarichi, svolse compiti specifici e compì, tra l'altro, una missione diplomatica ad Ancona con Giovanni Contarini. Il 10 novembre del 1336, insieme con Marco Loredan, dette inizio alla registrazione dei beni fondiari di proprietà della basilica di S. Marco. Nel maggio del 1340 fu tra i cinque provveditori al Frumento; e il 13 apr. 1341 era fra i savi deputati all'allargamento della strada da S. Bartolomeo a S. Giovanni Crisostomo.
È falsa con ogni probabilità la notizia di una sua partecipazione come provveditore in campo alla guerra veneto-scaligera nel 1336. Il suo nome non compare infatti tra quelli indicati dalle fonti documentarie a noi note; ed è certo, inoltre, che egli si trovava a Venezia nella primavera e nell'inverno di quell'anno. In ogni caso il D. non fu mai uomo d'armi e non è da escludere che la notizia della partecipazione alla guerra sia stata costruita intenzionalmente sotto il suo dogato. Improbabile è anche la notizia di una sua nomina a podestà di Trieste nel 1333, tenendo conto di una deliberazione del Maggior qonsiglio in data 30 dic. 1305 che vietava ai procuratori di S. Marco l'elezione a qualsiasi ufficio "vel regimen", e anche del fatto che in quell'anno alla podesteria di Trieste è attestato Giovanni Vigonza. Il 13 dic. 1333 il D. era comunque a Trieste dove fu investito dal vescovo della città di un feudo in prossimità di Pirano in Istria.
Alcuni documenti ricordano infine un Andrea Dandolo "comes" fra i tre savi cui il Consiglio dei rogati affidò il 31 marzo 1332 l'esame delle questioni vertenti fra Marino Barbarigo e il Comune di Zara: si tratta verosimilmente di un omonimo, data l'assenza della qualifica di procuratore. Lo stesso omonimo compare anche in una deliberazione dei Rogati del 4 febbr. 1333, come conte di Grado e savio sulle questioni di Zara relative a Marino Barbarigo. Questo personaggio si deve, con ogni probabilità identificare nell'Andrea figlio di Marco dei Dandolo di S. Severo, che fu poi bailo di Negroponte nel 1337.
Dopo la morte di Francesco Dandolo 01 Ott- 1339), il D. concorse al dogato con Marino Falier e Bartolomeo Gradenigo. Fu eletto quest'ultimo, a quanto pare con il concorso determinante dei seguaci del D. in antagonismo al Falier. Morto il Gradenigo (28 dic. 1342), il D. fu tra i cinque correttori della promissione ducale e, il 4 genn. 1343, divenne doge al termine di un'elezione contrastata in cui, secondo il Cortusi, la sua candidatura venne accettata come ripiego, non riuscendo il Collegio elettorale ad accordarsi sul nome di un personaggio più anziano. Sulla scelta finì Per pesare sicuramente l'importanza della casata che aveva già dato tre dogi; ma vi dovette anche contribuire il prestigio che il giovane candidato si era acquistato grazie alla sua attività e intelligenza, sia come procuratore di S. Marco, sia come studioso di diritto, sia come storico. Aveva infatti composto in quegli anni un manuale di leggi veneziane, la Summula, e una cronaca dalle origini di Venezia sino al 1342, la cosiddetta Chronica brevis.
In ogni caso i gruppi che gestivano allora il potere a Venezia non dovettero giudicare il D. persona inadatta a reggere la suprema magistratura, nonostante l'età giovanile, insolita nella prassi delle elezioni ducali. Forse giocarono a favore del D. la sua indole mite e le sue indubbie capacità politiche di mediazione (testimoniate fra l'altro, a quanto pare, dagli stessi soprannomi di Cortesin e di Contesin, coi quali veniva designato); forse indussero a farlo scegliere le sue stesse ormai note inclinazioni, che facevano di lui un uomo di studio più che un uomo d'azione.
Il D. si trovò al vertice della Repubblica in uno dei periodi più critici della sua storia, in cui si ebbero guerre, carestia, calamità naturali e la terribile peste del 1348. I primi atti di governo del nuovo doge sembrano lasciar intravvedere una precisa linea programmatica volta al riordinamento dello Stato su basi giuridiche al fine di superare, per quanto possibile, le contraddizioni interne della società veneziana. A poco più di uninese dall'elezione, il 9 febbraio, il D. fece infatti nominare una commissione di cinque savì per provvedere alla riforma degli antichi statuti, continuando così con l'avallo della sua posizione l'attività già iniziata da procuratore.
Con questo lavoro di compilazione, che venne terminato tre anni più tardi, il D. si proponeva di assicurare la pace interna confidando nella validità del diritto come elemento regolatore dei rapporti umani: aspirazione forse un po' astratta in una società carica di tensioni, com'era quella veneziana dei tempo, ma a cui egli sembra aver aderito pienamente, a giudicare dall'impegno personale che profuse nell'opera, alla quale dedicò addirittura - come ricorderà più tardi - ore sottratte al sonno. La fede nel diritto come strumento di governo rimase d'altronde un punto fermo nella mentalità del D. e costituì un cardine della sua attività di governo. In questa visione si inquadrano sia gli atti di dedizione di Treviso (1344), e di Zara (1346), trattati intesi come superamento del semplice diritto di conquista; sia la raccolta dei trattati e dei documenti che definivano i rapporti di Venezia con gli altri Stati (nel Liber Albus e nel Liber Blancus, compilati per suo ordine dopo il 1346); sia, probabilmente, anche la cronaca maggiore del D., la cosiddetta Extensa, redatta nello stesso spirito con l'intento di legittimare, anche dal punto di vista. giuridico, il dominio veneziano su altre città e su altri popoli.
Malgrado le sue aspirazioni ad un dogato di pace e di tranquillo riassetto amministrativo dello Stato, dovette affrontare, come responsabile del governo della Repubblica, una serie crescente di difficoltà fra cui una disastrosa guerra con Genova. Le traversie che visse Venezia negli anni in cui egli fu doge offuscarono la sua figura presso i contemporanei al punto che fu odiato in vita e diffamato dopo la morte. Il primo biennio della sua amministrazione passò comunque in una relativa tranquillità, con pochi avvenimenti di rilievo. Nell'au. tunno 1343 furono espulsi a titolo precauzionale gli "stipendiari" padovani, vicentini e parmensi al soldo della Repubblica in Treviso, dove la recente dominazione veneziana non si era ancora consolidata. In quello stesso anno venne sottoscritta la lega triennale con Cipro e con i Cavalieri di Rodi Promossa dal papa Clemente VI in funzione antiturca. Nel 1344 Venezia riuscì a comporre il dissidio con il patriarca di Aquileia e col conte Alberto di Gorizia a proposito dell'Istria. Il 28 ottobre dello stesso anno fu presa Sinime nel quadro della guerra contro i Turchi. La lega fu prorogata per altri due anni nel dicembre del 1345, ma di fatto, malgrado le reiterate esortazioni del papa, si esaurì ben presto per i contrasti fra gli aderenti. In particolare i Veneziani, cui importava soprattutto l'acquisizione di Chio in vista di un ampliamento della loro sfera d'influenza nel bacino orientale del Mediterraneo, finirono col perdere ogni interesse alla lega quando l'isola venne occupata dai Genovesi sul finire della primavera del 1346. Del resto, nell'agosto del 1345 avevano dovuto affrontare una nuova rivolta di Zara, che aveva minacciato gravemente il loro dominio sullo stesso Adriatico.
La ribellione era stata appoggiata da Ludovico il grande, re d'Ungheria, inseritosi in quello scacchiere: egli, nell'intento di sottrarre la città dalmata alla Repubblica, non aveva mancato di fomentarne i rancori municipalistici nei confronti della Dominante. La disfatta dell'esercito ungherese sotto le mura di Zara (1° luglio 1346) di lì a poco portò la città assediata alla resa, che fu sottoscritta a Venezia il 15 dicembre dello stesso anno. Il riacquisto di Zara fu solennemente celebrato e, in questa occasione, venne composta la Cronica Iadretina, un'opera di propaganda tesa a dimostrare il buon diritto di Venezia al possesso di Zara, opera variamente attribuita a Benintendi Ravignani o a Raffaino de' Caresini, collaboratori del D. nell'ambito della Cancelleria ducale.
Nello stesso periodo, dopo una breve pausa di distensione, tornarono ad acuirsi i contrasti con Genova. La conquista di Chio aveva infatti portato ad un tale masprimento dei rapporti fra Venezia e la Repubblica ligure, da far ritenere inuninente lo scoppio delle ostilità.
Agli inizi del quinto decennio del secolo, le rivalità tra Genova e Venezia per il controllo commerciale sul Mar Nero erano state momentaneamente accantonate in seguito al provvedimento di espulsione dei mercanti occidentali dalla Tana, deciso nel 1343 dal khàn dell'Orda d'oro. Il provvedimento aveva indotto le due Repubbliche a concordare un'azione congiunta a difesa dei propri interessi. Il 22 luglio 1345 si era deciso di sospendere per un anno ogni commercio con la Tana e, contemporaneamente, i Veneziani erano stati ammessi a commerciare a Caffa in condizione di parità con i Genovesi. Già l'anno precedente, d'altronde, Venezia aveva stabilito, con l'autorizzazione dei papa (27 apr. 1344), rapporti di commercio con l'Egitto nel tentativo di ovviare in qualche modo al danno subito alla Tana. Le reciproche violazioni del trattato, gli attriti fra Genovesi e Veneziani, il sia pur cauto inserimento di Genova nella crisi di Zara e, da ultimo, la conquista genovese di Chio nel 1346 avevano tuttavia peggiorato sensibilmente i rapporti fra le due Repubbliche al punto che, fra il 1347 e il 1348, Venezia si era indotta a riaprire unilateralmente i rapporti con il khān, riprendendo i traffici alla Tana.
L'apertura del conflitto armato fu ritardata da una serie di calamità che sconvolsero Venezia. Nel 1347 si ebbe infatti una pesantissima carestia per cui - nota il Sanuto - "se non era il miglio, si tiene che molti sarebbon morti di fame". Seguì il terremoto del 25 genn. 1348 e, subito dopo, scoppiò l'epidemia di peste, che imperversò per almeno sei mesi decimando la popolazione. "Le case si votarono", scrive ancora il Sanuto, "e più tosto le case cercavano abitatori, che gli abitatori cercassero case ad affitto". Si calcola che siano deceduti i tre quinti degli abitanti (cioè, secondo la stima del Brunetti. 45.000 o 50-000 persone), e che si siano completamente estinte ben cinquanta famiglie nobili. Terminato il contagio, il Maggior Consiglio diede facoltà ai Pregadi di provvedere al ripopolamento, invitando i forestieri in città. Furono presi inoltre vari provvedimenti per il ritorno alla normalità. Il 17 settembre dello stesso anno Capodistria insorse contro il dominio veneziano, ma la rivolta fu domata rapidamente. Pur impegnato da questi eventi, il governo della Repubblica si preparava a portare l'attacco a fondo contro Genova. Il segnale della guerra fu dato dalla cattura di alcune navi veneziane da parte dei Genovesi a Caffa.
Nell'agosto 1350 venne decisa la guerra con Genova e fu inviata alla volta della Romania una flotta di trentacinque galere, che ottenne un discreto successo nel porto di Castro presso Negroponte, catturando dieci navi avversarie (settembre 1350). I Genovesi risposero con un'incursione contro Negroponte dove incendiarono e saccheggiarono il porto. Di fronte all'impossibilità di piegare da sola la rivale, nei primi mesi del 1351 Venezia si alleò con Pietro IV re d'Aragona e con Giovanni Cantacuzeno, che aveva usurpato il trono di Bisanzio esautorando Giovanni V Paleologo. Gli alleati si impegnarono a fornire ciascuno un certo numero di vascelli per approntare complessivamente una flotta di ottanta-novanta galere. Ma per tutto il 1351 non si ebbero scontri di rilievo, a causa del ritardo con cui la flotta veneto-aragonese raggiunse l'Egeo. All'inizio dell'inverno una flotta genovese di sessantaquattro galere al comando di Paganino Doria si ritirò a Pera, mentre gli alleati ripararono a Creta.
Nello stesso anno Clemente VI tentò invano di riportare la pace fra i contendenti. Anche il Petrarca si rivolse al D. con una lunga lettera, scritta probabilmente il 18 marzo, in cui lo supplicava di adoperarsi a convincere gli avversari "a deporre le armi incivili, a unire gli animi loro e le loro bandiere e a darsi il bacio della pace".
Nel febbraio 1352 gli alleati partirono per gli stretti, congiungendosi con la flotta bizantina nelle acque di Costantinopoli. Il 13 febbraio si svolse la sanguinosissima battaglia del Bosforo che terminò con un esito incerto, tanto che entrambi i contendenti poterono attribuirsi la vittoria. Tuttavia, per quanto il D. in una lettera del 21 aprile annunziasse a Pietro IV il felice esito dello scontro, è innegabile che, essendosi gli alleati ritirati, il miglior successo fosse dei Genovesi.
Quando Giovanni Cantacuzeno si accordò con Genova, i Veneziani si allearono con Giovanni Paleologo: questi, come pegno di un prestito ricevuto di 20.000 ducati, cedette loro l'isola di Tenedo per la durata della guerra (10 ott. 1352). L'importante vittoria ottenuta dai Veneto-Catalani il 29 ag. 1353, nelle acque di Alghero, dove, nel corso di uno scontro navale venne distrutta la maggior parte della flotta genovese (battaglia di La Lojera), non valse a piegare l'avversario. Piuttosto che cedere, i Genovesi finirono per sottomettersi a Giovanni Visconti, il signore di Milano, purché questi si fosse impegnato a proseguire la lotta contro Venezia. Venezia, per parte sua, tra la fine del 1353 e la primavera dell'anno successivo, strinse alleanze con i signori di Mantova, di Verona e di Faenza, col marchese di Ferrara e con Carlo IV di Lussemburgo e rifiutò di discutere le offerte di pace avanzate da Giovanni Visconti.
All'inizio del 1354, infatti, giunse a Venezia, come ambasciatore del signore di Milano, il Petrarca, il quale, nel mese in cui si fermò nella città lagunare per svolgere la sua missione di pace, cercò invano di incontrarsi col doge. Il D., che pure conosceva il poeta aretino, evitò accuratamente ogni contatto con l'inviato visconteo. Non rispose neppure alla lettera che il Petrarca, per invitarlo a impegnarsi per la pace, gli inviò il 28 maggio da Milano, dove era rientrato al termine della sua sfortunata missione veneziana. Secondo quanto ebbe più tardi ad affermare lo stesso Petrarca, il D. non avrebbe risposto a questa sua lettera perché a corto di argomenti: il doge, "cum se multum frusta torsisset", avrebbe rimandato a mani vuote il corriere, con la sola promessa di una risposta, dopo averlo fatto attendere inutilmente per una settimana. Non sappiamo se il D. abbia mantenuto il suo impegno. È pervenuto sino a noi, infatti, il testo di una replica del D. al Petrarca indata 13 giugno 1354 inserito in una lettera che Benintendi Ravignani, cancelliere grande della Repubblica, inviò al poeta il 26 gennaio di un anno che è probabilmente il 1356. Non è escluso, però, che l'autore di tale replica sia non il D., ma lo stesso Benintendi che voleva in tal modo difendere la memoria del doge da poco scomparso contro le insinuazioni del Petrarca.
Fallite le offerte di negoziati, i Genovesi ripresero l'iniziativa militare: inviata una flotta nell'Adriatico, devastarono Curzola e Lesina; qualche tempo dopo Paganino Doria eluse il blocco che gli avversari avevano posto al porto di Genova e, condotta la flotta nell'Adriatico, devastò Parenzo. Venezia prese immediati provvedimenti di fronte all'avvicinarsi del pericolo. La difesa cittadina fu affidata a Paolo Loredan (14 ag. 1354) che ebbe ai suoi ordini dodici nobili (due per sestiere) con trecento uomini ciascuno. Fu inoltre deciso un prestito cittadino (17 agosto); venne numerata la popolazione atta alle armi (2 settembre) e fu tesa una catena a chiudere il porto del Lido.
Nell'estate la salute del D., che sin dai primi anni del conflitto si era fatta malferma, peggiorò improvvisamente. L'ultimo documento ufficiale a noi noto, che porti la sua firma, è infatti del 16 luglio: già il 31 agosto il consigliere Marino Badoer sottoscriveva gli atti pubblici in sua vece. Il 3 settembre il D. dettava il suo testamento, che fu rogato dal Ravignani, e nel quale ricordava la moglie, il fratello Simone, la sorella Agnese, i figli, la nipote Bertuccia.
Morì il 7 sett. 1354. Il suo corpo fu sepolto nella cappella del battistero di S. Marco.
Secondo il Petrarca, il D. si sarebbe lasciato morire dopo una sommossa di piazza, cui "praeter morem" aveva partecipato armato (lettera a Guido Sette del 24 apr. 1355). Il cronista Caroldo registra invece la più attendibile versione, secondo la quale la saIute già minata del D. sarebbe stata stroncata dagli strapazzi cui il doge si era sottoposto mentre organizzava la difesa ultima della città. Il D. lasciava la moglie, Francesca Morosini, e tre figli: Fantino, Leonardo e Zanetta. Francesca Morosini era ancora viva il 13 dic. 1374, quando dettò il suo testamento. Fantino, il primogenito, sposò Beriola Falier nipote del doge e morì intorno al 1356. Leonardo ricoprì importanti incarichi pubblici e morì nel 1406; Zanetta sposò un Loredan. Il monumento funebre del D., che fu l'ultimo doge sepolto nella chiesa di S. Marco, è in stile gotico ed è probabilmente opera dei de Sanctis o della scuola: rappresenta il D. che dorme disteso sul sarcofago. Il Petrarca, su richiesta di Leonardo Dandolo e del Ravignani, compose un epitaffio in memoria del D., che non fu tuttavia apposto sul monumento dove invece si legge un altro epitaffio, di cui ignoriamo l'autore. Immagini del D. compaiono nel mosaico absidale del battistero di S. Marco (crocifissione) con gli offerenti: il D., sua moglie e il Ravignani; nelle miniature del cod. Marciano lat. Z-399 contenente la Chronologia Magna di Paolino Minorita; nel capo lettera di un capitolare del 1342 conservato all'Archivio di Stato di Venezia; nella promissione conservata al Museo civico di Venezia; nel cod. Marc. It. VII 770 contenente il volgarizzamento della Cronaca veneta di Raffaino Caresini e, probabilmente, nello scomparto inferiore della Pala feriale di Paolo Veneziano.Il D. fu promotore di intensa attività in campo artistico, giuridico e storiografico e del rinnovamento culturale della Cancelleria ducale. Quale convinto asser:tore dell'utilità dei buoni studi per il lavoro di cancelleria, si circondò di un personale capace di esprimersi in un latino elegante ed esempiato sul modello classico in contrapposizione allo stile codificato dalle artes dictandi del sec. XIII. Tra gli impiegati della Cancelleria - che tra l'altro collaborarono grandemente all'attività erudita del doge - fanno spicco il Ravignani, Raffaino de' Caresini che subentrò al Ravignani nel 1365, e Paolo de Bernardo già attivo nel 1349. Questa nuova esigenza culturale - indipendentemente dal problema controverso dell'adesione del D. alla cultura preumanistica o, al contrario, del rinnovamento stilistico da lui promosso come mezzo di propaganda - si avverte particolarmente nell'epistolario con il Petrarca, che consentì anche alla Cancelleria ducale l'acquisizione di nuovi mezzi espressivi. Lo testimoniano le due ricordate lettere del D. al poeta del 22 maggio 1351 e del 13 giugno 1354 - dettate dal doge o, forse, scritte dallo stesso Ravignani - in un latino stilisticamente adeguato a quello del mittente.
Nel campo delle arti figurative si devono all'iniziativa del D. il restauro e l'omamento della Pala d'oro in S. Marco, compiuto fra il 1343 e il 1345, la commissione a Paolo Veneziano della Pala feriale, la costruzione della cappella di S. Isidoro nella basilica di S. Marco (terminata sotto il dogado di Giovanni Gradenigo nel 1355) con il ciclo di mosaici dedicati al santo nella parete settentrionale, e la commissione dei mosaici del battistero di S. Marco (in cui, come si è detto, compare l'immagine dello stesso Dandolo). Non è infine da escludere un ruolo attivo del D., allora procuratore di S. Marco, nella costruzione della nuova sala per il Maggior Consiglio iniziata nel 1340.
Negli anni in cui fu procuratore il D. avviò un programma di riordinamento della legislazione veneziana con la redazione della Summula Statutorum floridorum Veneciarum, comprendente le più importanti deliberazioni del Maggior Consiglio che non erano state inserite negli statuti del doge Iacopo Tiepolo del 1242. Raccogliendo in tre libri, relativi rispettivamente allo iudiciorum ordo, ai contractus e ai testamenta, le deliberazioni che, sebbene non approvate solennemente, avevano di fatto forza di legge tanto da integrare gli statuti ("que deficientibus statutis vicem ipsorum habere noscuntur"), si proponeva di fornire ai magistrati e ai notai veneziani un manuale per ovviare alla scarsa conoscenza della giurisprudenza formatasi intorno alle leggi, un problema, questo, già avvertito alcuni decenni prima da Iacopo Bertaldo con il suo Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, anche se il D. propone una soluzione opposta a quella del Bertaldo, anteponendo alle consuetudini le deliberazioni degli organi legislativi dello Stato. Il D. proseguì inoltre nel cammino intrapreso con la già ricordata revisione degli statuti terminata nel 1346. Il Liber Sextus (così detto perché aggiunto ai cinque degli statuti del Tiepolo), ufficialmente pubblicato il 26 nov. 1346 con presentazione scritta dal doge, completò - la Summula con il carattere di ufficialità che a questa mancava, comprendendo in ottantaquattro capitoli i miglioramenti e le aggiunte ai primi cinque libri dopo il dogado del Tiepolo. A partire dal 1346, cioè dopo la pubblicazione del Liber Sextus, furono inoltre compilati il Liber Albus e il Liber Blancus contenenti, rispettivamente, i documenti relativi ai rapporti tenuti da Venezia con gli Stati orientali (Impero, Siria, Armenia, Cipro) e con quelli occidentali (Lombardia, Toscana, Romagna, Marca Anconitana e Sicilia) a partire dal sec. XI. Si trattò in pratica del riordino, condotto secondo criteri geografici e cronologici, del materiale contenuto in varie raccolte precedenti della Cancelleria ducale (soprattutto nei Libri Pactorum del sec. XIII) compiuto dal personale della Cancelleria sotto la guida del doge.
Ma la fama dei D. è soprattutto legata alla sua attività storiografica. Da procuratore compose una Chronica brevis dalle origini di Venezia al 1342 (cioè alla morte di Bartolomeo Gradenigo): rapido manuale di storia veneziana, verosimilmente redatto per servire ai procuratori di S. Marco, nel cui archivio sembra esser stato depositato l'originale, oggi perduto. La Chronica brevis - notevole fra l'altro come prima opera di tal genere composta da un personaggio di rilievo pubblico - ebbe molta fortuna e tre continuazioni nel sec. XIV (una di queste è dovuta al Caresini).
Tra il 1343 e la fine del 1352 il D. compose e pubblicò con l'aiuto dei personale di Cancelleria la Chronica per extensum descripta dal 48 al 1280 d. C., la cui esistenza fu ufficialmente annunziata o dominis consiliariis civitatis Venetiarum nec non universitati civitatis eiusdem" dal Ravignani il 5 dic. 1352. La cronaca, che prende le mosse dal leggendario arrivo di s. Marco ad Aquileia' ci è giunta acefala, in quanto inizia con 5 quarto libro. Nei tre libri mancanti - e, a quanto si ritiene, mai scritti - doveva probabilmente essere inserita una sintesi degli avvenimenti dall'origine del mondo o, secondo un'altra ipotesi, un corpus documentario comprendente forse il Liber Albus, il Liber Blancus e una delle opere legislative del Dandolo. Incerto è anche il motivo dell'interruzione al 1280, variamente interpretata dai critici moderni in funzione polemica nei confronti della serrata del Maggior Consiglio o, più semplicemente, in rapporto allo scoppio della guerra con Genova, vicenda che avrebbe assorbito il doge con preoccupazioni più urgenti.
L'Extensa occupa un posto di primo piano nella storiografia veneziana sia per la posizione del suo autore (per cui ebbe automaticamente un crisma di ufficialità mancante alle precedenti cronache veneziane), sia per l'ampiezza dell'informazione, sia, e soprattutto, per la novità rappresentata dall'inserimento di un gran numero di documenti nella narrazione (quaranta riportati per intero e duecentoquaranta in transunto o regesto). Con quest'opera il D. si proponeva evidentemente di colmare un vuoto storiografico (l'"inopia scriptorum" di cui parla il. Ravignani) e, verosimilmente, di fornire una versione autorevole della storia patria in funzione delle necessità pratiche di governo: anticipava così di oltre un secolo l'esigenza della "pubblica storiografia" veneziana. Sembra cioè che egli abbia scritto la Cronaca con quello stesso spirito che aveva animato la sua precedente attività di codificatore, finalizzando l'opera storica alla giustificazione legale del dominio veneziano di fronte a chiunque volesse metterlo in discussione. L'attività storiografica si svolgerebbe quindi in subordine alle necessità di governo completando, in ultima analisi, il riordinamento dell'attività pubblica già iniziato dal procuratore di S. Marco.
L'Extensa forma, con la Chronica brevis e la continuazione dei Caresini, un corpo organico che fu arricchito in seguito di nuove testimonianze documentarie ed ebbe un'ampia diffusione negli uffici ducali almeno finché la "pubblica storiografia" non lo fece passare in secondo piano. Era stata concepita in vista della continua consultazione, e fu realizzata perciò con chiarezza espositiva secondo un'ordinata ripartizione in capitoli e paragrafi. Fino all'ultimo decennio dell'Ottocento fu considerata la principale fonte per la storia di Venezia, ma la critica moderna a partire dal Lenel (1897) ha iniziato una progressiva demolizione della sua attendibilità. Il Lenel accusò il D. di aver mistificato la storia per spirito fazioso e, più tardi, il Kehr rilevò l'inattendibilità del racconto sulle origini. Il Cessi sostenne inoltre che il D. suppli con la fantasia ad eventuali carenze di fonti. Di queste accuse ha fatto parzialmente giustizia la Pastorello, dimostrando come molti errori imputati al D. discendano in realtà dalla fonte di lui seguita, cioè l'inedita Historia Satyrica di fra' Paolino Minorita († 1344 c.), e sostenendo che gli eventuali interventi arbitrari compiuti dal D. sulle fonti derivano dalla necessità di riaffermare il buon diritto di Venezia di fronte ai suoi nemici.
La Summula del D., tuttora inedita a eccezione dei proemio e dell'indice pubblicati dal Genuardi nel 1911, è contenuta nel cod. 459 della Biblioteca dell'abbazia di Montecassino. Il Liber Sextus è stato pubblicato nel Volumen Statutorum legum ac iurium tam civilium quam criminalium DD. Venetorum Venetiis 1709 (dove alle cc. 82v e 83v si legge la prefazione del doge), e in altre edizioni degli statuti veneziani. La presentazione e l'indice del Liber Albus e del Liber Blancus, conservati all'Archivio di Stato di Venezia, sono stati pubblicati da Tafel e Thomas nel 1856 (pp. 24-26 e pp. 33-54), mentre la Chronica brevis edita per la prima volta parzialmente dal Muratori nei Rerum Italic. Scriptores (XII, Mediolani 1728, coll. 399-402, 410416), è stata pubbl. da. Ester Pastorello nella seconda edizione dei Rerum Ital. Script., (XII, 1, pp. 351-373). Nello stesso volume è anche l'Extensa pubblicata dalla Pastorello (pp. 5-327) in base al cod. Marc. lat. Z.400 (= 2028), che contiene la stesura originale dell'opera esemplata, sotto il controllo del doge, da uno scriba della Cancelleria. Vi si trova inoltre, alle pp. CIV-CVI dell'introduzione, la lettera di presentazione del Ravignani già pubblicata dal Muratori a introduzione della sua edizione dell'Extensa (sotto il titolo di Chronicon Venetum) nel citato vol. XII dei Rerum Ital. Script. 0728), coll. 10-11. Le due lettere scritte dal D. al Petrarca sono state ripubblicate dall'Arnaldi (A. D. dogecronista, pp. 254-258) assieme alla lettera scritta dal Ravignani al Petrarca. La Costa (Sulla batt., pp. 204-210) pubblica dall'Archivio della Corona d'Aragona le lettere del D. al papa circa l'alleanza contro i Genovesi (30 luglio 1351), a Pietro IV sull'armamento e sul prestito di galere (30 marzo 1352), e per annunziare l'esito della battaglia del Bosforo. Sugli scritti del D. e la relativa bibliografia si veda inoltre il Repertorium fontium hist. Medii Aevi, IV,Romae 1976, pp. 104 s.
Il D. fu variamente giudicato dai contemporanei: nemico della nobiltà o, al contrario, fautore della guerra con Genova e, di conseguenza, capo della fazione nobiliare oltranzista. Il Petrarca lo considerò un uomo tendenzialmente amante della pace e degli studi, ma troppo tenace nel volere la guerra in contrasto con le sue aspirazioni naturali. A queste critiche rispose a suo tempo il Ravignani, mettendo in evidenza i limiti costituzionali posti all'azione di un doge: questi, sia pur intimamente pacifista, era tenuto, in caso di guerra soprattutto, più a ubbidire che a comandare. Un anonimo cronista che scriveva intorno al 1350, accanto a generiche lodi della sapienza e della versatilità del D., gli rimproverò l'ipocrisia e la politica tenacemente antinobiliare concludendo che "da tuti li nobelli çeneralmente el vien mal voiudo" (Carile, La cron., p. 8). Sull'ipocrisia del D. unita alla viltà si sofferma anche l'anonimo autore della Venetiarum historia (composta attorno al 1360) secondo cui il D. è "vanagloria, mendacio et imbecillitate et inanimositate plenissimus" (Venet. hist., p. 225). Nella sua cronaca, Enrico Dandolo riabilita la figura di questo doge, ma insiste sul "grandissimo fallo" finale, cioè la guerra con Genova, di cui gli attribuisce la responsabilità. In ogni caso, i cronisti che hanno discusso la figura del D., si sono fatti in genere interpreti dei giudizi e dei contrasti interni al ceto dirigente: riflettono dunque l'opinione dei gruppi di potere di cui erano portavoce, e lasciano pertanto il sospetto sulla loro attendibilità. La presentazione del D. come fautore della guerra a oltranza, ad esempio, potrebbe essere una voluta deformazione della realtà, compiuta per rovesciare su di lui la responsabilità dell'esito finale del conflitto con Genova. L'ostilità verso il patriziato, allo stesso modo, può riflettere il tentativo di superare le lotte interne alla nobiltà con una politica di più ampio consenso. Nella prospettiva del doge prigioniero dei gruppi di potere, anche in evidente contrasto con le sue inclinazioni, si giustificherebbero infine le accuse di viltà e di ipocrisia per cui "proferiva da uno ladi a qualche persona una cossa e alli fati per effeto li farà el contrario" (Carile, La cron., p. 8). In ogni caso l'azione di governo del doge non lascia intravvedere alcun tentativo di modificare l'assetto costituzionale per cui l'"abassare li soy grandi et nobelli gidadini e meterli in fama", di cui parla l'anonimo cronista, può essere considerata al massimo una linea di tendenza. Allo stato attuale della ricerca non è possibile precisare quale fu effettivamente la linea politica del doge, che è stato visto nella vana ricerca di unità fra le classi all'insegna del patriottismo cittadino (Lane); o, filtrando le pagine dell'Extensa in una suggestiva "lettura", in segreta rivolta contro lo Stato patrizio in nome della restaurazione del potere dogale (Cracco); o, ancora, come assertore di una sorta di validità astratta del diritto, ma incapace di instaurare i rapporti di forze necessari per ottenere il rispetto delle leggi, cui avrebbe attribuito "un valore quasi taumaturgico, come di realtà operanti per conto loro" (Arnaldi).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Procuratori de supra, b. 1 (Commissaria del D.); Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It.,cl. VII, 128a (= 8639): G. Caroldo, Historia di Venetia, ff. 190v-231v; Guillelmi de Cortusiis Chronica de novitatibus Paduae et Lombardiae, in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XII, Mediolani 1728, col. 909; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, ibid.,XXII, ibid. 1733, coll. 609-628; G. B. Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, XII, Venezia 1789, docc. n. 1412-1414, pp. 33-41 (atti della dediz. di Treviso); I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, II, Venezia 1878, ll. III, n. 382; IV, n. 33; V, n. 57; Diplomatarium Venero Levantinum sive acta et diplom. res Venetas Graecas atque Levantis illustr.,a cura di G. Thomas-R. Predelli, I, (1300-1350), II, (1351-1454), Venetiis 1880-99, I, docc. 136-176; II, docc. 1-10; Raphayni de Caresinis Chronica...,in Rerum Ital. Script.,2 ed., XII, 2, a C. di E. Pastorello, pp. 3-9; F. Petrarca, Le Familiari, a cura di V. Rossi, II, Firenze 1934, XI, 8, pp. 340-348; III, Firenze 1937, XV, 4, pp. 139-143, XVIII, 16, pp. 302-308 (lettere al D.; per le altre che lo riguardano cfr. Lazzarini, "Dux ille Danduleus", p. 123 n.); Promiss. del doge A. D., in E. Pastorello, Introd.,pp. LXXIX-CII; Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato), "Serie Mixtorum", II, Libri XV-XVI, a cura di R. Cessi-M. Brunetti, Venezia 1961, l. XV, 53, 363, 404, 513; Venet. historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiud., a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 225-240. Per le cronache del sec. XIV cfr. Carile, La cron., pp. 7 ss.; cfr. inoltre S. Romanin, Storia docum. di Venezia, III,Venezia 1885, pp. 147-175; L. F. Tafel-G. M. Thomas, Der Doge A. D. und die von demselben angelegten Urkundensammlungen zur Staats- und Handelsgeschichte Venedigs. Mit den Originalregistern des Liber Albus, des Liber Blancus und der Libri Pactorum aus dem Wiener Archiv, in Abh. d. hist. Klasse der K. Bayer. Akad. der Wissenschaften, VIII (1856), pp. 1-167; H. Simonsfeld, A. D. und seine Geschichtswerke, München 1876 (trad. it. di B. Morossi, in Archivio venero, XIV [1877], pp. 49-149); W. Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria, Strassburg 1897, pp. 85-103; C. Manfroni, Ilpiano della campagna navale veneto-aragonese del 1351 contro Genova, in Riv. marittima, XXXV (1902), pp. 323-332; V. Lazzarini, Il testamento del doge A. D., in Nuovo Arch. veneto, n. s., VII (1904), pp. 139-141; M. Brunetti, Venezia durante la peste del 1348, Venezia 1909; Id., La battaglia di Castro ed il regolamento delle prede marittime della Repubblica di Venezia, in Riv. marittima, XLIII (1910), pp. 269-282; L. Genuardi, La "Summula Statutorum Floridorum Veneciarum" di A. D., in Nuovo Archivio veneto, n. s., XI (1911), pp. 436-467; W. 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