DAZZI, Andrea
Nacque a Firenze l'8 nov. 1473 da Giovanni di Dino e da Taddea di Giuliano Zati.
Famiglia di cittadini fiorentini, i Dazzi, in origine lanaiuoli forse di provenienza germanica, dettero alla Repubblica fiorentina nove priori, l'ultimo dei quali, Lorenzo di Piero di Dainello, di un ramo della famiglia diverso da quello del D., priore nel 1528, fu confinato dai Medici dopo la capitolazione della Repubblica. Lo stesso padre dei D., Giovanni, fu priore nel 1464 e ricoprì numerose cariche politiche, come molti altri membri della famiglia, che nel 1750 verrà riconosciuta tra le famiglie patrizie fiorentine.
Quarto di cinque figli, il D. fu avviato agli studi insieme con il fratello Giuliano; frequentò così la facoltà di poetica e retorica nello Stadio di Firenze, dove ebbe come maestri, secondo la sua stessa testimonianza, il Poliziano, il Landino e Marcello Virgilio Adriani. Nonostante fosse di salute cagionevole e spesso ammalato, si appassionò allo studio del latino e, ancora molto giovane, compose un poemetto eroicomico in esametri diviso in tre libri e intitolato Aelurmnymnachia, più tardi pubblicato da Michelangelo Serafini e dedicato ago studioso Pandolfo Cattani da Diacceto.
Neppure le accresciute preoccupazioni familiari, conseguenza della morte del padre, avvenuta il 7 maggio 1492, che peggiorò le già non buone condizioni economiche della famiglia (nella "portata al catasto" del 1480 il padre dichiarava di essere, "senza esercizio"), distolsero il D. dallo studio, tanto che sotto la guida del Verino iniziò a studiare anche il greco, divenendone in breve tempo uno stimato e capace studioso. Le indubbie doti di erudito e conoscitore delle "umane lettere" gli permisero infatti di ottenere, nel 1502, l'insegnamento di lettura greca nello Studio fiorentino con un salario di 50 fiorini l'anno. Riconfermato l'anno successivo, conogni probabilità continuò a insegnare a lungo, se lo troviamo nel 1515 a Pisa nella cattedra di poetica e retorica e poi nuovamente a Firenze dal 1519.
Migliorate le condizioni economiche grazie alrimpiego raggiunto, il D. poté dedicarsi con maggiore tranquillità ai suoi studi, acquistando un certo prestigio per le sue doti di eloquenza, come attesta una notizia., riportata dal Vasari, secondo la quale nel 1511 in occasione dei festeggiamenti per l'elezione a pontefice di Giovanni de' Medici, la compagnia del Diamante affidò al D. il compito di celebrare degnamente il nuovo papa.
Disgraziatamente proprio in quegli anni lo colpì una grave malattia agli occhi, che lo rese cieco, costringendolo a lasciare l'insegnamento (sembra intorno al 1520) e a ritirarsi nella sua villa vicino a Fiesole, dove anche prima della malattia era solito trascorrere i mesi di riposo lontano dalla città. Circondato dall'affetto dei discepoli, tra i quali P. Vettori, B. Cavalcanti, P. Mini e dei numerosi amici, riuscì comunque a continuare gli studi, sposandosi nel frattempo. Nel 1525 prese in moglie Lucrezia di Alessandro di Giuliano del Vigna, dalla quale ebbe il figlio Giovanni, che doveva, alla morte dei padre, raccogliere e pubblicare i suoi lavori.
Il D., infatti, nonostante la grave menomazione poté continuare a dedicarsi all'insegnamento privato e soprattutto alla poesia: probabilmente in questo periodo compose la maggior parte delle sue opere. Nello stesso tempo ricoprì alcuni incarichi politici minori che gli derivavano dall'essere cittadino fiorentino (si legge nell'orazione funebre: "... e così cieco come egli era, hebbe non di manco nella sua città e fuora molti et honorevoli offizi s). Tra gli altri, nel 1527 fu per un anno podestà di Palaia e, ancora un anno prima della morte, nel 1547, era del numero dei soprastanti alle Stinche, la magistratura elettiva che si occupava dell'amministrazione delle carceri fiorentine. Ma il D. continuò a essere un letterato e soprattutto un docente; tenne così, nuovamente, alcune lezioni nello Studio fiorentino, su invito di uno dei suoi allievi. P. Vettori, mentre dovette rifiutare per ragioni di salute, l'incarico di insegnamento offertogli da Cosimo I, che si accingeva a riorganizzare anche lo Studio di Pisa.
Con Cosimo, infatti, l'organizzazione della cultura divenne una leva fondamentale di dominio e di propaganda, e il D., seppure non in Posizione di primo piano, fece parte di quella schiera di intellettuali, di cui il Principato si servì per plasmare anche il mondo delle lettere sul modello della vita cortigiana. Eglifuuno dei primi a entrare nell'Accademia fiorentina, dopo la sua rifondazione ufficiale del 31 genn. 1541. In quegli stessi anni vi tenne varie lezioni, fino ad esserne nominato censore, nel 1547, durante il consolato di G. B. Gelli, quando Morì il 27 luglio 1548. Fu sepolto a Firenze nella chiesa di S. Maria Novella.
La sua memoria fupubblicamente onorata da C. Bartoli, succeduto al Gelli nella carica di. console dell'Accademia, il quale incaricò M. Serafini di leggere l'orazione funebre il 20 dicembre, nella sala del papa in S. Maria Novella, di fronte a numeroso pubblico.
Nonostante la cecità la produzione del D. fu assai cospicua. Quasi tutte le sue opere furono pubblicate dal figlio Giovanni nella edizione torrentina Andreae Dactii Patricii et Academici Florentini Poemata, Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1549.
La raccolta si apre con due lettere dedicatorie: una di Giovanni Dazzi al duca Cosimo I de' Medici, l'altra dei D., con la quale indirizza a Pier Soderini un lungo panegirico in lode di Cosimo de' Pazzi. Seguono i numerosi epigrammi e le elegie particolarmente importanti per definire le caratteristiche della sua poesia. Nei pochi versi nei quali egli canta il suo amore per una certa Fuivia si comprende come il D. "seppe contemperare lo studio dei classici con quello dei poeti volgari e soprattutto del Petrarca" (Bottiglioni, p. 140). Quindi le selve, in numero di otto, comprendenti ciascuna una lunghissimma serie di esametri, di argomento diverso: anficla fatti, notizie autobiografiche, laudi adulatorie, descrizioni delle tristi condizioni di quei tempi.
Utili per le notizie biografiche sull'autore. sono in particolare degne di menzione tre di queste selve: una, intitolata Urbius, contiene le lodi del pontefice di casa Medici; Leone X; una seconda, Icones, indirizzata con lettera in latino a "Iulio Medici reverendissimo cardinali", il futuro Clemente VII; l'ultima, Anabiosis, con altra lettera in latino dedicata "ad Illustrissimurn Cosinum Medicern ducern Florentiae Secondum". Chiudono la raccolta il poemetto eroicomico Aeluromyomachia e pochi altri epigrammi latini e greci.
Due epigrammi del D. si trovano nell'opera di vari autori Lauretum, stampata presumibilmente in occasione dell'elezione di Lorenzo de' Medici a capitano generale dei Fiorentini (1515). Sono da ricordare anche un tetrastico nell'opera di Angelo Buciense, De complexu partium orationis, e due distici di prefazione al De ratione scribendi di Carlo Aldobrandi. Infine lettere e epigrammi manoscritti del D. sono conservati nella Biblioteca Medicea Laurenziana e nella Biblioteca nazionale di Firenze.
Dal complesso della sua produzione letteraria risulta come raramente il D. riesca a sollevarsi da una stanca ripetizione dei modelli a cui attinge, sia classici che volgari, come già riconosceva il Gilardi, pochi anni dopo la morte del Dazzi. Certamente, infatti, più che per le sue modeste doti di poeta, egli va ricordato per le sue capacità di insegnante e per la grande erudizione ed eloquenza. Senza voler concordare con il giudizio di un altro contemporaneo, che fu anche suo allievo, Paolo Mini (nel Discorso sopra la nobiltà di Firenze, lo annovera fra "i fiorentini le cui bocche sono state cella di eloquenza" insieme a nomi famosi come B. Latini, C. Salutati o G. Boccaccio), bisogna riconoscere che gli incarichi che gli furono affidati, la stima di cui godeva stanno ad attestare queste sue qualità.
Dall'esame dei suoi componimenti si viene infatti a sapere che molti furono i personaggi importanti con i quali intrattenne buoni rapporti: il Naldi, Pietro Crinito, Giovanni Rucellai, Alessio Lapaccini, Iacopo Nardi, Luca Albizzi, Niccolò Ridolfi - e lo stesso Lelio Torelli, il potente segretario di Cosimo, al quale inviò un epigramma con una lettera del giugno del 1548, cioè pochi mesi prima della morte. Anche Marullo Tarcaniota fu tra i suoi amici e forse, per un breve periodo, egli fu pure in buoni rapporti con A. Poliziano. L'inimicizia tra quest'ultimo e il Tarcaniota fu una delle cause della successiva rottura tra il Poliziano e il D., che "in una serie di epigrammi assai mordaci, attaccò [il Poliziano] nel suo punto più vulnerabile, cioè nella sua immoralità" (Bottiglioni, p. 144). Interessante infine il giudizio, non certo benevolo, del Machiavelli, che in un sonetto inviato dal carcere a Giuliano de' Medici nel 1513, dileggia il D.: "Niccolò non se', ma il Dazzo 1 poiché hai legato le gambe e i talloni 1 e ci stai 'ncatenato come un pazzo".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Carte Sebregondi, 1902; Racc. Ceramelli Papiani, fasc. 1737; Carte Ancisa, HH 1, c. 171b (raccolte genealogiche con not. sulla fam. Dazzi e sul D., esse permettono di rettificare la data di nascita dal 1475 al 1473); Catasto 1011, c. 415; Decima granducale 3715, c. 60; Ufficiali dello Studio 6, c. 129v; 8, cc. 97r, 126v, 130v, 131v., 138r, 139r, 146r (per la sua attività di professore); Medici e Speziali 251, c. 4v (con l'indic. della data di morte); Firenze, Bibl. naz., Poligrafo Gargani, 705, 706 (altre not. di carattere biogr.); Fondo naz., cl. IX, numero 26, Orazione in morte di A. D. (senza indicazione dell'autore, ma da attribuire a M. Serafini); L. G. Gyraldi, Dialegi duo de poetis nostrorum temporum, Florentiae 1551, 11, p. 94; M. Poccianti, Catalogus scriptorum Florentinorum..., Florentiae 1589, p. 11; I. Gaddi, De scriptoribus non ecclesiasticis..., Florentiae 1658, p. 166; S. Salvini, Fasti consolari della Accad. fiorentina, Firenze 1717, pp. 2, 4, 79; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 35; D. M. Manni, Osservaz. istoriche sopra i sigilli antichi, Firenze 1742, IX, pp. 136-39; P. Mini, Discorso sopra la nobiltà di Firenze, in La Toscana illustrata, O, Livorno 1755, p. 101; O. Marrini, Elogio di A. D., in Elogidegli uomini illustri toscani, II, Lucca 1771, pp. 260-67; A. M. Bandini, Lettere XII, nelle quali si ricerca e s'illustra l'antica e moderna situaz. della città di Fiesole, Firenze 1776, p. 63; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanne, I,Pisa 1791, pp. 374 s.; D. Morelli, Bibliografia stor. ragionata della Toscana, 1, Firenze 1805, p. 318; G. Prezziner, Storia del pubblico Studio di Firenze, 1, Firenze 1810, p. 190; G. Vasari, Le vite de' pittori, VI,Firenze 1881, p. 251; W. Rudiger, Andreas Dactius aus Florenz, Halle 1897 (utile perché riporta numerosi passi delle opere dei D.: cfr. la recensione di F. Ramorino in Riv. st. it., XV [1898], pp. 59 s.); F. Niccolai, Pier Vettori, Firenze 1912, p. 154; G. Bottiglioni, La lirica latina in Firenzc nella seconda metà del sec. XV, Pisa 1913, pp. 136-44; L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 240; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, pp. 208, 439 (a p. 208 è riportato il sonetto citato); M. E. Cosenza, Biographical and bibliographical Dictionary, Boston, Mass., 1962, p. 1172; A. Verde, Lo Studio fiorentino (1473-1503), 11, Firenze 1973, p. 22; C. Di Filippo Bareggi, In nota alla Politica culturale di Cosimo I: l'Accademia fiorentina, in Quaderni storici, XXIII (1973), p. 535.