ANDREA di Cione Arcagnuolo, detto l'Orcagna
Nacque a Firenze da una famiglia di artisti. E' ignoto l'anno della nascita, che dovrebbe cadere nel 1308, se veramente morì sessantenne come dice il Vasari. I fratelli Nardo e Iacopo furono pittori, Matteo scultore. Il Vasari lo dice anche poeta. E' ricordato in vari documenti dal 1340 al 1368, anno in cui morì.
Risulta immatricolato fra i pittori nel 1343, e solo nel 1352 all'arte dei maestri di pietra e legname. In un documento pistoiese (Libro d'entrata e uscita dell'Opera di S. Giovanni f. Civitas, in Vasari, p. 613) è menzionato intorno al 1347. Era tra i migliori pittori di Firenze. E come pittore dovette, soprattutto, esplicare inizialmente la sua attività di artista, forse sotto la guida del fratello Nardo più anziano, sempre secondo il Vasari. Certo fu collaboratore di Nardo nei molti anni da lui impiegati a dipingere in vari luoghi della chiesa e dei convento di Santa Maria Novella: per esempio, negli affreschi della cappella Strozzi, principalmente eseguiti da Nardo, alcune parti sono assegnabili ad Andrea. Ugualmente, il Ghiberti parla di una collaborazione fra i due fratelli negli affreschi con Storie della Vergine, poi rifatti dal Ghirlandaio, nel coro della medesima chiesa. Quanto però, della decorazione trecentesca è venuto recentemente alla luce, ossia trentacinque quadrilobi dei costoloni della volta con busti di Santi e di Profeti, è da assegnare ad A., dati i rapporti di stile con le pitture posteriori.
Infatti i quadrilobi sono fra i dipinti più antichi che si conoscano di A., perché documenti dal 1340 al 1348, relativi alla cappella, suggeriscono per gli affreschi una datazione Intorno al 1345. In questi avanzi appare chiaro non tanto il rapporto con Nardo quanto invece quello con Maso di Banco. Ma alla suggestione della forma larga di Maso, ottenuta per intense stesure di colore, si aggiunge una ricerca di ritmo lineare, che fa pensare anche a un'influenza di Taddeo Gaddi, pittore col quale l'Orcagna dovette sentire una certa congenialità dottrinale.
Strettamente afflini ai quadrilobi del coro si presentano la Natività e la Crocifissione affrescate nel Chiostrino dei Morti della stessa Santa Maria Novella, forse eseguiti dall'artista poco prima: in questi affreschi ancora più chiara appare la dipendenza da Maso e da Taddeo secondo lo stile da entrambi maturato sul 1340.
Una certa secchezza di disegno, come altre caratteristiche di più interiore rispondenza, quali la contenuta intensità dramnatica, gli sguardi, il senso di isolamento di ogni personaggio nella composizione, evocano vagamente l'arte di Giottino, ugualmente formatosi presso Maso di Banco e al quale invero una volta si vollero attribuire le due scene del Chiostrino.
Evidentemente, dunque, in questo periodo più giovanile che attualmente si può ricostruire per l'Orcagna, egli si dimostrerebbe artista più valido che nei dipinti posteriori. Un affresco molto bello, che si è voluto assegnare all'ultimo periodo di attività di A. (1360-'65 circa), la Crocifissione del Cenacolo di Santo Spirito, non può essere suo, perchè ha caratteri più tardi. D'altra parte, la grande fama da lui goduta fra i contemporanei e dopo, sino al Ghiberti e al Vasari, trova una spiegazione nelle qualità così promettenti dei lavori più giovanili, come nella viva intelligenza dell'arte e del mestiere e nella profonda cultura che egli ebbe. In realtà a lui accadde come a Taddeo Gaddi, altro artista come lui dotto: uno scadere della capacità espressiva col progredire del tempo per eccesso di meditazione e di teorizzazione sull'arte, con risultati contraddittori, peggiorati, per di più, dall'industrializzazione derivante dalla rinomanza dell'artista. È un fatto che il periodo più noto della sua attività, dal 1350 circa al 1368, è ricco, più che di opere - e queste in gran parte in collaborazione -, di incarichi: segno della sua crescente influenza a scapito della qualità poetica della sua arte.
Tuttavia è da tener presente che l'Orcagna è il tipico rappresentante di quella crisi, subentrata dopo la morte di Giotto nella pittura fiorentina, che era stata avvertita dagli stessi artisti, per quanto ci è rivelato dal noto episodio della novella 136 del Sacchetti, dove proprio A. appare fra rinomati pittori quale promotore della questione sulla condizione della pittura dopo Giotto. Forse in lui la crisi fu provocata dalle tendenze a volte eccessivamente decorative e lussuose assunte dalla pittura fiorentina sulla metà del secolo per la diffusione sempre maggiore del gusto gotico, con relativa accettazione di modi nordici e senesi, soprattutto ad opera di Andrea di Bonaiuto. Una vera reazione si sente nel ritorno alle forme chiuse e severe, di rigoroso disegno e plastica imponenza, proprie di Giotto. E' quanto si può constatare nella pala della cappella Strozzi in S. Maria Novella, firmata e datata 1357 (iniziata nel 1354), e nel polittico con Madonna tra Santi della Galleria dell'Accademia (proveniente dalla SS. Annunziata e già in Santa Maria Maggiore), forse di poco anteriore. Le forme staccano, nette e decise, quasi con violenza, dal fondo oro, in un isolamento da statue, accresciuto dalla focosa robustezza del colore: ché il pittore non rinuncia, pur nel rigore di una forma plasticamente disegnata e chiaroscurata, a quella vivacità cromatica di cui sempre più era andata arricchendosi negli ultimi anni la pittura fiorentina. Pertanto, nel calcolato accordo di arcaica idealità e di modi più modernamente gotici, il risultato fu, in realtà, di compromesso e di accademica pedanteria. Forse nell'affresco si sentiva più libero, perché il genere si prestava meglio alle sue aspirazioni drammatiche o magniloquenti. Così dimostrerebbero i frammenti del Trionfo della morte e del Giudizio Universale (Inferno) affrescati nella navata di Santa Croce: opera che possiede forza di suggestione nella sua teatrale tragicità, sapientemente condotta, anche dove appare l'esecuzione di un collaboratore. L'affresco dovrebbe essere stato dipinto, data la molta affinità di stile, e di sensibilità con alcune parti del sacello di Orsanmichele, verso il 1360-'65, nonostante la critica tenda a antidatarlo sul 1350: la composizione, nuova più per quella sua teatrale efficacia che iconografìcamente, fu ripresa dal Maestro del Trionfo della morte nel Camposanto di Pisa.
L'ultima opera pittorica nota dell'artista, il San Matteo e storie nella Galleria degli Uffizi, è documentata nel 1368; ma, per sopravvenuta malattia e probabile conseguente morte, l'esecuzione fu proseguita da Iacopo di Cione, che, però, si mantenne fedele ai modi del fratello.
La volontà di portare la pittura a una evidenza plastica di illusiva qualità scultorea fu certo influenzata, in A., anche dalla sua pratica di scultore. L'unica opera sicura di tale sua attività è il tabernacolo di Orsanmichele, dedicato alla Vergine, alla costruzione del quale partecipò direttamente e come "archimagister" per diversi anni sino al 1359, come indica la data unita alla sua firma (la cancellata è, però, del 1366). Il suo intervento personale è distinguibile da quello dei collaboratori, fra i quali era anche il fratello Matteo, per la più alta qualità della scultura. Le parti più belle sono l'Assunzione e la Dormitio, molto lodate dal Ghiberti e dal Vasari, la Natività, l'Annunciazione, l'Annuncio della morte, le Virtù.
Il Vasari dice Andrea Pisano suo maestro nella scultura: ed effettivamente il sacello di Orsanmichele rivela una certa dipendenza da Andrea Pisano, la cui ritmica goticità tuttavia l'Orcagna frena nell'aspirazione a modellare secondo masse larghe e compatte, evocanti talvolta il senso formale di Tino di Camaino. In sostanza, egli riesce quasi ad astrarre dal rafflinato tono francesizzante di Andrea Pisano quell'elemento giottesco che lo permeava, e ne calca l'evidenza. Ma è curioso come, preoccupato di irrobustire plasticamente la forma gotica del Pisano, l'Orcagna non dimostri affatto interessi spaziali.
Questa sua apparente contraddizione, in scultura ha veramente una ragione d'essere e un significato, tanto che trovò rispondenza in alcuni scultori vissuti tra la fine del secolo e l'inizio del seguente, come, per esempio, in Nanni di Banco: soprattutto perché l'aspirazione essenzialmente volumetrica e plastica dell'Orcagna rispondeva a un'esigenza, mai sentita in scultura dopo Nicola Pisano, di dare alla forma umana un valore architettonico e perfettamente compiuto in se stesso, come già in pittura glielo aveva dato Giotto. A. acquista perciò un'autentica importanza nella storia della scultura fiorentina, e sia pure su un piano d'ordine intellettualistico e non altamente poetico e originale.
Il tabernacolo di Orsarunichele è anche l'unica testimonianza della sua attività di architetto. Acutamente notava il Vasari che, pur essendo "di maniera tedesca", ossia gotica, esso riesce ad avere "grazia e proporzione": si riferiva probabilmente a quell'effetto di saldezza costruttiva, raccolta in alto dalla cupola, che vi è ricercato al di là della carica di elementi particolari e decorativi assai triti. Ma, veramente, egli non raggiunge una fusione dei suoi vari intenti e come opera di architettura il tabernacolo è ancora una volta esempio del cerebrale compromesso artistico dell'Orcagna. Inoltre di lui quale architetto si sa che nel 1357 partecipò al concorso per i pilastri di Santa Maria del Fiore, e che gli fu preferito Francesco Talenti; che, dal 1359 al '62 fu a Orvieto capomaestro del duomo, sempre occupandosi nel frattempo di altri incarichi a Firenze per lavori in Santa Maria del Fiore (1364) e disegni relativi (1366). Veramente, in tutti questi lavori, egli doveva fare dei progetti e dirigere, se in nessun'opera appare sicura la sua partecipazione. Nondimeno èconsiderato suo il disegno per il reliquiario marmoreo del Corporale a Orvieto. Non è dell'Orcagna la Loggia della Signoria a Firenze, sebbene ne porti il nome per tradizione.
Andrea di Cione esercitò una vasta influenza in Firenze soprattutto come pittore, a causa dei numerosi aiuti o collaboratori avuti: eppure, fra i tanti orcagneschi, o cioneschi, della seconda metà del secolo è facile vedere la comprensione più del linguaggio del fratello Nardo, oppure di Iacopo, che del suo.
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