ANDREA di Bartolo, detto A. del Castagno
L'appellativo deriva dal luogo di nascita, Castagno di San Godenzo, nell'alto Mugello, sulle pendici del monte Falterona. Il padre, Bartolo di Simone di Bargiella, abbandonò però questa località durante la guerra fra Firenze e i Visconti (1425-28), in seguito a distruzioni subite anche dalla propria casa, e si trasferì a Corella, dove compare in un estimo, presumibilmente del 1427, avendo moglie e tre figlioli, Andrea, Simone e Ginevra. A. dovette nascere verso il 1421. Non sappiamo nulla di certo sulla sua educazione artistica e sulla primitiva attività. L'opera più antica, ricordata dalle fonti ma perduta, sono gli affreschi sulla facciata del Palazzo del podestà di Firenze raffiguranti, impiccati simbolicamente, i membri della famiglia degli Albizzi, colpevoli di tradimento dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440). Fu un'opera di occasione, compiuta rapidamente (era firuta già il 6 luglio successivo) che sottintende in A. una certa esperienza come frescante. Gli affreschi erano accompagnati da titoli in quartina di Antonio di Matteo del Meglio (in A. M. Fortuna, 1957, pp. 36 s.), che permettono di ricostruire con approssimazione il vasto ciclo murale.
Troviamo successivamente A. a Venezia, dove nell'agosto del 1442 sottoscrive, insieme con Francesco da Faenza, gli affreschi della volta dell'antica abside della chiesa di San Zaccaria, con I quattro evangelisti, S. Zaccaria, S. Giovanni Battista ed il Padre Eterno, oltre a vari ornati figurativi. La decorazione avrebbe dovuto presumibilmente proseguire lungo le pareti dell'abside, ma rimase interrotta.
L'opera di A. nel Veneto, come hanno giustamente sottolineato il Salmi e il Fiocco, pur inserendosi in un ambiente già compenetrato di idee toscane, specialmente per l'attività di Filippo Lippi e di Paolo Uccello, dovette avere notevoli caratteri di modernità, sia per la severa monumentalità delle immagini, sia per l'energia plastica e dinamica che la distingue anche di fronte al diretto precedente masaccesco. Difficile tuttavia distinguere con totale certezza la parte attribuibile in quest'opera, ad A. da quella di Francesco da Faenza (presumibilmente Francesco di maestro Pietro Fusaro da Faenza, la cui attività fu ricostruita da C. Grigioni, in L'Arte, XXV [1922], e che poté essere compagno di A. in altri lavori, forse non solo a Venezia). A. ebbe, però, come dimostra l'iscrizione, una priorità nell'opera. Il problema è reso più complesso dalla compresenza, in A. giovane, di elementi culturalá diversi: egli appartiene come formazione all'immediato momento postinasaccesco, ma con una peculiare attenzione per la statuaria, e insistenti seppur, saltuari arcaismi e durezze.
Gli stessi caratteri stilistici del ciclo di S. Zaccaria, accompagnati da un più elegante ritmo lineare, si ritrovano in una successiva opera del maestro, il cartone con la Deposizione per la vetrata di uno degli occhi del tamburo della cupola del duomo di Firenze (gli altri vetri ebbero i cartoni di Donatello, Ghiberti e Paolo Uccello). Il relativo pagamento è del 26 febbr. 1444. Esecutore ne è risultato ultimamente (secondo il Fortuna) Bernardo di Francesco detto dei Vetri. Questo lavoro segna l'inizio di un'attività umile ma regolare per l'Opera del Duomo (di cui, però, A. non fu mai dipendente). Il 30 maggio del 1444, forse in ragione di quest'attività, A. s'immatricola nell'Arte dei medici e degli speziali. Il 28 febbr. 1446 è pagato per un giglio fiorentino fra due putti ed il 19 dicembre 1446 per un Agnus Dei sopra un organo, di cui aveva dorato i capitelli (G. Poggi, Il Duomo di Firenze).
Tralasciando per ora taluni importantissimi dipinti che la critica odierna considera pertinenti a questo periodo, ma che non è possibile datare con obbiettiva certezza, dobbiamo giungere come nuovo punto sicuro alla grande tavola, andata distrutta a Berlino (dove si trovava nel Kaiser Friedrich Museum) durante la seconda guerra mondiale, con l'Assunta fra quattro angeli, s. Giuliano e s. Miniato, eseguita per la scomparsa chiesa di San Miniato fra le Torri, a Firenze, per cui si hanno pagamenti fra il 20 nov. 1449 e il 6 luglio 1450.
Raffinatissima nella resa dei tessuti e dei ipanni, ed elegantemente composta nelle immagini principali, la grande pala, per taluni versi singolarmente anticipatrice del Pollaiolo, segna la rinunzia, forse momentanea, all'espressionismo grafico e dinamico che caratterizza quasi tutti gli affreschi di soggetto religioso del maestro. Non è da escludere però, nella pala, specie nelle figure laterali, l'intervento di un aiuto di alto livello artistico.
Prima di questa pala, i documenti citano solo, come opere di un "Andrea" pittore non meglio identificato, il 30 apr. 1444, per il palazzo del Proconsolo, un ritratto di Leonardo Bruni (morto l'8 marzo, e quindi non dal vero) e alla fine del marzo 1447 tre Virtù "inspalliera audientie maioris" dell'Arte dei giudici e dei notai (oggi perdute). Sia nell'uno sia nell'altro caso, il pittore, se anche non ne è certa l'identità con A., appare in contatto con la cultura umanistica fiorentina. Le tre Virtù, che anticipano l'analoga serie pollaiolesca botticelliana, sarebbero anzi potute valere come prova per il grande ciclo, in massima parte conservato (Firenze, Cenacolo di S. Apollonia), della villa Carducci (poi Pandolfini) a Soffiano; ciclo che era in gran parte compiuto prima della morte del committente Filippo Carducci (28 luglio 1449).
Questa decorazione è costituita da singole immagini, quasi in finto rilievo, in nicchie rettangolari, allineate su una lunga parete: tre uomini d'arme, Pippo Spano, Farinata degli Uberti e Niccolò Acciaioli; tre letterati, Dante, Petrarca e il Boccaccio; e tre figure femmili, la Sibilla Cumana, la regina Ester, la regina Tomiri; inoltre, sopra una porta, una Madonna col Bambino tra angeli a mezzo busto, sotto un padiglione (iconologia imitata più tardi da Piero della Francesca nella Madonna del parto, a Monterchi); ai lati dellaporta sono riapparse in restauri (1949) le figure di Adamo ed Eva e il Crocefisso.
Manca purtroppo di questo sorprendente complesso, fra i più antichi del genere in case private in Toscana, ma foggiato su esempi padani, una esegesi iconografica. A. assolve il suo compito senza rinunziare al suo dinamismo e al suo plasticismo (che, anzi, appare, dal pretesto stesso della finta scultura, singolarmente accentuato); rende in modo vírtuosistico e realistico la qualità della materia (anche nei finti marmi delle nicchie) e si dimostra perfettamente al corrente dei tentativi di epigrafia classicheggiante nelle stupende iscrizioni che commentano le raffigurazioni degli eroi e delle eroine.
Dal gennaio 1451 al settembre 1453 A. è impegnato nel completamento del ciclo di Storie della Vergine, nel coro di Sant'Egidio, cappella dell'Ospedale di S. Maria Nuova, iniziato nel 1439-1445 da Domenico Veneziano e Piero della Francesca, suo aiuto, ma rimasto interrotto. Secondo il Vasari, A. avrebbe eseguito la Presentazione al Tempio, l'Annunciazione e la Dormitio, lasciando, forse per la malattia che lo colpì nel 1454, lo Sposalizio della Vergine allo stato in cui era rimasto per l'auontanamento di Domenico Veneziano. È suo aiuto, in questo periodo, Alessio Baldovinetti, che nel 1461 finirà il ciclo. Lo stesso Baldovinetti, durante la malattia di A. del 1454, colora per lui una grande tela rappresentante un Inferno. Sia questa, sia gli affreschi di S. Egidio sono perduti: recenti saggi di restauro hanno solo permesso di recuperare pochi resti del basamento del coro, di difficile attribuzione (ma vedi M. Salmi, in Atti e Memorie dell'Accademia la Colombaria, 1947, pp. 431 ss., e U. Procacci, 1957, pp. 65 s.).
Del 1455 è un'altra opera perduta: l'affresco della cappella di Orlando de' Medici nella SS.ma Annunziata, con la Maddalena con s. Lazzaro e s. Marta, e al di sopra, nel tabernacolo, un angelo. La notizia è però importante perché permette di collocare in questo periodo, anzi, presumibilmente, fra il 1451 ed il 1455, i due altri superstiti altari affrescati della basilica: quello con il Cristo e s. Giuliano, nella cappella dei Da Galliano, e la drammatica Trinità con s. Gerolamo e due sante della cappella di Girolamo Corboli: il primo stilisticamente prossimo alla pala di Berlino; il secondo, invece, in più stretto contatto con Domenico Veneziano.
Queste opere dovettero dare al maestro una fama notevole, tanto ch'egli fu invitato a dipingere nel duomo di Firenze, per 24 fiorini d'oro (più del doppio di quanto aveva guadagnato con ogni affresco per l'Annunziata), il monumentale ritratto equestre di Niccolò da Tolentino, ultimato il primo marzo del 1456, dove la violenza drammatica del maestro trova, nella composizione storica, accenti pari a quelli raggiunti nelle migliori opere sacre. La sua ricerca di movimento, anche in contrasto con la forte geometrizzazione prospettico compositiva, appare, in questo straordinario capolavoro, ancor più evidente per l'inevitabile confronto con la statica monumentalità dell'analogo ritratto di Giovanni Acuto dipinto, nello stesso duomo, da Paolo Uccello.
Nel 1457 A. lavora a un Cenacolo, perduto, per il refettorio dell'Ospedale di Santa Maria Nuova. Il 19 agosto muore di peste, seguendo a undici giorni di distanza la moglie, con cui si era sposato forse verso il 1454. Egli lasciava vari debiti, con l'orafo Forzore di Nicolò Spinelli e col pittore Ventura di Moro, relativi a lavori presumibilmente non compiuti.
I dati biografici che possediamo non giustificano la leggenda, raccolta specialmente dal Vasari, di un assassinio, volontario o involontario, compiuto da A. nella persona di un pittore Domenico (da non identificarsi però comunque con Domenico Veneziano).
I documenti che abbiamo, inoltre, non permettono una sicura collocazione cronologica di alcune importantissime opere del maestro, anzi dei suoi capolavori più celebri, gli affreschi nel refettorio di Santa Apollonia, comprendenti nella parete di fondo la grande Ultima cena, originariamente sovrastata dalle tre storie della Passione (Resurrezione, Crocefissione, Deposizione; recentemente sono state trasportate su parete diversa mentre nell'antica collocazione sono rimaste le splendide sinopie); in una lunetta sopra una porta, la Pietà.Variamente datato dagli studiosi, questo complesso segna il punto massimo di arrivo non solo dell'arte, ma della spiritualità del maestro, rivelando una totale padronanza dei nuovi mezzi pittorici rinascimentali e, nero stesso tempo, la rinunzia a ogni classica compostezza o "moralità", per l'effusione d'una mistica religiosità, probabilmente favorita dal contatto con l'ambiente benedettino, cui il cenacolo apparteneva. Difficile, però, stabilire se questo momento stilistico (affine a quello della Trinità dell'Annunziata e, per altri versi, al ritratto equestre di Niccolò da Tolentino) appartenga a un periodo anteriore o posteriore al ciclo classicheggiante di Soffiano; e se vada riconosciuto come il risultato finale di una evoluzione, o come la manifestazione di un secondo, più intimo, carattere dell'arte di Andrea. Il ciclo di S. Apollonia, sia rispetto alle opere affmi, donatellesche e poi ferraresi, sia in contrasto con la pittura religiosa domenicana dell'Angelico, costituisce il sommo punto di arrivo dell'arte sacra rinascimentale, dopo Masaccìo e prima di Michelangelo.
Sempre nel cenacolo di S. Apollonia a Firenze, oltre alle opere già citate, è stata collocata una grande lunetta con Crocefissione tra i santi Benedetto e Romualdo proveniente da S. Maria Nuova. Un'altra Crocefissione, staccata dal chiostro degli Angeli di S. Maria Nuova e restaurata, si trova ora in quell'ospedale.
Altre due opere difficilmente databili sono la pala con il San Sebastiano, da non molto entrata nel Metropolitan Museum di New York, piena di precorrimenti al Pollaiolo, e lo stupendo palvese in cuoio con David, della National Gallery di Washington, per il quale una data verso il 1450 non sarebbe troppo azzardata.
Contribuiscono a chiarire meglio la fisionomia stilistica del maestro. più che gli ampliamenti proposti alla sua opera, alcune decurtazioni compiute da vari studiosi. Così M. Levi d'Ancona ritiene meglio attribuibili al giovane Pollaiolo la piccola Resurrezione della collezione Frick a New York, da una predella cui appartenne anche una Crocifissìone della National Gallery di Londra, e gli armigeri alla base del monumento a Niccolò da Tolentino. Eccessivamente fiammingheggianti, come dimostrano anche le acconciature, per rientrare, anche solo come copie, nel corpus di A. risultano i due ritratti di personaggi medicei, del Kunsthaus di Zurigo; tecnicamente e spiritualmente debole è la Testa virile (n. 250 E) del Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. Anche l'affresco staccato proveniente dalla cappella del castello di Trebbio in Val delle Sieci con Madonna col Bambino, s. Giovanni Battista e s. Girolamo e i gemelli Niccolò e Oretta, figli del committente, Andrea de' Pazzi, ed ora nella coll. Contini Bonacossi di Firenze, nonostante le induzioni che lo hanno fatto ritenere opera giovanile databile al 1443 circa, appare mediocre ma anche troppo equilibrato e consapevole per essere considerato una testimonianza della prima attività di A. Fra le attribuzioni recenti, invece, degna di considerazione è quera, proposta da Fr. Hartt, del disegno n. 28 E (Uffizi), già assegnato a Paolo Uccello.
Oltre che dalla qualità dei suoi dipinti, l'importanza di A. del Castagno è autorevolmente attestata dai contatti con i più grandi maestri del tempo: contatti che culminano nella collaborazione diretta, anche se tardiva, con Domenico Veneziano e Piero della Francesca, e influenzano Padova e forse Ferrara. Di fronte, poi, agli altri rapporti, del tutto accertabili, col Baldovinetti e col Pollaiolo, passano del tutto in seconda linea gli aiuti ed allievi diretti di cui ci danno notizie il Vasari e i documenti.
A. del Castagno è uno degli artisti toscani che più debbono essere considerati e studiati in un panorama europeo. Nato un po' troppo tardi per poter partecipare, come protagonista primario, al sorgere del nuovo gusto in seguito alla creazione della prospettiva brunelleschiana e alla scoperta filologica della statuaria antica, egli, pur accettando con estrema consapevolezza tutti i risultati della precedente generazione, si stacca per una violenza espressiva che lo iinparenta, più ancora che con F. Lippi, con il Donatello dei momenti più anticlassíci. Plasticismo, costruzione prospettica, come d'altronde la resa naturalistica dei materiali e dei tessuti, sono in A. sempre sottomessi ad un intento dranunatico, espressivo. La sua arte ha nella predicazione sacra il suo nucleo essenziale: A. è certo l'interprete fedele di una religiosità mistica, particolarmente improntata al tema della passione di Cristo, largamente dìffusa nel popolo fiorentino. Ma anche le sue figurazioni profane sono tutte espresse non nel momento riflessivo della sosta (come in Piero della Francesca), ma in quello prettamente eroico del movimento e dell'azione. Questa interpretazione dinamica, passionale dell'eroismo sarà trasmessa direttamente a tutta l'arte dei tardo Quattrocento, tramite il presumibile discepolato presso A. di Antonio del Pollaiolo. E a mano a mano che il sottofondo religioso e simbolico di questa tendenza, per molti versi antirinascimentale e antipiatonica, va affermandosi, anche la figura di A. appare, nella sua allucinante serietà che già intimorì il Vasari, spiritualmente meno solitaria e meglio motivata e comprensibile.
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