ANDREA di Ugolino (A. Pisano, A. da Pontedera)
Nacque a Pontedera (Bonaini 1846), figlio di un Ser Ugolino di Nino notaio pisano, il cui nome ricorre in documenti riguardanti la primaziale di Pisa. Attivo tra il 1330 e il 1348, è ignoto l'anno della sua nascita come quello della sua morte.
Il Ghiberti afferma "fu nell'Olimpia 410", dato questo che presso l'Anonimo Magliabechiano si trova trasformato in "420". Secondo il calcolo di J. von Schlosser, l'Olimpiade 410 del Ghiberti corrisponde agli anni 1297-1301, l'Olimpiade 420 invece agli anni 1347-1351. È questa la data che lo Schlosser accetta, ritenendo che il Ghiberti abbia voluto riferirsi alla data di morte di A., ma la frase ghibertiana che comincia con un "fu" sembra voler alludere agli anni dell'operosità di Andrea. Più plausibile sembra dunque il calcolo del Krautheimer, secondo il quale l'Olimpiade 420 cadrebbe negli anni tra il 1325 e il 1330, anno quest'ultimo in cui A. cominciò l'impresa sua maggiore, quella della porta del Battistero di Firenze. Nessuna luce viene dunque dai Commentari per quanto riguarda l'anno di nascita di Andrea. Il Vasari nella prima edizione (1550) delle Vite, dopo aver specificato che fu attivo "circa gli anni MCCCXXXXIX" (certo uno sbaglio di stampa per MCCCXXXIX), lo dice morto settantenne nel 1340;nella seconda edizione (1568) invece lo vuole operoso "intorno agli anni di nostra salute 1340" e morto settantacinquenne nel 1345, ciò che porterebbe la sua nascita al 1270. Ma come la data di morte è errata, così non è possibile fidare troppo nella notizia vasariana riguardante l'età di Andrea. La maggior parte dei critici ne pongono comunque, oggi, la data di nascita verso il 1290.
Le prime notizie sicure riguardano la porta bronzea del Battistero di Firenze, che èfirmata "Andreas Ugolini Nini de Pisis" e datata 1330, data che va riferita agli inizi dell'impresa. Le complicate vicende della lavorazione sono conosciute attraverso un certo numero di documenti dell'Arte di Calimala (dei Mercanti), che aveva commesso l'opera e che era investita fin dal XII secolo del controllo e dell'amministrazione dell'edificio. Tali documenti, pubblicati da K. Frey nella sua edizione delle Vite del Vasari (v. anche I. Falk, 1940), non sono però conservati negli originali, probabilmente bruciati nell'incendio che nel secolo XVIII devastò i locali dell'Arte, ma solo nello spoglio secentesco del senatore Carlo Strozzi (Archivio di Stato di Firenze); altre notizie vengono dalle Croniche di Giovanni Villani, che fu delegato dall'Arte di Calimala a sovraintendere ai lavori e dagli Annali del contemporaneo Simone della Tosa.
Desiderosi di ornare il monumento affidato alle loro cure, i consoli dell'Arte avevano in un primo tempo, nel 1322, divisato di far eseguire i battenti in legno, ricoperti di metallo, pensando forse di affidarne l'incarico a Tino di Camaino, allora attivo attorno all'edificio. Nel 1329 le idee dei consoli erano evidentemente cambiate e si desiderava ora una porta interamente di bronzo che emulasse quelle più antiche della città rivale, Pisa: l'orafo fiorentino Piero di Iacopo venne inviato a Pisa a disegnare le grandi imposte bronzee di Bonanno e a Venezia a cercarvi abili fonditori. Nel gennaio del 1330 cominciarono i lavori.
A. vi ebbe come aiuti gli orafi Piero di Iacopo (fino al 17 nov. 1332), Lippo di Dino (ricordato negli anni 1331-32) e Pietro di Donato (tra il 19 ott. 1331e il 25 ott. 1335). Il 2 apr. 1330 appare compiuto il modello in cera; a questo proposito stato però notato come, data l'estrema brevità del tempo trascorso, si dovette trattare probabilmente solo del modello dell'intelaiatura generale. Il 10 genn. 1332 la commissione della porta è confermata ad A. e a Lippo Dini. Il 27apr. 1332 viene licenziato il maestro fonditore veneziano Lionardo d'Avanzo, che insieme con due suoi aiutanti doveva allora aver terminato la fusione della intelaiatura dei due grandi battenti, su cui vennero successivamente fissate le ventotto formelle dorate (venti scene della Vita del Battista e otto Virtù) entro compassi mistilinei. Una parte almeno delle formelle deve, però, a questa data essere già stata fusa, poiché il Villani afferma che le "figure... formate in terra e poi pulite e dorate... per un Maestro Andrea Pisano... gittate furono a foco di fornelli per maestri veneziani" e col termine di "figure" si riferisce evidentemente alle scene e non solo ai battenti. Il 24 marzo 1333 è finito il primo battente; nello stesso anno comincia la doratura che si prolungherà fino al 1336, e ad A. è affidata l'esecuzione di ventiquattro teste di leone per il secondo battente; verso la metà del 1335 ambedue vengono messi in opera. Essi risultarono gravemente difettosi ed A. accettò l'incarico - rifiutato da Pietro di Donato - di raddrizzarli. Finalmente il 20 giugno 1336 avvenne l'inaugurazione ufficiale con la pesatura dei residui e poco dopo la porta dovette essere collocata a posto (in ogni modo prima del 6 febb. 1338 quando vennero messe le soglie di marmo), probabilmente, come si sa dagli Annali di S. della Tosa, sul lato orientale dei Battistero di fronte alla cattedrale, da cui fu rimossa e portata sul lato meridionale (di fronte al Bigallo) quando nel 1424 fu finita la prima porta del Ghiberti.
Alla morte di Giotto (8 genn. 1337) A. gli successe nella carica di capomaestro dell'Opera del Duomo, occupandosi specialmente dei lavori del campanile. Così afferma almeno il Centiloquio di A. Pucci, perché i documenti tacciono fino a quando, il 26 apr. 1340, in un atto che riguarda un colloquio che si tenne per decidere sull'erezione della nuova canonica, si trova citato un A. come capomaestro dell'Opera. Il nome non è ulteriormente specificato attraverso il patronimico o il luogo d'origine, ma, data anche la coincidenza con la contemporanea fonte letteraria, si deve ritenere che si tratti proprio dell'autore della porta. Non è possibile ricostruire per via documentaria il suo intervento nei lavori del campanile. Dal testo del Pucci si ricava che egli condusse il lavoro per un pezzo "con affanni", fino a che, "per un lavorio che mosse vano, e che fu fatto per miglioramento", fu revocato dalla carica. Di una partecipazione avuta da A. alla decorazione plastica del campanile parlano - in mancanza di documenti - i testi del Ghiberti e del Vasari; ma la questione è complicata dal fatto che ambedue questi autori, mentre accennano a una collaborazione di A. con Giotto per quanto riguarda il primo ciclo di rilievi (Storie della Genesi, Le Arti meccaniche ed i loro inventori), gli attribuiscono con sicurezza solo il secondo ciclo (Pianeti, Virtù, Arti Liberali e Sacramenti), i cui modi spesso non concordano con quelli sicuri di A. nelle formelle della porta. Il significato iconografico di questo ciclo è stato studiato particolarmente dallo Schlosser (1896).
Quanto alla ragione del presumibile allontanamento di A. da Firenze, si è anche proposto che la causa ne sia stata non una critica al suo operato nel campanile, ma la caduta del duca d'Atene, di cui, secondo il Vasari, A. sarebbe stato l'architetto. Non esiste, però, alcuna evidenza documentaria neanche in questo senso. Certo è che i lavori al campanile ristagnarono fino a quando la direzione fu assunta da Francesco Talenti, il cui nome si incontra per la prima volta, in relazione a questi lavori, in un documento del 5 genn. 1351. È verosimile che la grave crisi economica che aveva colpito Firenze sia stata causa della sospensione dei lavori e dell'allontanamento di Andrea.
Il suo nome si trova poi in una serie di documenti orvietani del 1347-48 in cui è ricordato come "Andrea de Pisis capudmagister nove ecclesie maioris Urbisveteris". Anche in questo caso non esiste la perfetta sicurezza che l'A. de Pisis ricordato dai documenti sia A. d'Ugolino autore della porta del Battistero fiorentino; pure si può considerare la cosa come sicura, dato che documenti successivi fanno parola di un Nino figlio del capomaestro A., nome che collima perfettamente con quello di Nino figlio di Andrea Pisano e dato che nel Museo dell'Opera del Duomo di Orvieto esiste una Madonna molto vicina ai suoi modi. L'arrivo ad Orvieto deve essere avvenuto nel maggio del 1347, visto che i due primi documenti che concernono A. si riferiscono all'allestimento di una casa per sua dimora (14 maggio 1347) e all'esecuzione (24 maggio) di attrezzi per suo uso (due scalpelli e una gradinella). Ad Orvieto per prima cosa A. si occupa (agosto 1347) di policromare e impannare un gruppo statuario (forse la Maestà di Lorenzo Maitani sulla porta principale). Un documento successivo (1 apr. 1348) indica che durante il periodo della sua direzione furono fatti dei restauri alle sculture della facciata. Che cosa avesse fatto A. tra il suo allontanamento da Firenze (probabilmente avvenuto nel 1343) ed il suo arrivo ad Orvieto non è noto. È possibile che fosse ritornato a Pisa e vi avesse stabilito una bottega di scultore, ipotesi questa che è confermata anche dall'esistenza in Pisa di un gruppo di opere prossime ai suoi modi eseguite verso il 1343-45, e dal fatto che durante il periodo della sua direzione del cantiere orvietano si mandò a Pisa (3 marzo 1348) a prendere una Maestà già scolpita e due blocchi di marmo per farne gli angeli. Questa Maestà venuta da Pisa è stata identificata con buone probabilità (J. Lányi, 1933; P. Cellini, 1933) in una statua della Madonna col Bambino che è ora al Museo dell'Opera dei Duomo, assieme ai frammenti mutili di due angeli. Si è anche proposto (Cellini, 1933) che si tratti della stessa Maestà che secondo documenti del 1348 sarebbe stata posta a decorare la lunetta della porta della Pustierla sul fianco sinistro della cattedrale (ma, in contrario, si veda J. Lányi, 1934). I compiti di A. ad Orvieto lo obbligano a spostarsi per cercare marmi per la facciata: a più riprese nel 1347 e nel 1348 si reca a Pisa e a Siena con questo scopo. L'ultimo documento orvietano che lo riguarda è del 24 apr. 1348. Nel 1349 compare nei documenti il nome del figlio Nino che sembra essergli successo nella carica dal 19 luglio di quell'anno. La lettura del documento che comincia "Magistro Nino M. Andree caput magistrorum operis..." non è però completamente sicura. In ogni modo, anche l'eventuale successione di Nino non indica automaticamente la scomparsa di Andrea. Infatti i documenti del 22 ott. e 17 nov. 1349 parlano di Nino "magistri Andree" senza far precedere il nome del padre dal "quondam" o dall'"olim" di prammatica nel caso di defunti. Quest'indicazione si trova solo in un documento riguardante Nino del 1358 (v. Pope-Hennessy, 1958).
Il Vasari lo dice sepolto in Santa Maria del Fiore e riporta l'epitaffio - che il Milanesi stima posteriore di circa un secolo - della sua tomba: "Ingenti Andreas iacet hac Pisanus in urna/ Marmore qui potuit spirantes ducere vultus/ Et simulacra Deûm mediis imponere templis/ Ex aere, ex auro candenti, et pulchro elephanto". L'erudito settecentesco Domenico Moreni segnala di aver trovato in un codice la notizia della collocazione della tomba, che era situata dietro il pulpito nella navata destra della chiesa. Poiché - anche se la tomba è oggi scomparsa - la notizia sembra plausibile, ciò può significare che A. sia morto a Firenze, oppure che, morto altrove, i suoi resti siano stati portati a Firenze e fatti segno a particolari onori trattandosi delle spoglie di un cittadino fiorentino. Quest'ultima interpretazione si basa però sulla notizia - riferita da Simone della Tosa ma taciuta dai documenti - che A., a ricompensa dell'esecuzione della porta, fosse stato fatto cittadino fiorentino. A. lasciò due figli, Nino e Tommaso, i quali furono ambedue scultori.
La formazione di A. dovrebbe essersi svolta a Pisa, visto che sulla porta fiorentina (e sui documenti che la riguardano) compare a proposito di A., e malgrado la diversa nascita, l'indicazione "de Pisis". Ora a Pisa tra il 1290 e il 1315 - termini estremi entro cui si può porre la formazione di A. a seconda della data della sua Pascita - dominavano i modi di Giovanni Pisano, dai quali A. non sembra esser stato profondamente toccato. Scartata decisamente, dopo la chiarificazione del Barsotti (1905), l'identificazione di A. con quell'"Andreuccius famulus magistri Iohannis" proposta dal Ciampi (1810) sulla base di un nome letto in un documento pisano, identificazione che era stata tenuta per ferma e sicura per tutto l'Ottocento, non v'è alcun bisogno di postulare un alunnato di A. presso Giovanni, alunnato di cui non si scorge traccia decisiva.
Le ipotesi sulla formazione di A. si possono riassumere in quattro e cioè: 1) A. si sarebbe formato nell'ambiente degli orafi pisani: per due volte infatti egli è qualificato come orafo nei documenti dell'Arte di Calimala e un documento fiorentino del 1334testimonia che gli venne commissionato un sigillo per "bollar i panni franceschi"; inoltre il Vasari ricorda un piccolo Crocifisso bronzeo spedito da A. al papa in Avignone, tramite Giotto; notizia leggendaria che potrebbe però essere stata originata dalla notoria attività di A. come orafo. L'opera per la quale fu chiamato a Firenze rileva poi più dall'oreficeria che dalla scultura. Il Wulff - il cui parere è riportato dal Volbach (1924) - pensache possa avere avuto dei contatti con Andrea di Iacopo di Ognabene attivo verso il 1314 ai rilievi del paliotto di San Giacomo della cattedrale di Pistoia (gran parte dei rilievi ritenuti di Andrea di Iacopo sono stati dal Ragghianti, in La Critica d'Arte, n. s., II[1955], datati anteriormente e attribuiti a un maestro più antico. Si veda anche E. Steingräber, in The Connoisseur, nov. 1956). Più recentemente sono state messe in rapporto con la formazione di A. cinque placchette (Pisa, Museo nazionale di S. Matteo) che originariamente ornavano la "Cintola" della cattedrale pisana (pubblicata per la prima volta da P. Toesca - che le ha avvicinate alla scuola di Nicola Pisano - in Arti Figurative, II[1946],pp. 34ss.); ad esse - come ai rilievi pistoiesi - hanno fatto riferimento il Salmi (corso tenuto all'università di Roma nel 1949-50) e recentemente (1959) il Wundram. 2) A. avrebbe avuta una diretta esperienza di opere francesi. Quest'ipotesi, che è stata più volte avanzata - sia pure con qualche genericità - da storici francesi (M. Reymond, 1897; L. Lefrançois-Pillon, 1906), è stata ripresa in modo più puntuale da B. Haendcke (1915), da M. Weinberger (1937) e ultimamente da I. Toesca (1950); v. anche Weinberger (1953); E. Castelnuovo (1952). Si tratterebbe di un contatto con testi francesi la cui ispirazione sembra discendere dal felice momento neo-attico dei più antichi bassorilievi di Sens e di Amiens e di cui si avvertono indiscutibili echi, mediati o diretti, nell'opera di Andrea. Appaiono vicini ai modi di A. i rilievi con Storie della Vergine, all'esterno dell'abside di Notre-Dame a Parigi (soprattutto quello con i Funerali della Vergine), i frammentidello Jubé di Bourges, le Storie della Genesi della cattedrale di Auxerre e alcune sculture della cattedrale di Meaux (timpano del "Portail Maugarni" ora al Louvre) e di Mantes. L'esperienza della plastica francese potrebbe essere anzi stata mediata ad A. da opere di oreficeria transalpina, facilmente trasportabili e importate in gran numero in Italia. Le gravissime perdite subite nel tempo dalla oreficeria gotica francese non permettono però una precisazione ulteriore. Occorre infine ricordare che artisti francesi operavano in Toscana nelle prime decadi del Trecento e che nelle immediate vicinanze di Pisa esistevano sculture francesi (v. U. Middeldorf - M. Weinberger, Toskanische Figuren des frühen 14. Jahrh's in Toskana, in Pantheon, I[1928], p. 187). 3) A. si sarebbe formato a contatto dell'ambiente senese e la sua reazione a Giovanni Pisano sarebbe parallela a quella di scultori come Tino, Agostino di Giovanni, Goro di Gregorio (di cui il Carli ha accennato - Goro di Gregorio, Firenze 1946 - a una possibile formazione di orafo), ecc. Questa tesi, che tende a diminuir l'apporto francese nella formazione di A., è stata sviluppata (1959) dal Wundram. 4) A. avrebbe lavorato da giovane al cantiere orvietano, uno dei principali centri italiani - con la Napoli angioina - di diffusione dei modi gotici francesi.
Il Milanesi, nel commento al primo volume delle Vite vasariane, propose di riconoscere la mano di A. in un gruppo di rilievi del duomo di Orvieto che sarebbero stati eseguiti allorché era capo-maestro. Scartata questa ipotesi - dato che i rilievi sono oggi ritenuti unanimemente più antichi del 1347 - si pone la questione se queste opere abbiano avuto o no influenza sulla formazione di A. (G. de Francovich, 1927-28), e se sia possibile scorgere in certe parti un suo intervento diretto avvenuto in Orvieto, o - se si accetta la tesi ripresa dal Cellini (1958) per cui gran parte delle lastre sarebbero arrivate già scolpite - una sua attività presso il cantiere del Monte Cetona ove i marmi venivano lavorati. Rimane poi da chiarire con quale dei due principali maestri dei rilievi orvietani (che da qualche parte si è suggerito possano avere lavorato in tempi diversi) siano intercorsi questi contatti. Appare indubbio che essi debbano essere esistiti con lo scultore dei due pilastri centrali (come sembra suggerire P. Toesca, 1951; v. anche E. Castelnuovo, 1952). Interessante per i rapporti tra A. e l'Umbria un'inedita formella assai corrosa con la Creazione di Eva nel Museo dell'Opera del Duomo di Perugia. Le varie ipotesi sulla formazione di A. non appaiono fra loro contraddittorie, in quanto un'esperienza di certa scultura gotica francese potè derivargli dall'ambiente degli orafi, e un giovanile soggiorno orvietano può avergli fornito un diretto contatto con la pittura senese (in particolare con Simone Martini; v. I. Toesca, 1950).
Prima della porta fiorentina non si conosce alcuna opera che ad A. sia attribuibile con sicurezza. Il Ghiberti - e questa notizia è ripresa dal Vasari - ricorda che A. a Pisa lavorò molto a S. Maria a Ponte (della Spina) e sembra alludere così ad una sua partecipazione alla decorazione esterna dell'edificio, ma nessuna scultura, di quelle fino ad oggi conservate, sembra della sua mano. Due sono le opere che ad A. sono state attribuite e che sarebbero anteriori alla porta fiorentina, ed ambedue si trovano a Pisa: una Annunciata lignea, già in S. Domenico e ora nel Museo nazionale di S. Matteo, che porta nello zoccolo ottagono i nomi di Stefano Accolti e di Agostino di Giovanni (forse i committenti dell'opera) e la data 132? (l'ultima cifra è incerta e non è affatto sicuro si tratti di un 1 come spesso è stato letto). L'attribuzione ad A. dell'opera (Carli, 1947; Valentiner, 1947) non è stata unanimemente accettata (I. Toesca, 1950; P. Toesca, 1951; ma vedi Pope-Hennessy, 1951), ma è indubbio che forti somiglianze esistono tra il volto della Vergine e quello di molti personaggi femminili della porta. L'altra opera è una lunetta marmorea con S. Martino e il mendico nella chiesa di S. Martino, che da più parti è stata attribuita ad A. o alla sua bottega pur con spostamenti di data tra chi la voleva vedere opera giovanile e chi la riteneva eseguita con la collaborazione di Nino, e quindi più tarda. Gli interessanti rapporti con le sculture del duomo d'Orvieto rilevati da W. Valentiner (1927) che spinsero il Carli (1934) a supporla opera di Francesco Talenti, che ad Orvieto è segnalato nel 1325 e successivamente subentrerà ad A. come capomaestro del campanile, starebbero a provare le possibilità di una datazione precoce.
Un soggiorno veneziano, immediatamente anteriore alla venuta a Firenze, cui accenna dubitativamente il Vasari e di cui si parla successivamente nell'edizione fiorentina del 1788 dell'Abecedario Pittorico dell'Orlandi, non è impossibile, né, per quanto non documentato, in contrasto coi documenti che vogliono che Piero di Iacopo sia andato - dopo Pisa - a Venezia per cercare abili fonditori e che sia di là ritornato in patria con Lionardo d'Avanzo. Opere di A. dovevano in ogni caso essere conosciute in Toscana prima del compimento della porta, visto che in stretto rapporto con i modi di A. si colloca il rilievo con il Battesimo di Cristo del fonte battesimale di Rosia, datato 1332 (Wundram 1959).
Le prime opere fiorentine sono le formelle della porta del Battistero di San Giovanni. L'organismo complessivo dei due battenti, diviso da scomparti quadrati disposti in sette registri sovrapposti, è derivato probabilmente, per esplicita volontà dei committenti, dalle porte pisane di Bonanno. Iconograficamente le scene fiorentine derivano per la maggior parte da un ciclo di mosaici con Storie di s. Giovanni all'intemo dell'edificio (I. Falck, J. Lányi, 1943); in certi casi ibridate da varianti e innovazioni derivate dall'analogo ciclo giottesco della cappella Peruzzi in Santa Croce. Il Manetti - nella vita del Brunelleschi - e il Vasari parlano di un disegno giottesco per la porta e certo è che, a parte i suggerimenti iconografici, tutta l'impostazione delle scene è di concezione giottesca. Ma il problema va impostato non tanto sull'esistenza di un preciso disegno quanto sull'influenza che l'opera di Giotto produsse sullo stile di A., influenza che fu profonda e determinante. Rivelatore di meditazioni spaziali di tipo giottesco è, tra l'altro, il listello, sorretto da mensole, su cui posano le figure nella maggioranza delle formelle (23 su 28) che funge da piano di posa e suggerisce la profondità di un nuovo spazio. Scene come quelle dell'Imposizione del nome a Giovanni, della Visita dei discepoli al carcere, della Decollazione del santo, di Salomè ed Erodiade sisvolgono in uno spazio ben determinato, da elementi architettonici, completamente giottesco. Ma l'influenza di Giotto si esercita sulla struttura stessa dei personaggi e sulla stessa concezione del rilievo, trasformando completamente i suggerimenti nordici. Questi sono vivissimi, e già molto indicativi sono i compassi mistilinei - tipicamente gotici e transalpini - che all'interno delle formelle incorniciano le scene. Il flusso dei panneggi, prepotentemente gotico, è contenuto da una serena e classica armonia; in questo senso uno dei raggiungimenti più alti è attinto nel Trasporto del corpo del Battista. Difficilmente si può stabilire una successione cronologica nei rilievi della porta. È probabile che le formelle delle Virtù siano state eseguite per ultime, per la maggior sintesi plastica che rivelano (I. Toesca).
Si apre successivamente il problema della partecipazione di A. alla costruzione del campanile e alla sua decorazione. L'innovazione - cui fa cenno il Pucci - "fatta per miglioramento" è stata identificata ipoteticamente dal Nardini (1886) nel raddoppiamento dell'ordine delle formelle, originariamente concepito da Giotto, in modo da innalzare il basamento della torre e nell'introduzione, nella seconda sezione dell'edificio, di una coppia di lesene per faccia con conseguente arretramento della massa muraria. Poiché Giotto, come si apprende dall'anonimo commentatore bolognese di Dante della fine del Trecento (v. Vasari, Vite, 1878, I, p. 371),era stato criticato per non aver dotato la costruzione di una base ("ceppo da pié") sufficientemente larga, questa modifica può essere considerata apportata a fine di "miglioramento", come quella appunto di cui parla il Pucci. Il fatto che le lesene non trovino continuazione nella parte superiore dell'edificio dove si trovano i finestroni disegnati da Francesco Talenti e la presenza, nella seconda sezione, di ampie nicchie per ospitare statue, indice questo di un vivace interesse plastico, fanno concludere con molta probabilità che questa seconda sezione del campanile è quella disegnata da Andrea. Quanto al problema delle formelle del secondo ordine, è da ritenere che A. abbia cominciato a lavorare alla decorazione plastica del campanile prima della morte di Giotto e che successivamente, avendo assunto la carica estremamente gravosa di capomaestro dell'Opera del Duomo, abbia affidato l'esecuzione di gran parte delle sculture del secondo ciclo a collaboratori e allievi che operavano generalmente su suoi disegni. Fra gli scultori che hanno lavorato ai rilievi del secondo ordine sono Alberto Arnoldi, cui L. Becherucci (1927) ha attribuito i Sacramenti e il Valentiner (1949) alcune Virtù, e forse Francesco Talenti - come propone A. Venturi (1906), che gli attribuisce la serie dei Pianeti - della cui attività come scultore non si conosce però alcun testo sicuro.
Quanto ai rilievi del primo ordine, Pucci, Ghiberti e Vasari affermano una partecipazione di Giotto sia diretta, sia mediata attraverso "provvedimenti" e modelli. Quest'affermazione rimane peraltro estremamente discussa nei suoi termini, in quanto i "primi intagli" di cui parla il Pucci o "le prime due storie" cui accenna il Ghiberti - quelle cioè con fatti della Genesi - sembrano assai vicine ad Andrea. È molto probabile che Giotto non abbia partecipato direttamente all'impresa "intagliando" qualche storia, ma che abbia al più fornito, in qualche caso, dei disegni che sono stati completamente e personalmente trasformati da Andrea. Infatti per molti rilievi - che peraltro presentano indubbiamente i caratteri di A. o della sua bottega - è possibile condurre un parallelo con composizioni giottesche: così fra la Creazione di Adamo e un medaglione nella cappella degli Scrovegni (Valentiner, 1947); tra Jabel o la Pastorizia e la scena padovana di Gioacchino tra i pastori; rapporti con Giotto possono trovarsi anche nelle formelle di Tubalkain, di Jubal, della Navigazione e dell'Aratura. Ad A., talora aiutato da collaboratori di minore altezza artistica, debbono essere attribuiti tutti i rilievi del primo ciclo, tranne quelli del Farmacista (forse di Alberto Arnoldi), della Muratura e del Legislatore; indiscutibilmente di mano di A. sono la Navigazione, la Caccia, la Tessitura, Jubal, Ercole e Caco, lo Scultore, l'Aratura, Dedalo, che sono tra le creazioni più alte della scultura trecentesca europea. La disposizione originaria dei 21 rilievi doveva essere diversa dalla attuale (Lányi, 1933). Probabilmente i due rilievi che ora sono sul lato settentrionale (Scultura e Pittura) erano originariamente su quello orientale e sono stati spostati quando su questo lato si aprì la porta d'ingresso al campanile.
Colpisce nei rilievi del campanile una nuova attenzione al dato naturale: la resa del telaio nella Tessitura, quella degli attrezzi del fabbro nel Tubalkain e degli interni delle botteghe nelle formelle del Pittore e dello Scultore non hanno confronti in opere contemporanee. Concretezza e realtà delle attività umane sono colte con grande penetrazione nella loro essenzialità. Rispetto ai rilievi della porta lo stile delle formelle del campanile mostra un approfondimento spaziale, una maggiore solidità delle figure, una sobrietà maggiore di panneggi e un eccezionale classicismo che trasforma modi e cadenze gotiche in una forma serena e pacata che ispirerà in avvenire Maso di Banco e Luca della Robbia.
Secondo il Ghiberti A. fece ancora al campanile "quattro figure di 4braccia l'una" e questa notizia riecheggia con poche varianti il Vasari. Tali figure, identificate dallo Schlosser (1912)nelle statue di due Sibille (Tiburtina ed Eritrea) e di due Re (David e Salomone), sono state decisamente attribuite ad A. dal Valentiner (1947). Respinta da I. Toesca (1950), questa attribuzione è stata però da più parti accettata (Pope-Hennessy, 1958). Vicina a queste sculture - e molto vicina ad A. - è una Madonna col Bambino a rilievo in una lunetta della porta laterale del campanile.
Due piccole statue, Cristo e S. Reparata, al Museo dell'Opera del Duomo di Firenze, sono state dallo Schmarsow (1887)attribuite ad Andrea. Esse possono essere collocate dopo la porta del Battistero (I. Toesca), immediatamente prima dei rilievi del campanile o contemporaneamente ai primi di essi. Lorenzo Ghiberti attribuisce ancora ad A. una statua di S. Stefano sulla facciata del duomo dalla parte del campanile. Il Valentiner (1954) ha proposto di identificarla con una scultura acefala del Museo dell'Opera del Duomo (ma in contrario si veda R. Krautheimer, 1956, p. 94). Nella seconda edizione delle Vite (1568)il Vasari attribuisce ad A. una larghissima serie di opere che sarebbero state eseguite durante il suo soggiorno fiorentino. Si tratta principalmente di alcune statue per la facciata della cattedrale, di altre (che sono invece opere documentate di Alberto Arnoldi) per le Confraternite del Bigallo e della Misericordia, della tomba di Cino da Pistoia nel duomo di questa città, del tabernacolo dell'altar maggiore del Battistero di Firenze e di numerose opere di architettura: il castello di Scarperia in Mugello, il Battistero di Pistoia, la fortificazione - voluta dal duca di Atene - di Palazzo Vecchio, numerosi interventi alle mura e alle porte di Firenze. Tutte queste opere, che non sono documentate né ricordate da fonti più antiche, per la massima patrte non gli spettano (v. Kallab, 1908).
Il successivo ipotetico soggiorno pisano costituisce, assieme all'enigma della formazione il più grosso problema nello studio delle vi cende di Andrea. A Pisa in questo momento si collocano probabilmente gli inizi artistici del figlio Nino (non può avere alcun credito la notizia vasariana sull'aiuto che Nino avrebbe prestato al padre nella porta fiorentina); e proprio in un gruppo, di statue a Pisa che dal Vasari in poi veniva tradizionalmente attribuito a Nino alcuni critici (Valentiner, 1947; L. Becherucci, 1947; Brizio, 1950) hanno recentemente voluto vedere la mano di Andrea. Si tratta del monumento al vescovo Saltarelli (m. 1342) in S. Caterina e delle Madonne della Rosa e del Latte in S. Maria della Spina. L'opera più importante è la Madonna della Rosa, esemplata su prototipi francesi (v. Weinberger, 1937; Brizio, 1950; Castelnuovo, 1952) da cui deriva probabilmente (Brizio 1950) la Madonna del monumento Saltarelli. Tutta la scultura di questo monumento del resto è di una qualità non elevata e l'opera è pertanto da riferire a una vasta collaborazione di bottega. Quanto alle bellissime Madonne di S. Maria della Spina, esse divergono indubbiamente sia dall'armonico classicismo raggiunto da A. nel campanile, sia dal traboccante flusso gotico che anima le due Madonne sicure di Nino a Firenze e a Venezia. È possibile che, lasciato l'ambiente fiorentino così ricco di suggestioni giottesche, A. abbia avuto uno svolgimento finale in senso francamente gotico, di cui si avvertono già presentimenti nel gruppo delle statue del campanile. È d'altra parte possibile che i modi di Nino, quando il padre era ancor vivo, fossero diversi e più equilibrati di quelli che si incontrano in altre sue sculture. Colpisce però soprattutto la qualità più alta delle due opere pisane rispetto a quelle sicure di Nino.
L'ultimo periodo di A. è quello orvietano. Una Madonna, ora al Museo dell'Opera del Duomo di Orvieto, era attribuita a Nino fino a che il Lányi (1933) e il Cellini (1933), a seguito di un acuto esame stilistico e documentario, non l'ebbero restituita al padre. Più vicina alle opere fiorentine di quanto non siano le Madonne pisane, essa è certamente di A., ma non può essere assunta come prototipo della sua forma ultima perché documenti la dicono venuta già fatta da Pisa e non ne indicano quindi l'esatta datazione.
Tra le numerose opere che sono state avvicinate o attribuite ad A. quelle che meglio potrebbero spettargli sono una Madonna nel Museo nazionale di Budapest (J. Balogh, 1953) e una piccola Madonna bronzea acefala nel Victoria and Albert Museum di Londra. Due Crocifissi, marmoreo l'uno, già in Camposanto e ora nella chiesa di S. Michele in Borgo di Pisa (cui il Ragghianti, 1947, avvicina il rilievo di S. Martino), ligneo l'altro, proveniente da Lucca e ora al Museo di Berlino, hanno spesso ricevuto una datazione troppo tarda (Weinberger, 1937; Toesca, 1950), ma dovrebbero essere riconsiderati in rapporto con Andrea.
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia più completa su A. di Ugolino si rimanda alla voce A. Pisano di J. Lányi, in U. Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, XXVII, pp. 94 ss., e al libro di I. Toesca, A. e Nino Pisani, Firenze 1950; pertanto delle opere pubblicate prima del 1950 sono qui citate solo quelle ricordate nel testo. G. Villani, Croniche, Venezia 1747, Libro X, cap. 178; A. Pucci, Il Centiloquio, in Delizie degli eruditi toscani, a cura di I. di San Luigi, VI, Firenze 1775, p. 119; S. della Tosa, Annali, in G. Richa, Notizie Istoriche delle Chiese fiorentine, V, 1, Firenze 1757, p. XX; L. Ghiberti, I Commentarii, a cura di J. von Schlosser, Berlin 1912, pp. 37, 43; A. Manetti, Vita di Filippo di Ser Brunellesco, a cura di E. Toesca, Roma 1927, p. 14; Anonimo Fiorentino, Il Codice Magliabechiano, cl. XVII, 17, ..., a cura di K. Frey, Berlin 1892, passim; G. Vasari Le Vite de' più eccellenti architetti pittori et scultori italiani, 1 ediz., Firenze 1550, pp. 158 ss.; Id., Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori et architettori, 2 ediz., Firenze 1568; Id., Le Vite..., con nuove annotaz. e commenti di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 481 ss.; Id., idem., a cura di K. Frey, München 1911, 1, pp. 349 ss.; P. Orlandi, Abecedario pittorico, Firenze 1788, pp. 66; D. Moreni, Bibl. storica ragionata di Toscana, II, Firenze 1805, p. 404; S. Ciampi, Notizie inedite della Sagrestia Pistoiese, Firenze 1820, p. 47; G. Gaye, Carteggio inedito d'Artisti, I, Firenze 1831, passim; F. Bonaini, Memorie inedite intorno alla Vita e ai Dipinti di F. Traini ed altre opere di disegno dei secoli XI, XIV e XV, Pisa 1816, pp. 59-67; L. Luzi, Il Duomo d'Orvieto, Firenze 1866, pp. 360 s.; A. Nardini Despotti-Mospignotti, Il Campanile di S. Maria del Fiore, Firenze 1886, passim; A. 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