Andrea di Cione (o Orcagna)
Pittore, scultore e architetto nato verosimilmente fra il 1315 e il 1320 e morto alla fine del 1368, attivo principalmente a Firenze e temporaneamente anche a Orvieto, menzionato nei documenti dal 1343 al 1368. Due suoi fratelli, Nardo e Jacopo, erano pittori; un terzo fratello, Matteo, scultore. Già i contemporanei attribuirono con ammirazione ad A. il significativo appellativo di Arcagnolo - da cui deriva Orcagna - e lo reputarono uno dei maggiori pittori di Firenze, come è documentato nel 1349 (Vasari, Le vite, a cura di Milanesi, 1878, p. 613).
Egli può essere considerato come il più importante esponente dell'arte fiorentina della metà del Trecento, non solo perché fu attivo nei diversi generi artistici, ma soprattutto perché nella sua opera diede espressione alle due opposte correnti spirituali rappresentate da Francescani e Domenicani, correnti che nell'arte hanno stimolato da una parte "una pittura di storie imbevuta di realismo e spazialità" e dall'altra "un'arte devozionale e concettuale che si ricollega con una certa riflessione alla tradizione del Duecento" (Perrig, 1986).
Nel 1343 A. lavorò come pittore in S. Maria Novella a Firenze per la Compagnia di Gesù Pellegrino; tra il 1343 e il 1346 risulta iscritto all'Arte dei medici e degli speziali, in cui erano organizzati come sottogruppo i pittori. Una tavola d'altare raffigurante l'Annunciazione per la chiesa fiorentina di S. Remigio (Milano, Coll. Conti Gerli) reca l'iscrizione: "Hoc opus fecit fieri Bellozzius Bartholi lanifex Andreas Cionis de Flor(entia) me pinxit" e la data 1346. La tavola era in pessime condizioni prima di essere quasi completamente ridipinta nel corso di un restauro successivo al 1947, sicché ormai non può essere quasi più considerata opera di Andrea. Quando, dopo la peste del 1348, si cercò un artista per un polittico destinato alla chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, della cui esecuzione fu poi incaricato Taddeo Gaddi, il nome di A. era incluso in un elenco dei migliori pittori (Vasari, Le vite, a cura di Milanesi, 1878, p. 613). Nel 1349 A. abitava nel quartiere di S. Giovanni presso la porta di Balla, nel popolo di S. Michele Visdomini, e dal 1354 visse nel popolo di S. Lorenzo. Nel 1352 dipinse per la Compagnia di Orsanmichele una Madonna su tavola, oggi perduta. Nello stesso anno si fece accogliere anche nell'Arte dei maestri di pietre e legnami, poco dopo aver ricevuto l'incarico per l'esecuzione del tabernacolo di Orsanmichele. Quest'opera, di cui sono conservati i pagamenti dal 1355, è firmata e datata: "Andreas Cionis pictor Florentin(us) oratorii archimagister extitit hui(us) MCCCLIX".
Tra il 1356 e il 1359 è attestata ancora la sua attività come capomastro del tabernacolo ("oratorio") di Orsanmichele. Contemporaneamente A. era impegnato in un secondo lavoro molto importante, commissionatogli nel 1354 da Tommaso di Rosello Strozzi: un polittico per la cappella della famiglia in S. Maria Novella; questa pala è firmata e datata: "Anno Domini MCCCLVII Andreas Cionis de Flore(n)tia me pi(n)xit". Quando dal giugno all'agosto del 1357 nel cantiere della cattedrale di Firenze si discuteva sulla forma da dare ai pilastri della navata, Francesco Talenti, il capomastro dell'Opera del duomo, e A. proposero ciascuno un modello. Nonostante fosse già stato approvato quello di A., venne alla fine scelto un secondo progetto di Francesco Talenti. Nel giugno del 1358 A. stipulò un contratto con l'Opera del duomo di Orvieto in cui si stabiliva che, dopo aver terminato il tabernacolo di Orsanmichele in circa quattordici mesi, egli avrebbe assunto la carica di capomastro a Orvieto con uno stipendio annuale di 300 fiorini, per un massimo di cinque anni e con un preavviso di rescissione di quattro mesi. Nell'ottobre del 1359 assunse quest'incarico portando con sé come aiuto il fratello Matteo. Il suo compito principale era quello di eseguire un mosaico per la facciata del duomo, ma rimase a Orvieto soltanto fino al marzo del 1360, ritornandovi solo in settembre per rescindere il contratto e terminare il mosaico nel giro di tre mesi. All'inizio del 1361 il mosaico fu misurato e nel settembre del 1362 ne venne fatta una stima: avanzandosi dubbi sulla sua solidità, se ne fissò il prezzo in 60 fiorini. Nell'ottobre del 1364 A. partecipò a un consulto sui lavori di costruzione della cattedrale, per definire la struttura delle pareti della navata centrale, con l'eventuale installazione di un ballatoio, e la forma delle finestre. Con un concorso, fra il luglio del 1366 e l'ottobre del 1367, si stabilì la struttura definitiva del coro della cattedrale, che prevedeva una costruzione a pianta centrale da annettere al corpo longitudinale. Questo progetto fu il frutto del lavoro collettivo di un gruppo di scalpellini e pittori, tra i quali A. ebbe una posizione preminente. Nel novembre del 1367 gli fu energicamente sollecitato il compimento di un affresco rappresentante la Madonna nella camera dell'Udienza dei capitani di Orsanmichele. Il lavoro andò per le lunghe, tanto che nel marzo del 1368 gli vennero pignorati i beni, restituitigli nel giugno successivo alla conclusione dell'opera, oggi perduta. L'Arte del cambio conferì ad A. nel settembre del 1367 l'incarico di eseguire per 40 fiorini una pala a due scomparti laterali con S. Matteo per uno dei pilastri di Orsanmichele. Poiché nel 1367-1368 A. non poté far fronte a tutti i suoi impegni di lavoro a causa dei troppi incarichi e di una grave malattia, è molto difficile che egli abbia potuto eseguire anche solo il disegno per la pala di S. Matteo. Il 25 agosto 1368 il fratello Jacopo promise ai consoli dell'Arte di realizzarne le tavole (oggi a Firenze, Uffizi).
Come è documentato nel 1377, A. era sposato con Francesca Bencini Acczucij e aveva due figlie, Tessa e Romola.
Le fonti dei secc. 15° e 16° - i Commentari di Ghiberti, il Libro di Antonio Billi, l'Anonimo Magliabechiano, Gelli e soprattutto Vasari - danno notizia, oltre che dei lavori accertati da firme e documenti, di ulteriori opere di A.; di queste, alcune si sono conservate, altre sono andate distrutte e altre ancora sono state giudicate dalla critica successiva non attribuibili al maestro.
Ghiberti, la fonte più importante, menziona come opere di A.: in S. Maria Novella la Pala Strozzi, gli affreschi della cappella maggiore del coro (frammenti degli affreschi della volta sono oggi conservati nei chiostri monumentali della chiesa) e "moltissime altre cose"; in Santa Croce "tre magnifiche istorie" che, grazie ad altre fonti, è possibile oggi identificare negli affreschi del Trionfo della morte, del Giudizio universale e dell'Inferno - di cui i frammenti sono attualmente conservati nel Mus. dell'Opera di Santa Croce - e la decorazione, perduta, di una cappella. Ancora secondo Ghiberti, A. avrebbe affrescato nella SS. Annunziata due cappelle (ambedue distrutte) e a Santo Spirito il refettorio; l'affresco della cappella Strozzi a S. Maria Novella sarebbe invece opera del fratello Nardo. Secondo Vasari A. avrebbe eseguito, all'inizio della sua attività artistica, alcuni affreschi nel Camposanto di Pisa e avrebbe anche progettato la Loggia dei Lanzi a Firenze, ma entrambe le attribuzioni sono errate; egli dovrebbe inoltre aver affrescato la facciata di S. Apollinare, notizia non verificabile a causa della distruzione dell'opera. Fonti e documenti danno comunque il quadro di un'attività straordinariamente ampia.
Fra le opere pittoriche sicuramente documentate è la tavola con l'Annunciazione, firmata e datata 1346 (coll. privata); in essa la scena si svolge senza conformarsi ad alcun modello, in un'ampia loggia di delicata struttura, la cui profondità viene evidenziata dalla veduta obliqua. Maria siede in trono sulla sinistra, davanti a una parete che si addentra nello spazio; innanzi a lei Gabriele è inginocchiato con un lungo giglio appoggiato alla spalla. Nella resa della scena, A. ha dato all'architettura una nuova funzione nella rappresentazione dell'evento, di separazione (con le due linee verticali determinate dalle colonne) e al tempo stesso di unione (con la linea orizzontale, che va dalla mano di Maria a quella dell'arcangelo). Il pittore si rivela inoltre un maestro nella costruzione planimetrica del quadro, disponendo le figure una rispetto all'altra in modo da creare una struttura a V, che da un lato mette in evidenza il vaso posto in terra fra i due personaggi, ricco di implicazioni simboliche, e dall'altro faceva da contrappunto alla cuspide (oggi perduta), alla cui sommità doveva probabilmente trovarsi, in asse con il vaso, un simbolo di Dio. Purtroppo questa tavola è totalmente ridipinta.
Nella Pala Strozzi, datata 1357 (Firenze, S. Maria Novella, cappella Strozzi), A. ha superato il principio additivo del polittico tradizionale eliminando le colonnine tortili che incorniciano le singole tavole; in tal modo egli ha operato una unificazione della superficie dipinta, dello spazio dell'immagine e della scena, in cui la struttura della cornice funge da parte integrante della rappresentazione. Al centro, in una mandorla circondata da cherubini, appare come in una visione Cristo, in posizione frontale, che porge a s. Tommaso d'Aquino, inginocchiato alla sua destra in segno di privilegio, il libro, simbolo della dottrina ecclesiastica, e a Pietro, alla sua sinistra, le chiavi, segno dell'autorità della Chiesa. Dietro ai due santi inginocchiati in primo piano, si trovano Maria e Giovanni Battista, i quali con Cristo formano la Deesis. Le coppie di figure esterne rappresentano i Ss. Michele e Caterina d'Alessandria da un lato e Paolo e Lorenzo dall'altro, che a loro volta si pongono obliquamente nello spazio uno dietro l'altro creando una diagonale che trova prosecuzione su ciascun lato nei salienti angolari della cornice. Lo spazio figurativo non è affatto eliminato, né la rappresentazione è sviluppata in modo bidimensionale, come avrebbe forse desiderato l'"antillusionismo domenicano" (Perrig, 1986) e come vorrebbero dimostrare gli studi recenti. A. ha saputo piuttosto raggiungere un equilibrio tra la tendenza all'astrazione e alla bidimensionalità e l'esigenza di una rappresentazione plastica e spaziale. È significativo che i motivi ornamentali del pavimento, che, non scalati prospetticamente, evidenziano la bidimensionalità, siano visibili coerentemente solo al di sotto del Cristo, al centro, mentre ai lati risultano inframmezzati e quindi leggibili quasi in senso spaziale. Al formarsi di uno spazio figurativo contribuisce anche il fatto che A. ingegnosamente ha staccato gli archi acuti della cornice, ornati da un fregio ad archetti, dalla superficie della pala creando fra i due piani una zona d'ombra d'indefinita profondità. Rispetto all'Annunciazione del 1346 va comunque constatata una diminuzione dell'illusionismo spaziale. Le figure hanno tuttavia una forte resa volumetrica, il modellato è compatto e le pieghe del panneggio sono caratterizzate da una fattura spigolosa.La Pala di S. Matteo (della cui esecuzione fu incaricato poi Jacopo di Cione) si differenzia in modo sostanziale dalla Pala Strozzi, tanto per ciò che riguarda la concezione generale, quanto per la composizione delle singole scene e lo stile delle figure. Già nell'impianto con la grande figura di s. Matteo al centro e le scene della sua vita ai lati (a sinistra la Chiamata e il Miracolo dell'addomesticamento del drago, a destra l'Assassinio e il Miracolo del risveglio) si rivela un consapevole ritorno alle corrispondenti tavole del Duecento; un tale ripiegamento, come ha indicato Meiss (1951), è caratteristico dell'arte del periodo successivo alla peste del 1348 ed è dovuto, come Perrig (1986) ha spiegato in modo persuasivo, all'influsso crescente del pensiero e dell'attività dei Domenicani. È inoltre significativo che si possa qui parlare davvero di un predominio della superficie e del fondo d'oro e di una forte diminuzione dell'illusionismo spaziale e volumetrico. A riprova del fatto che la Pala di S. Matteo debba essere stata non solo eseguita ma anche ideata da Jacopo vale la sua stretta affinità stilistica con le tavole della predella del polittico di S. Pier Maggiore (oggi divise tra vari musei) e con la Crocifissione e santi della Nat. Gall. di Londra, entrambe opere di Jacopo. "La legge stilistica di queste tavole è l'astrazione" (Steinweg, 1929).Non si tratta comunque del momento finale dello sviluppo artistico di A. interrotto bruscamente dalla morte, bensì dell'inizio del percorso autonomo di Jacopo dopo la scomparsa del fratello.
Numerose opere pittoriche sono attribuite ad A. dalle fonti. Le testimonianze letterarie non lasciano dubbi sul fatto che A. abbia dipinto in Santa Croce un affresco con il Trionfo della morte, il Giudizio universale e l'Inferno; sulla base dei frammenti conservati le datazioni proposte per l'affresco oscillano tra il 1360-1365 o intorno al 1345. Lo spiccato interesse per la raffigurazione spaziale (per es. nella scena del terremoto) e per la corporeità plastica e le proporzioni armoniose delle figure devono far collocare l'affresco nel primo periodo dell'attività di A., dunque verso il 1345. Si spiega così anche la vicinanza artistica a Maso di Banco sottolineata da Gronau (1937). Maso e Taddeo Gaddi esercitarono un influsso fondamentale sul giovane A.; si ignora tuttavia presso chi egli abbia svolto il suo periodo di apprendistato. L'impronta di Maso è ancora più evidente nell'affresco con la Cacciata del duca d'Atene (Firenze, Palazzo Vecchio) che risale forse a non molto tempo dopo l'avvenimento (1343).
A. eseguì per Tommaso Baronci affreschi con scene della vita di s. Tommaso nella cappella di S. Ansano in S. Maria Maggiore a Firenze e un trittico con la Madonna tra Maria Maddalena e s. Ansano. Il trittico (Amsterdam, Rijksmus.) è datato 1350, probabilmente l'anno in cui l'opera venne terminata. Strettamente affine dal punto di vista stilistico è il pentittico della SS. Annunziata a Firenze (Firenze, Gall. dell'Accademia); le proporzioni tozze delle figure fanno pensare a un forte stacco cronologico dalla Pala Strozzi e forse anche a una datazione anteriore rispetto al trittico (1347-1348).
La decorazione della cappella maggiore del coro di S. Maria Novella venne iniziata nel 1348, anno in cui fu deciso che i Tornaquinci, i quali intendevano assumersi le spese della decorazione, non avrebbero avuto il diritto di sepoltura nella cappella, ma avrebbero potuto apporvi il loro stemma. Tale restrizione era dovuta al fatto che i Ricci avevano il diritto di patronato sulla cappella. Per il gigantesco lavoro si può supporre la durata di un lustro e la collaborazione di aiuti. I frammenti della decorazione della volta (1348-1349) consentono di distinguere la mano di A. e di altri due pittori, uno dei quali eseguì anche gli affreschi della Natività e della Crocifissione nella cappella sepolcrale dei TornaquinciTrinciavelli che è addossata al lato posteriore del capitolo di S. Maria Novella e si apre sul chiostrino dei Morti. Durante il lungo lavoro a questi affreschi A. trasformò il suo linguaggio artistico orientandolo verso quelle modalità espressive che si colgono nella Pala Strozzi. L'affresco della Crocifissione nel convento fiorentino di S. Marta, fondato nel 1342, presenta affinità stilistiche con la Pala Strozzi: potrebbe essere considerato come la testimonianza di quel mutamento e risalire al 1353-1354.
Durante gli anni successivi, A. fu occupato prima, dal 1354 al 1359, con la Pala Strozzi, con il tabernacolo di Orsanmichele (ed episodicamente con il cantiere della cattedrale di S. Maria del Fiore) e poi, nel 1359-1360, con il mosaico per la facciata del duomo di Orvieto. Gli affreschi con l'Ultima Cena e con la Crocifissione nel refettorio di Santo Spirito, a cui A. probabilmente lavorò con il fratello Nardo, mostrano la capacità del maestro di esprimere con incisiva drammaticità un'intima commozione, ricorrendo tanto a un linguaggio mimico e gestuale, quanto a mezzi figurativi e compositivi. La stretta vicinanza delle figure a quelle della Pala Strozzi suggerisce una datazione agli anni 1361-1363. L'affresco nacque dunque in diretta concorrenza con quello di Taddeo Gaddi nel refettorio di Santa Croce; con queste due opere ha inizio la lunga serie di decorazioni di tal genere nei refettori.
Il trittico con la raffigurazione della Pentecoste (Firenze, Gall. dell'Accademia, proveniente dai Ss. Apostoli) è la terza pala d'altare di A. conservata: le tre tavole, di cui la centrale è più larga, terminano con un arco a pieno centro. La cornice, malgrado sia incompleta, ha un carattere spiccatamente architettonico e suggerisce il motivo dell'arco trionfale. Il trittico è concepito in modo unitario tanto nella superficie e nello spazio quanto nell'azione scenica. La Vergine, che sembra quasi librarsi in aria, è inginocchiata al centro attorniata da sei apostoli pure genuflessi; altri tre apostoli appaiono su ciascuna delle tavole laterali. A. ha raggiunto qui, come precedentemente nella Pala Strozzi, una rara armonia di ordinamento planimetrico e spaziale, di presenza corporea e di spiritualizzazione. Nello stile delle figure e nel colore è avvertibile l'influsso di Giovanni da Milano e ciò suggerisce una datazione al 1365-1367. La Madonna dell'Umiltà di Washington (Nat. Gall. of Art) potrebbe rappresentare l'ultima opera pervenuta di Andrea. Le opere degli anni sessanta dimostrano che la pittura di A. non sfociò in quel rigido schematismo che caratterizza il trittico di S. Matteo, ma che il maestro si orientò piuttosto verso un linguaggio formale sempre più libero.
Tra le opere architettoniche e plastiche, il tabernacolo di Orsanmichele colpisce in primo luogo per la ricchezza ornamentale del trattamento di superficie, per la incrostazione policroma e per la decorazione scultorea. Il tabernacolo, a pianta quadrata, è posto su una base di tre gradini. Quattro pilastri angolari, collegati da arcate a tutto sesto, sostengono una volta a crociera costolonata sopra la quale si eleva il coronamento che ha quattro pinnacoli in corrispondenza dei pilastri angolari, collegati tra loro da timpani triangolari. Questi ultimi elementi circondano una cupola con otto spicchi su tamburo. Le arcate sono chiuse da basse balaustre che creano una sorta di zoccolo, la zona interna del tabernacolo è accessibile solo attraverso una minuscola porticina nel retro. L'arcata posteriore è del tutto chiusa non solo dalla balaustra, ma anche da un muro pieno. Questo muro, in cui si trova una scala strettissima che conduce alla parte superiore, reca nella parte interna al tabernacolo l'immagine votiva dipinta nel 1347 da Bernardo Daddi e in quella esterna il monumentale rilievo con la Morte e l'Assunzione di Maria, con cui si conclude il ciclo di rilievi con scene della Vita della Vergine nello zoccolo. Con l'idea formulata in questo tabernacolo, di una cupola a otto spicchi su un tamburo, A. poté influenzare in modo determinante il progetto del coro del duomo di Firenze nel 1366-1367. La Loggia dei Lanzi a Firenze, attribuita dalle fonti ad A., non può essere sua opera dato che fu costruita solo nel 1376-1380.
Il tabernacolo è decorato con ca. 120 sculture. A. poté eseguirle solo con l'aiuto di altri scultori, fra cui probabilmente suo fratello Matteo. Il progetto unitario fu comunque del maestro, che dovette imporre con estrema severità agli esecutori di attenervisi rigorosamente. Lo dimostra chiaramente il fatto che compaiono spesso figure, come per es. i due angeli con la scritta "Ave Maria" e i due con la scritta "Gratia plena", la cui perfetta analogia, nonostante le mani diverse, rimanda a un modello comune. A. seppe imporre una cura straordinaria anche nell'esecuzione dei minimi dettagli decorativi; tra le figure scolpite del tabernacolo e quelle dipinte della Pala Strozzi, dello stesso periodo, c'è una sostanziale concordanza di concezione, visualizzata con materiali diversi. Ciò appare chiaramente se si confrontano per es. le figure di Maria e Tommaso nel rilievo dell'Assunzione e quelle di Cristo e di Pietro nella pala o la statuetta dell'angelo con la scritta "Ave Maria" e il s. Michele nella pala. I rilievi della Vita di Maria si presentano come immagini scolpite in cui, come nelle figure dipinte da A., la struttura compositiva è in rapporto con una superficie ideale, e questa e lo spazio del rilievo si compenetrano a vicenda in una sintesi armoniosa. A. sviluppò dunque il rilievo oltre lo stile di Andrea Pisano, in direzione di quello di Ghiberti. Al tempo stesso raggiunse "grazie a una certa caratterizzazione materiale, una nuova oggettività imitativa" (Messerer, 1959) che emerge nel modo più evidente nei rilievi della Nascita di Maria e dell'Annuncio della morte.
Al contrario di ciò che è avvenuto per i dipinti, sono ben poche le attribuzioni che hanno ampliato il numero delle opere plastiche di Andrea. In tempi recentissimi gli sono stati attribuiti un grande crocifisso in S. Carlo presso Orsanmichele, una statua di Maria, parte di una rappresentazione dell'Annuncio della morte, che doveva trovarsi in origine sulla facciata della cattedrale di Firenze (attualmente sulla porta dei Cornacchini) e una statua della Beata Umiltà in S. Michele a S. Salvi a Firenze. Anche per il monumento funerario di Niccolò Acciaiuoli (m. 1365) nella cappella di Tobia nella certosa del Galluzzo, presso Firenze, si è pensato a una paternità di A., paternità che è invece da escludere per le tre lastre sepolcrali della medesima cappella.
A., in quanto pittore, ha potuto dare alla scultura, in particolare al rilievo, nuovo impulso e, per converso, la sua attività di scultore e il suo lavoro sulle forme plastiche hanno certo contribuito sostanzialmente al fatto che nei suoi dipinti non sia mai venuta meno la tridimensionalità e che piuttosto vi si sia sempre manifestata una tendenza verso un equilibrio fra astrazione e nesso compositivo della rappresentazione da un lato e illusionismo spaziale e plastico dall'altro.
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A. Perrig, Masaccios "Trinità" und der Sinn der Zentralperspektive, MarbJKw 21, 1986, pp. 11-43.
G. Kreytenberg, L'Enfer d'Orcagna. La premi'ere peinture monumentale d'apr'es les Chants de Dante, GBA (in corso di stampa).