DORIA, Andrea
Nacque a Oneglia il 30 nov. 1466. Il casato era illustre, ma distintamente feudale, di mediocrissima fortuna.
Il padre Ceva aveva sposato Caracosa dei Doria di Dolceacqua. Indubbiamente le acquisizioni territoriali dei Doria non avevano avuto la rilevanza di quelle dei Fieschi e degli Spinola di Luccoli che gestivano centri appenninici di grande rilevanza strategica: nulla sappiamo dell'effettiva coesione del gentilizio (Doria di S. Matteo e Doria dei feudi) che si era consolidato all'inizio del Trecento e aveva formato "albergo" unificando i blasoni. C'era una forte tradizione del casato nell'armamento navale militare (Meloria, Curzola, Tenedo) ma non fu questa la strada che si offerse al giovane D., e neppure la tonsura o la mercatura. I "feudali" erano del resto i parenti poveri, né probabilmente erano forti le ragioni della colleganza come nel caso dei Fieschi, già alla testa di un forte Stato territoriale con forti posizioni nella Curia romana: un'influenza in declino eppur in grado di organizzare nella splendida dimora di via Lata un centro di vita cosmopolita che sarà unico nella Genova del primo Cinquecento. Gli stessi Grimaldi, corsari a Monaco, erano pienamente inseriti nella vita economica europea tramite il controllo delle allumerie di Tolfa. Ed è a questa Roma dei Fieschi e dei Grimaldi che approda il D. nel 1484, orfano diciottenne e senza titolo giacché la madre prima di morire ha ceduto i suoi "carati" del feudo onegliese al cugino Gian Domenico.
Gian Domenico, tramite i buoni uffici dei Cibo (Innocenzo VIII), imparentati coi Doria, e di Nicolò Doria, capitano al servizio del papa, riuscì a ottenere per il D. un posto in quel corpo militare.
Succeduto al pontificato Alessandro VI (1492), il D. "fu costretto a pigliar nuovi partiti ai casi suoi" (Sigonio): fu a Urbino presso Guidubaldo (e non Federico, come scrive il non sempre esatto Sigonio) da Montefeltro e poi a Napoli, dove gli fu data "una piazza d'uomini d'arme". Liberato dagli incarichi per la fuga di re Alfonso dinnanzi a Carlo VIII (1495), il D., dopo un viaggio in Terrasanta, si presentò con 26 balestrieri a cavallo pagati per tre mesi a Giovanni Della Rovere, prefetto dell'Urbe, che gli assegnò la difesa di Rocca Guglielma presso il Liri, contro le milizie spagnole di Gonzalo Fernandez de Cordoba.
Qui la narrazione del Sigonio assume un colore cavalleresco: la valorosa difesa, l'ammirazione e lo scambio di cortesie con Gonzalo, la fedeltà ai Della Rovere che lo mandarono in missione presso Luigi XII di Francia. Tutore del figlio e protettore della vedova del Della Rovere, il D. sarebbe riuscito a giocare d'astuzia lo stesso duca Valentino a Senigallia e a sventare i piani di Giuliano Della Rovere (poi Giulio II) che ambiva impossessarsi dei castelli del fratello defunto.
Ancora privo di mezzi, il D. accettò l'invito del Banco di S. Giorgio e si arruolò nella condotta di Nicolò Doria contro Ranuccio Della Rocca, ribelle in Corsica. Nel 1507, mettendo a frutto il nuovo favore dei nobili genovesi (esiliati durante il dogato popolare di Paolo da Novi) cui fu prodigo di efficaci consigli, il D. ebbe una condotta per sé contro lo stesso Ranuccio: con 200 fanti e 40 cavalieri invase lo Stato dei Della Rocca, bruciò, imprigionò e uccise, sicché Ranuccio, appoggiato dalla Francia, si salvò solo attraverso un salvacondotto rilasciatogli dal Banco. Fondamentale fu questa saldatura con interessi genovesi che lo portò ad allearsi coi Fregoso e, forse per la mediazione di Nicolò tornato a comandare le truppe papali, con la politica della Lega santa di Giulio II. Era del resto la politica dei Doria alleati dei Fregoso e avversi ai Francesi: partecipò così alla spedizione del Contarini contro Genova e con Giano Fregoso rimise piede in città nel giugno 1512, prese parte all'assedio del Castelletto e nell'ottobre assunse l'incarico dell'allestimento di due galere.
Il 6 marzo 1513, seguendo ancora una volta Nicolò Doria, che, dimesso da Roma, aveva assunto il comando di una flotta genovese a tutela della navigazione, entrò al servizio della Repubblica come capitano delle due galere da lui fatte costruire. Ferito nell'azione guidata da Emanuele Cavallo per impedìre che la fortezza della Lanterna, tenuta dai Francesi, fosse adeguatamente approvvigionata, riprese il mare dopo un mese: 950 lire al mese per ciascuna delle galere (una metà dello stipendio da riscuotere a sue spese per una tassa posta sulle Riviere protette dalle sue navi), onere suo il provvedersi di salnitri e palle di cannone, regolata la spartizione del bottino di guerra.
Fu il peggior contratto che avesse mai firmato e dovette esibire i suoi garanti. Dopo che Adorno, Fieschi e Francesi ebbero rioccupato temporaneamente Genova, il 17 giugno tornarono i Fregoso che con Ottaviano tennero la città fino al sacco del 1522 perpetrato dall'alleanza ispano-pontificia che restituì il dogato agli Adorno. Nel frattempo Ottaviano aveva clamorosamente invertito le alleanze ed era divenuto governatore per il re di Francia.
La strategia dei Fregoso concedeva ampio spazio all'iniziativa navale e non solo per difendersi dai tradizionali nemici, ma anche per contrastare l'intensificata presenza turco-barbaresca nel Mediterraneo.
Sotto il comando di Federico Fregoso, il D. aveva preso parte alla spedizione di Biserta contro il pirata Cotorgoli: poi, sempre nel 1516, proprietario di tre galere, aveva firmato un contratto con Ottaviano che gli riconosceva i pieni frutti della guerra di corsa. Ed è questa la direzione verso la quale si orientò sempre più l'attività militare del D. che nel 1519 Poté riportare alla Pianosa una vittoria importante e lucrosa con la cattura di Gad Alì.
Intanto Khair ad-dīn Barbarossa di Algeri era stato riconosciuto da Selim come luogotenente generale dell'Impero osmano in Africa e questa saldatura nel Mediterraneo delle forze turco-berbere evidenziava appieno ai sovrani europei l'importanza fondamentale del potere navale nel quadro delle rivalità italiane. Sconfitti i Fregoso, il D. offrì i suoi servizi al re di Francia e ai suoi alleati e questa opzione politica durò fino al 30 giugno 1528, anche nel periodo in cui il D. fu al soldo di Clemente VII (1526-27).
Questo significa che le sue operazioni navali erano in buona parte vincolate a operazioni militari complessive nell'area mediterranea: in difesa di Marsiglia, contro la flotta imperiale di Ugo de Moncada, contro Genova, contro Napoli. Ciò non vietava colpi occasionali contro le navi spagnole e barbaresche, ma implicava una pluralità di comandi e la subordinazione a una direzione superiore. Era un tipico difetto dell'azione militare cristiana nel Mediterraneo, più spesso azione di forze alleate che occorreva radunare e conciliare in una difficile unità di obiettivi. Già sotto Francesco I balzarono in chiara luce questi difetti di coordinamento, motivazioni politiche diverse, difformità di valutazioni militari, materia di contrasto che finì per compromettere la posizione del D. alla corte di Francia. In particolare la questione del diritto del corsaro al beneficio del riscatto dei prigionieri fu materia di ampia contestazione: Francesco I esigeva la consegna dei prigionieri di riguardo e non pagava. Il re aveva scarsa comprensione per il carattere mercantile del servizio del Doria.
In realtà l'unico scontro navale di un qualche rilievo fu la battaglia di Capo d'Orso (Paestum) nell'aprile 1528, quando otto galere guidate da Filippo (Filippino) Doria sconfissero sei galere del Moncada che fu ucciso in battaglia. La vittoria tuttavia non ebbe conseguenze politiche: Napoli fu salva e per le diffidenze dei Veneziani e per il disimpegno del Doria che aveva preferito rimanere a Genova, riconquistata ai Francesi nell'agosto 1527.
Fin dal 1525 Carlo V aveva cercato di stornare il D. dall'alleanza antimperiale. Il cancelliere M. Arborio marchese di Gattinara fu tenace assertore di questa esigenza politico-militare presso l'imperatore: il D. e Genova erano elementi decisivi nel rapporto di forza militare. Il mare in mano ai Francesi comprometteva gli approvvigionamenti spagnolì. Francesco I aveva nominato il D. suo luogotenente nel Mediterraneo e lo aveva insignito dei cavalierato di S. Michele. Rimanevano però antiche e nuove pendenze: i crediti del D., la questione di Savona, l'opposizione all'"Unione" cittadina secondo il programma dei Dodici riformatori, pur particolarmente attivi sotto il governatore T. Trivulzio. Fu proprio la prontezza imperiale a sciogliere questi nodi che indusse il D. ad accantonare gli ultimi dubbi. Così come dal punto di vista del D., anche dal punto di vista imperiale l'opzione dell'ammiraglio era vista come omologa dell'opzione di Genova.
La carriera del D. segui davvicino quella di Nicolò Doria ed entrambe si iscrivono nell'ambito di influenza della politica pontificia: Ottaviano Fregoso era un protetto di Leone X. E tuttavia decisivi per le fortune del D. furono i contatti presi con gruppi politici genovesi a partire dal 1506: furono questi con qualche importante appoggio economico che gli aprirono la carriera del mare. L'opzione per questo tipo di imprenditoria militare aveva certamente delle motivazioni mercantili (guerra di corsa, stipendi). Tuttavia, almeno fin dalla missione presso Luigi XII del 507, il D. coltivò tenacemente il proprio ruolo politico: la scelta della dimora a Fassolo fu compiuta già nel 1521 quando non aveva che quattro galere. Per quanto avesse reclutato persone del casato, vi è qualche testimonianza che il voltafaccia del '28 avesse causato in esso dei malumori: i Fregoso rimanevano esiliati e ostili alla Repubblica "ispanizzata". E tuttavia la risoluzione del 1528 aveva segnato il pieno sequestro "personale" del mito antico dell'"Unione" ravvivato come non mai dall'opera dei "riformatori".
La gestazione della riforma costituzionale del 1528 è ancora avvolta in molte oscurità, cosi come in generale il quadro sociopolitico urbano fra Quattro e Cinquecento. La "rivolta delle capette" - il dogato del tintore Paolo da Novi (1506) - può esser letta come l'anticlimax della serrata del '28 e della nuova costituzione aristocratica. Tuttavia il quadro da dipanare e ben altrimenti ricco. Fin dagli ultimi decenni del Quattrocento ci sono ampie testimonianze di un movimento di giovani, associati fuori della solidarietà degli "alberghi", che esprimono nel titolo delle loro società l'aspirazione alla unione e alla concordia, proprio mentre enfatizzano la concorrenza cerimoniale fra nobili e popolari compartecipi del governo genovese. Sono poi molto probabili i legami della compagnia dei giovani del Divino Amore, radicalmente novatrice della carità nei primi decenni del Cinquecento, con gli ambienti umanistici in cui si fece strada, attorno a Ottaviano Fregoso, il progetto della Riforma. Il D., che non era certo un umanista, non fece che secondare un progetto lungamente in gestazione, dandogli lo sbocco della indipendenza.
Enorme dovette essere il prestigio derivante dalla realizzazione di quel lungo mito dell'Unione secolarmente frustrato nella città divisa. L'"Unione" fu un'operazione politica conservatrice: non una restaurazione del Comune originario gestito in forma senatoria dai maggiorenti, ma una Repubblica aristocratica che definiva una volta per tutte i quadri della civilitas come l'insieme delle famiglie di coloro, di parte nobile e popolare, che avessero ricoperto le cariche politiche maggiori prima del 1506. Nasceva così la moderna nobiltà genovese col suo "Libro d'oro", una nobiltà caratteristicamente "politica", proclamata classe con diritto esclusivo alle cariche repubblicane. Si trattava di un sottile ricalco della costituzione politica del Banco di S. Giorgio ove la selezione e le differenziazioni erano fra luoghisti comunque e classi di luoghisti, cioè di detentori dei titoli del debito pubblico.
La soluzione istituzionale seguiva una logica appropriata: incremento delle strutture rappresentative (i Consigli) con funzioni elettive, consultive e talora anche deliberative; collegializzazione del potere del doge fatto pari ai senatori affiancati dai procuratori: i serenissimi Collegi; istituzione di una suprema magistratura di controllo, i Supremi sindacatori, il cui sindacato era a sua volta giudicato dal Consiglio minore. Ed è qui che il D. scelse di collocarsi nel 1528 come membro a vita del Collegio dei supremi sindacatori: con lui Sinibaldo Fieschi e altri tre nobili "vecchi", certamente non "a vita". La scelta è significativa come scelta d'intenzione. In ogni caso più dei fattori e dei ruoli istituzionali continuarono a contare quelli personali. La presenza di un tradizionale avversario come il Fieschi testimonia dell'unanimismo di facciata del 1528, ma in effetti è necessario rintracciare la formazione e la presenza di un "partito del Doria". La formidabile posizione dell'ammiraglio e l'indipendenza formale del governo comportavano un certo dualismo: la Repubblica e il luogotenente imperiale ci appaiono come due corpi politici diversi e in ogni caso due centri distinti di iniziativa politico-diplomatica.
Ma l'asimmetria era netta e qualificata dal ruolo di mediazione esclusiva fra la Repubblica e l'Impero che l'asiento del 1528 riconosceva all'ammiraglio. Materia del contratto infatti non erano soltanto questioni di stipendi, di assicurazione sulla regolarità bimestrale dei pagamenti, del placet imperiale alla guerra di corsa, ma anche il riconoscimento della preminenza genovese su Savona e dell'indipendenza della Repubblica sotto la sovranità nominale dell'imperatore. Successivamente il D. otteneva il titolo di capitano generale dell'armata imperiale marittima (26 agosto) e, latore il nuovo ambasciatore G. Suárez de Figueroa, garanzie sull'approvvigionamento granario dalla Sicilia (per le galee e la città) e il riconoscimento di un ruolo di mediazione per gli asiento de dineros che Carlo V avrebbe negoziato con gli uomini di negozio genovesi. Il D. era così posto nella condizione magnanima e prestigiosa di offrire la libertà alla Repubblica sostanziando questo atto con la demolizione della fortezza del Casteltetto, simbolo del dominio straniero. I primi capitoli dell'asiento del1528 guidano l'iniziativa diplomatica genovese, i temi della libertà e dell'indipendenza della Repubblica ne sono la base ispiratrice, integrata più tardi dal tema classico della neutralità.
Questo consenti ai Collegi di presentarsi su tale piano sia pure formale come liberi dal riferimento troppo ovvio alla personalità dominante dell'asientista che del resto non era giuridicamente riconosciuta come tale. Le preoccupazioni dello Stato mercantile (non compromettere gli interessi esteri), la stessa formula di darsi in signoria personale a un principe straniero, soluzioni di difesa e di compromesso, si evolvevano in programma politico-diplomatico di una personalità statuale autonoma che vedeva riconosciuto il suo rango negli accordi internazionali. Mito diplomatico? E possibile: ma questo è appunto il livello operativo del gioco politico, quello delle formulazioni giuridiche. L'interlocutore non può appellarsi alla sostanza delle cose e la sostanza non v'è dubbio era quella di un governo strettamente condizionato dalla volontà del D. che agiva d'accordo con lui e che, lui assente, era tenuto a inviargli circostanziate relazioni. L'asimmetria risulta evidente sul terreno cerimoniale. Non v'è dubbio che il cerimoniale privato e quindi il prestigio del principe era clamorosamente esaltato dalla sua preminenza nei rapporti con la corte e i governatori spagnoli, ricevuti sistematicamente nel palazzo di Fassolo. Da questo punto di vista il D. non faceva che portare a compimento, esemplificare nel modo più brillante e assoluto, una costante della storia politica genovese: quella di una tradizione di cerimoniale privato in concorrenza vittoriosa con lo sviluppo, promosso e insieme bloccato, di un cerimoniale pubblico.
Il segno più vistoso della supremazia doriana è da individuare nelle vicende del palazzo di Fassolo, un sito già scelto nel 1521 e la prima fase dei lavori conclusa già nel 1529. Il palazzo doveva crescere per un secolo: moltiplicarsi le fabbriche, i porticati, gli affreschi, le decorazioni, i giardini. Il corsaro poteva secondare i suoi gusti, formatisi nella giovinezza romana: come i Gonzaga avevano chiamato a Mantova Giulio Romano, egli chiamò Pietro Buonaccorsi (Perin del Vaga), anch'egli un discepolo di Raffaello, che lavorò a Fassolo fra il 1528 e il '36. Non vi fu unità organica nella costruzione architettonica: da un'iniziale massa squadrata, quasi di fortezza, si sviluppò - tramite espansione della linea orizzontale in armonia con lo spazio e la natura circostante - la villa cinquecentesca d'ispirazione rinascimentale.
Così il D. offriva un modello nuovo alla classe dirigente genovese: l'immagine di un reggente illuminato e umanista che s'adoperava a trasformare il cantiere di Fassolo in un'occasione culturale internazionale rompendo decisamente con gli schemi tradizionali della conimittenza genovese. Il contraltare era il palazzo Fieschi di via Lata, anch'esso dotato di accesso al mare. Ma la decorazione di Fassolo esprimeva decisamente nella figurazione mitologico-storica l'incomparabile posizione di potere e prestigio del residente e, nello stesso linguaggio artistico, la dimensione internazionale della corte doriana che ospitò Carlo V (1533), Paolo III, e il futuro Filippo II (1548): principi, generali, ambasciatori e artisti di fama europea.
Fu un episodio unico nella storia di Genova, quello di una dimora regale, di una corte internazionale, espressioni del ruolo eccezionale del principe, signore di Genova e luogotenente di Carlo V. Il linguaggio pittorico e decorativo ne esprimeva il programma politico con la caratteristica enfasi retorica della celebrazione di un apogeo, i trionfi del D. e di Carlo V posti sul medesimo piano. In particolare l'iconografia del Doria-Nettuno si affermava in Genova e fuori Genova ora nell'accentuazione mitologica, ora in quella realistica, a seconda delle esigenze.
Non v'è dubbio che la società genovese, nobile e popolare, recepisse questo messaggio. Il prestigio personale era chiaramente un instrumentum regni e il D. ne aveva coscienza.
Egli prendeva cura di ospitare alla sua corte i nobili genovesi, a cominciare dai figli di Sinibaldo Fieschi. Conviti, intrattenimenti musicali, giostre e tornei, gioco della palla: il rampollo della nobile casata genovese poteva aver la ventura di conversare con i principi d'Italia e dell'Impero, di giocare a palla col marchese di Pescara, gran generale di Carlo V. Naturalmente il vecchio ammiraglio si costruì anche la famiglia che non aveva, giacché il suo matrimonio con Peretta De Mari (Usodimare), vedova Del Carretto, era rimasto sterile. Ma non mancavano i figli di primo letto di Peretta: il D. adottò Marc'Antonio, nominato nel '34 erede del principato di Melfi e andato sposo alla figlia di don Giovanni de Leyva. Nominò poi suo luogotenente imperiale, ed erede, Giannettino Doria, figlio di Tomaso, suo cugino di primo grado.
La serie degli onori e dei titoli aumentava continuamente: cavaliere di S. Michele, principe di Melfi (con rendita di 3.000 scudi), cavaliere del Toson d'oro, duca di Tursi, protonotaro di Napoli. Si aggiungano le prestigiose relazioni personali: non mancavano davvero le possibilità per l'esercizio di un efficace patronato.
La straordinaria ascesa sociale e politica dei Barbarossa e dei Dragut è stata posta in connessione con le fortune della pirateria, la pirateria "mondo americano" come ha scritto Braudel. Il "norne" chiaramente distingueva il D. da quegli ammiragli barbareschi e quel nome fu certamente un prezioso strumento politico per l'inserimento nei quadri della vecchia nobiltà genovese. In ogni caso del tutto eccezionale fu la fortuna che gli concesse d'imporsi su quell'aristocrazia avviata verso uno strepitoso ruolo di egemonia sulla finanza europea e pronta a prender ispirazione da Fassolo nella splendida vicenda architettonica di strada Nuova.
A Fassolo i segni della eccezionalità, l'isolamento e il fasto si sposavano con l'ubicazione strategica, lontano dalle risse cittadine, vicino alle sue galere. Figueroa, il maggior conoscitore spagnolo delle cose di Genova, poteva ancora sostenere nel 1559 che il comando delle galere rappresentava la chiave di volta della situazione politica genovese. Indubbiamente questa era stata l'intuizione fondamentale del Doria. E nondimeno quello stuolo di galere doveva esser redditizio: la crescita delle entrate era necessaria a sostenere il carisma.
Accanto al D. spicca la figura di uno straordinario mercante e banchiere, Adamo Centurione, che appare come l'attento gestore degli affari del D.: un'impresa quella dell'asientode galeras che richiedeva spese ingenti, anticipazioni di danaro, sollecitazioni e trasferimenti dei pagamenti. Verso il 1540-50 Francesco Lomellini e i suoi fratelli appaiono come gli abituali fornitori di biscotto per le galere, Francesco Grimaldi fornitore di tela e carne, ma Adamo deve firmare tutte le cedole relative.
In un'occasione almeno fu inviato a discutere con l'imperatore i termini del nuovo contratto di asiento. Sitrattava di un'azienda come un'altra e non v'è dubbio che il D. la considerasse come tale: il D. come altri suoi contemporanei "ammiragli", un Barbarossa, un Paolo Vettori, uno Strozzi. Come ogni altro mestiere poi questo dell'imprenditore di guerra comportava una logica, le regole di un gioco, un gioco singolare fra corsa e guerra, della cui natura il D. era perfettamente consapevole.
Le entrate, cioè i pagamenti di Carlo V, erano stabilite come anticipi, ma a rate brevi e certamente non corrispondenti alla dinamica della spesa. A probabile che l'imperatore assegnasse carattere di priorità a questi pagamenti: le difficoltà per il D. erano piuttosto quelle poste dalle esportazioni di numerario dalla Spagna. Nel 1552, ad esempio, l'ammiraglio lamentava che dei 123.000 ducati pattuiti egli riusciva a rimborsarne soltanto 96.170.
La struttura della spesa si articolava nelle voci: corpo della nave, cioè costi dello scafo e dell'armamento coi relativi tempi di ammortamento, e costi di riparazione e sostituzione più il mantenimento, cioè il soldo pagato a marinai e "buonavoglia" e il vitto necessario a tutti. Nel caso di impiego di schiavi al remo l'acquisto degli stessi comportava un massiccio investimento. I rematori potevano comunque esser razziati o ottenuti come preda di guerra, mentre i forzati potevano esser ottenuti per la benevolenza di qualche sovrano fin dalla lontana Ungheria.
La galera, lunga e sottile, non più di 3.000 cantari di portata, raccoglieva a bordo 250-300 uomini e più (a seconda del carico di soldati) in 250 mq: il nucleo prevalente era composto dai rematori disposti a 3 0 4 per banco per 3 0 4 remi, poi un remo solo col successo, tardo, del sistema "alla galozza". Questi rematori, 150-170, erano sulle galere del D. soprattutto schiavi. A metà secolo uno schiavo poteva valere 40 scudi per un totale di 6.000 0 7.000 scudi mentre un buonavoglia era pagato 6 lire al mese, cioè 13 scudi all'anno (7-8 mensilità): 170 costavano così 2.200 scudi all'anno. Bastava quindi che un rematore schiavo vogasse per tre anni e la preferenzialità economica del suo impiego era assicurata. Inoltre poteva non costare nulla: per i forzati si raccomandava di non accettarne se non fra i condannati a più di sei anni.
L'incidenza dei costo-nave non era elevata: lo scafo rappresentava il 40-50% di un costo complessivo dato nel 1552 a 1.600 scudi. Calcoli di poco successivi stimano il rapporto fra costo dell'imbarcazione armata e costo della ciurma schiava a un terzo verso due terzi: la nostra valutazione abbassa ulteriormente l'incidenza della prima voce di costo. In ogni caso s'aggiungeva alla seconda voce il pagamento del soldo, per prodieri, nocchieri, artigiani, "uomini di cavo" e i costi del vitto per tutti sicché il costo del mantenimento era valutabile a 3.000-3.500 scudi. A metà secolo quindi l'incidenza delle tre voci di costo - armamento, schiavi e mantenimento - era rispettivamente del 14, 54 e 31%. Ma le prime due voci vanno frazionate nel bilancio annuale secondo un quoziente dato dal tempo di ammortamento. La galera poteva reggere il mare 4 0 5 anni: calcoliamo così 320 scudi all'anno. Più aleatoria la durata dello schiavo al remo: se calcoliamo una media di dieci anni avremo 600-700 scudi all'anno. In totale quindi 1.000 scudi, cosicché il costo prevalente appare nel bilancio annuale quello del matenimento (il 75%). Rispetto a un costo annuo di 4.000-4.500 scudi abbiamo un pagamento che nell'asiento del 1528 si poneva già al di sopra: 5.000 scudi e non più di 6.000 alla metà del secolo. Il margine era dunque di 1.500 scudi per galera (massimo 2.000). Le difficoltà di estrarre il numerario dalla Spagna appaiono così decisive per l'equilibrio economico dell'azienda. Questa era cresciuta rigogliosamente: dodici galere nel 1528, quindici nel 1530, diciassette in azione a Tunisi nel '35, ventidue nel '38 alla Prevesa e nel '41 ad Algeri, venti nel 1547 e nel '52: diciamo un "esercito" di 6.000 marinai e rematori, un capitale di 150.000 scudi. Osserviamo che nella Genova della metà del secolo solo quattro cittadini erano accreditati di una fortuna superiore alle 300.000 lire.
Il "teorico" capitale del D. dava un reddito, sempre teorico, del 20%: un buon investimento si direbbe, ma, in un'epoca in cui gli operatori economici erano soliti variare i propri investimenti, quello del D. era un investimento di capitale eccezionalmente univoco e in un settore esposto ai temporali, ai pirati, alle flotte nemiche e in ogni caso governato dall'esterno, cioè dall'iniziativa politica dell'imperatore.
Quanto tempo gli era lasciato per la favorita guerra di corsa o per qualche prezioso carico di seta e d'argento da prendere a nolo? Trasporto di soldati, di principi, di sovrani; pattugliamento di coste; azioni contro corsari; partecipazione ad assedi e imprese militari a grande raggio; lunghe soste nei porti l'inverno o al riparo di flotte nemiche strapotenti. Le immense cure del luogotenente generale di Carlo V nel Mediterraneo, nella scia di una politica continentale, mediterranea e italiana sempre alla ricerca di una difficile egemonia imperiale, era un castello che appena puntellato sembrava crollare di colpo. E proprio sul mare il più duro e terribile dei nemici, la flotta di Solimano, alleata dei corsari barbareschi di Algeri. Un sistema di guerra oramai antico: sempre più uomini negli stessi spazi di una volta e pochi cannoni perché appunto lo spazio era ridotto; guerra crudele e astuta, condotta dagli ammiragli indigeni con accortezza mercantile, nel dispregio assoluto di qualsiasi convenzione cavalleresca che sul mare non aveva mai attecchito. Del resto come rimproverare al D. e al suo rivale di avere anch'essi una propria Realpolitik che s'identificava con la cura dei propri interessi? Carlo V doveva aver comprensione per questo "interesse".
Il legame stretto nel 1528 fra un giovane imperatore e un ammiraglio già sessuagenario doveva durare fino alla morte. Il D. entrava così nella "grande storia" del suo secolo: come interprete sul mare della politica imperiale e come signore di Genova. L'uomo grave e appassionato che fu Carlo V non manifestò mai dubbi di sorta nei confronti del suo ammiraglio. Fin dal 1528 aveva dunque perfetta consapevolezza dei servizi che poteva attendersi: l'egoismo mercantile del D. gli appariva del tutto logico e accettabile. Gli assicurava comunque il controllo di Genova e una guida per una flotta sempre composita: galere di privati e di Genova, di Napoli e di Sicilia, galere spagnole, pontificie e di Malta. Tale ricorrente sforzo navale rappresentava una componente non secondaria nel complesso gioco politico e militare internazionale che riguardava la Berberia e tutto il continente fino alle pianure danubiane e richiedeva quindi una straordinaria mobilitazione di energie militari, diplomatiche e finanziarie. In effetti non si può isolare la vicenda mediterranea dal contesto di questa politica che fissava volta a volta all'imperatore priorità diverse. Fu sul Mediterraneo comunque che prese corpo l'alleanza franco-turca; era nel Mediterraneo verso il Magreb che gravitava la tradizionale politica spagnola e verso Oriente (Cipro e Corfù) che gravitava invece la neutralità armata di Venezia, non riconducibile alla egemonia imperiale ma naturalmente nemica del grande Impero osmano. Ancora: era sul Mediterraneo che ancora poteva pulsare il grande progetto storico della crociata, ripresa nel vario contesto dei rapporti fra Impero e Papato e in grado di vincolare temporaneamente anche i nemici cristiani di Carlo V.
Se lette nel più ampio contesto politico-diplomatico le campagne mediterranee del D. ritrovano una loro razionalità "di congiuntura": considerate per se stesse, secondo un'ottica strategica di più lungo periodo, esse indicano certamente un insuccesso, sottolineano l'ascesa turco-barbaresca e la situazione di scacco della flotta imperiale dal 1538 al 1560 e oltre. La caduta di Rodi (1522) aveva aperto il Mediterraneo ai mussulmani. Algeri si affrancava direttamente nel 1529 e diventava sotto il Barbarossa la capitale militare nel Mediterraneo. Per qualche tempo il D. mantenne una certa iniziativa: nel 1530 muoveva alla testa di trenta galere (tredici francesi) contro Scercel, ma la spedizione non ebbe esiti molto positivi; nel 1532 fu la volta della Morea con la conquista di Corone e Patrasso, ma il mancato accordo coi Veneziani fece sfumare l'occasione per battere la flotta di Ahmed. Nel '33 ancora Corone fu soccorsa con successo. L'anno seguente tuttavia il Barbarossa assumeva il comando della flotta mussulmana: alleato coi Francesi, saccheggiava indisturbato l'Italia meridionale e conquistava Tunisi. A questo punto l'imperatore reagì e nel '35 organizzò la liberazione di Tunisi, senza riuscire però a catturare Barbarossa che sfuggì alla sorveglianza di Adamo Centurione. Nel 36 il D. era impegnato in Provenza; nel 37 i Veneziani investirono Corfù e poi conquistarono le Cicladi: il D., forte di trentadue galere, sconfisse dodici galere turche ma il prezzo pagato fu molto alto.
Nel '38 lo scacco della Prevesa: la lega antimussulmana, forte dell'appoggio veneziano, si dissolse in una parodia di battaglia che inaugurò l'egemonia mussulmana sul Mediterraneo. Ormai la sproporzione delle forze era evidente: Antonio Doria in una relazione del 1539 sostenne che per contrastare il Turco occorrevano duecentocinquanta galere e a questo fine era necessaria l'alleanza con Venezia. L'Impero avrebbe dovuto tenere in campo centoventicinque galere invece delle sessantadue che teneva abitualmente. Era necessario che lo stuolo restasse unito a lungo, che avesse un suo porto fisso. Il necessario sforzo finanziario era stimato ammontare a 430.000 scudi all'anno. Ormai la carta dell'alleanza veneta era stata buttata via alla Prevesa e non sarà più disponibile fino ai giorni di Lepanto. Il D. era sulla difensiva. Ancora uno sporadico successo nel 1540 quando Giannettino Doria catturò Dragut che venne incatenato al remo. Ma subito dopo fu il disastro di Algeri: la spedizione imperiale naufragò miseramente sulla spiaggia africana. In quei giorni il D. salvava l'Impero e Carlo V riconoscente lo nominava protonotaro del Regno di Napoli e marchese di Tursi. Ormai la partita mediterranea era ampiamente compromessa e di conseguenza scemò l'impegno nel Mediterraneo. Ancora nel '43 il D. poteva battere la squadra francese isolata, ma l'arrivo di Barbarossa capovolse la situazione: Nizza fu saccheggiata, Genova risparmiata. P un fatto che l'oro genovese aveva cominciato a "correre", che rapporti più o meno segreti erano mantenuti con la Porta e con i pascià dagli stessi Imperiali. Si spiega così la liberazione di Dragut, la cui vita valeva bene un sacco di Genova. Accordi personali o accordi politici? Il confine è sfuggente e comunque pedantesco. I tornaconti del D., come quelli della Repubblica, sono evidenti: Barbarossa era corruttibile come più tardi lo furono i pascià, né l'ammiraglio poteva opporsi alla soverchiante forza mussulmana.
Le successive spedizioni contro Dragut, il più famoso corsaro mediterraneo, furono infruttuose. Nel periodo di pace militare sul mare fra il 1545 e il 1550 era divampata la guerra di corsa: tipica risorsa dei tempi di magra quando non era possibile sostenere lo sforzo grandioso della guerra di flotta e le priorità sono diverse (i Turchi impegnati in Persia).
L'azione militare del D. si caratterizza così per l'estrema prudenza. Il capitale in gioco era prezioso e dopo il 1538 il rapporto di forze era decisamente sfavorevole. D'altra parte una clamorosa disfatta era pregiudizievole anche per gli interessi imperiali. Certamente anche il destino di Genova era direttamente coinvolto da questa vicenda militare, la minaccia corsara sempre viva sulle Riviere, soprattutto dopo il 1540, una sorta di "grande paura" che non favoriva certo il carisma del Doria.
Poteva d'un colpo cessare la passione faziosa proprio quando la mobilità della situazione internazionale, la grande volatilità delle fortune militari, gli interessi e gli intrighi dei papi, dei re e dei principierano all'opera sulla società genovese, questo sensibile nervo dell'egemonia italiana di Carlo V? L'episodio classico fu la congiura del conte Gian Luigi Fieschi del 1547, ma essa rivelava appunto un "nido di vipere".
Fu una classica tragedia rinascimentale, di quelle care alla sensibilità romantica. Cominciava con una rivalità di giovani: il colto e sensibile Gian Luigi e il rozzo Giannettino Doria, balzato dalle povere rendite onegliesi ai fasti della luogotenenza imperiale per il favore dello zio. In un certo senso la riproduzione di un contrasto stereotipo: l'aristocratico raffinato e il parvenu politico che tutto si permetteva, perfino di insidiare la moglie del primo. Orgoglio di casato, invidie marinare, gelosie di marito alimentati dalla frequentazione stessa e strumentalizzati dalle corti di Roma e di Francia. La rivalità acquista presto risvolti politici, stimolati dalle tradizioni di ostilità familiari e da un certo clima culturale: "popolo e libertà contro tirannide", l'esempio antico di Bruto. Il passaggio all'azione è fatale a entrambi i contendenti nella stessa notte fra il 2 e il 3 gennaio: Gian Luigi morto affogato per una banale caduta in mare e Giannettino morto ammazzato mentre accorre alle grida. Un fulmine a ciel sereno che coglie il principe impreparato ma lesto comunque a sellare un cavallo per Masone.
Morti i protagonisti, il gioco delle parti si rivela solo lentamente in un lungo stillicidio di quadri: diffidenze e connivenze, alternative e continuità. Notiamo anzitutto la preoccupazione generale per quel che sarebbe accaduto con la morte del vecchio principe ottuagenario. Che occorresse agire subito era opinione diffusa, tanto da parte spagnola quanto da parte genovese. La linea apologetica di Scipione Fieschi fu quella che Gian Luigi volesse evitare una signoria di Giannettino.
L'ambasciatore Figueroa del resto aveva posto il problema della successione fin dal 1533. Ma c'erano diverse tendenze attorno alla congiura e una faceva capo a Spinola e Adorno, nonché a un popolare influente come Lasagna. All'indomani dei fatti di gennaio questo gruppo si presenta come oltranzista filoispanico e Agostino Spinola come l'uomo di Figueroa. E ovviamente c'erano anche i "fregosardi". Ma le forze dell'opposizione non riuscirono a coagularsi. Un'iniziativa di famiglia quella di Gian Luigi, i fratelli, i cognati Niccolò Doria e Giulio Cibo. I primi furono subito compromessi, ma ottennero l'indulto da un Senato diviso e spaurito, purché abbandonassero Genova. Ma risulteranno coinvolti anche uno Spinola, un Giustiniani e l'ex doge G. B. Fornari. Ancorché la frattura fra nobili vecchi e nobili nuovi fosse già in atto - com'è dimostrato dall'elezione a sorpresa dello stesso Fornari nel '45 - la loro collaborazione nelle diverse fazioni traspare tuttavia chiaramente. C'è il sospetto di un sostegno plebeo all'azione dei Fieschi: con riferimento al Verrina e al suo seguito nonché alla benevolenza del conte Fieschi verso i tessitori di seta. Il 1546, occorre ricordare era stato anno nero per gli approvvigionamenti granari. L'interrogativo rimane.
Anche il Lasagna vantò al Figueroa un sostegno di massa alla causa spagnola. Nel febbraio del 1547 l'ambasciatore comunicava a Carlo V la notizia di un moto fomentato in borgo S. Donato da un tale di casa Doria contro la minaccia "Spagna e Adorno", "y como en atiquella parte son Fregosos, facilmente se alborotaron todos". L'antica tradizione del governo "a cappellaccio", cioè di fazione, poggiava su sentimenti ancora ben vivi di partigianeria rionale. Il D. ne era consapevole e ribatteva all'ambasciatore che era meglio che fossero disuniti con le loro passioni particolari cosicché non avrebbero fatto novità. Certo il processo dell'"Unione" che aveva preso corpo nella costituzione del '28 non era molto avanzato e la signoria informale del D. appariva come una pausa nel gioco politico decisivo delle fazioni.
Su di esse lavoravano tanto Adamo Centurione che si proclamava come vero interprete dell'umore dei cittadini per conto dell'ammiraglio, tutto preso dalle cose militari, quanto il Lasagna per Agostino Spinola.
Di fatto gli avvenimenti del 1547-48 riportavano in primo piano il ruolo delle grandi famiglie Fieschi, Doria, Spinola con qualche frattura interna, più vistosa nel caso dei Doria forse per la rivalità acuta fra il D. e il cugino cardinale Gerolamo, padre di Nicolò imparentato coi Fieschi.
Figueroa e Ferrante Gonzaga sembravano puntare sugli Spinola, più pronti ad accettare il progetto della fortezza che avrebbe dovuto garantire il controllo della città all'Impero: contro, Adamo Centurione, che appare il vero capofila del partito del principe, controllava col figlio Marco le galere ed era in effetti il più probabile successore del Doria. Del resto i funzionari imperiali non potevano trascurare la volontà del D. che non consentiva che uno Spinola occupasse il posto di capo militare di una più sostanziosa guarnigione a Genova. In questi mesi critici il suo predominio era garantito dalle venti galere ancorate nel porto e pagate da Carlo V: 125.000 scudi all'anno - annotava Ferrante Gonzaga - assai più di quanto sarebbe occorso per costruire la fortezza. Francesco Grimaldi e Adamo Centurione con due successive missioni per conto del principe presso Carlo V erano riusciti a stornare la minaccia immediata. Tutto era stato rimandato alla imminente visita del principe Filippo a Genova. Filippo venne infatti verso la fine del novembre 1548, ospite del D. a Fassolo: lungo la via, cosparsa di archi di trionfo, le "imprese" pitturate su enormi pannelli di legno ripetevano i motivi celebrativi ormai tradizionali, e una di queste invitava il giovane ingegno a cedere di fronte alla matura esperienza.
Bernardino Mendoza, in un suo classico ragionamento, difendeva l'indipendenza di Genova: "giuri fiscali e feudi" legavano sempre più la nobiltà, la "vecchia" soprattutto, ai destini della Corona spagnola. Era "l'invisibile ma inespugnabile fortezza dell'interesse" più solida e duratura di quella del Castelletto: una giusta intuizione dei tempi nuovi che erano maturati con la più recente e massiccia partecipazione dei capitali genovesi ai prestiti imperiali. Il D. rimaneva probabilmente legato alla simbologia del 1528, quando egli aveva fatto abbattere la fortezza. In ogni caso l'autorità ufficiale della Repubblica fu chiaramente coartata e la diplomazia parallela del principe si rivelò ben più decisiva che non l'iniziativa dell'ambasciatore Ceva Doria. L'indulto concesso ai fratelli Fieschi era stato revocato; Montoggio assediata e i colpevoli, a cominciare da Gerolamo Fieschi, messi a morte. Così nella corsa alla spogliazione dei feudi Fieschi le aspirazioni della Repubblica su Torriglia e Montoggio erano state frustrate: il D. ottenne, a titolo di risarcimento per i danni subiti e per la benevolenza imperiale, questi e altri feudi dei Fieschi. Antonio Doria ebbe Santo Stefano e la Repubblica dovette accontentarsi di Roccatagliata e Varese (Varese Ligure), centri non altrettanto importanti dal punto di vista strategico.
La cronaca di questi mesi cruciali getta luce sul carattere della signoria doriana: in ultima istanza l'elemento decisivo è rappresentato dal "rapporto speciale" con l'imperatore. Per quanto ostili e critici, soprattutto il Gonzaga, i funzionari imperiali non potevano prescindere dalla sua volontà e neppure dai suoi umori. L'asientista tenevain sella il signore. L'esito interno fu la creazione di una maggiore solidarietà fra i nobili "vecchi": da questo punto di vista la riforma costituzionale del 1547 fu un chiaro atto di partigianeria politica. "Vecchi" erano tutti gli asientistas de dineros. Al di là della semplice riforma del sistema elettorale il D. tendeva a una drastica riduzione dei membri dei serenissimi Collegi e cioè a un potenziamento dell'esecutivo in senso oligarchico.
La riforma detta "del garibetto" creò un forte scontento fra i nobili "nuovi" e polarizzò il contrasto sociale e politico nella classica linea storica del contrasto fra nobili e popolari smentendo l'"Unione". I nodi sarebbero venuti al pettine nel 1575.
Per il momento la stella del D. poteva continuare a brillare. Beninteso si continuò a parlare del problema della successione. Non è chiaro quanto questo problema fosse o restasse legato con quello del comando delle galere: il D. era comunque il più grosso proprietario di galere su piazza e questo era un patrimonio ben suo, che egli poteva risolvere in termini di delega e successione. Intanto nel 1551 riapparve la flotta di Siman pascià che conquistò Tripoli: il D., rinchiusosi in Villafranca, rifiutò perfino lo scontro con lo stuolo francese dello Strozzi. Nel 1552 Siman investì Reggio e Napoli e fu giocoforza operare in soccorso di Napoli - quaranta contro centoventi galere - e il D. ne perse sette a Ponza.
Nel 1553 Dragut ebbe il comando della flotta turca e con i Francesi investì la Corsica. Ma Genova e gli Imperiali organizzarono un'efficace riscossa: si attese che la flotta turca rientrasse alle basi per svernare e si riprese l'iniziativa. Così si operò anche negli anni seguenti. Il D. e Cosimo I, un'alleanza certo poco sincera, erano in questi anni i protagonisti della politica imperiale in Italia. Il debutto di Gian Andrea Doria, figlio del defunto Giannettino, non avvenne sotto buoni auspici: ben dieci galere furono perse per mera imperizia di manovra.
La rinnovata minaccia della flotta turca e l'invasione della Corsica crearono probabilmente negli anni Cinquanta un certo clima di emergenza a Genova. Pur impotenti contro il Turco, la flotta del D. e l'alleanza con l'Impero e la Spagna rappresentavano per la Repubblica l'unica possibilità di colpire a sua volta, di lanciare la sua controffensiva per la difesa di un possedimento ritenuto vitale. D'altronde fu proprio in questi anni che Genova poté tornare a rifornirsi di grano orientale entrando in qualche modo nel gioco della stessa "enipia alleanza" franco-turca. L'oro genovese fece ancora miracoli nel 1558: "lavorato" dal denaro genovese, Piali pascià risparmiò ancora una volta le Riviere e frustrò i più ambiziosi disegni politico-militari del re di Francia.
Sicché la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, riconoscendo a Genova il possesso della Corsica, concludeva questo capitolo dei controversi rapporti storici fra metropoli e colonia (1553-59). Pertanto iniziate in Corsica contro Ranuccio Della Rocca le sue imprese genovesi, ancora nella Corsica doveva concluderle il D. (per delega beninteso) contro Sampiero di Bastelica.
Nel novembre dello stesso anno Medinaceli e Giovanni (Gian) Andrea Doria guidavano la flotta e un esercito al disastro delle Gerbe (2 marzo 1560). Come venti anni prima ad Algeri. Il vecchio ammiraglio stava vivendo l'ultimo anno di vita nella sua reggia di Fassolo: la notizia del disastro sancì il suo ambiguo destino militare. Il suo, oramai proverbiale, consiglio di prudenza era rimasto inascoltato. Il destino dell'astro Doria nella politica genovese era fatalmente segnato dalla morte del D. avvenuta a Genova il 25 nov. 1560. Filippo II poteva riconoscere la successione del pupillo Gian Andrea nella luogotenenza del Mediterraneo, ma la signoria su Genova restava un fenomeno eminentemente personale. La dinastia stessa, quel ramo dei Doria, sarà fatalmente spinta verso un destino cosmopolitico, soprattutto romano.
L'esperimento della signoria informale non era riproducibile per successione: questo era chiaro fin dal 1547. Angoscia terribile per un principe, questa di un patrimonio esclusivamente personale, di una continuità impossibile in termini dinastici. Il D. aveva potuto trasmettere il comando delle galere, perfino la luogotenenza imperiale, ma non una signoria mai riconosciuta come tale. Accostumato al ruolo decisivo dei rapporti personali e speciali, egli non aveva probabilmente alcuna fiducia nella nuova costituzione repubblicana, nelle istituzioni che erano state sperimentate sotto la sua tutela. Ed è per questo forse che negli ultimi anni della sua vita il D. giunse a proporre che la Spagna s'insignorisse di Genova. La testimonianza è ancora del Figueroa, ma essa, a ben considerare, non fa stupore. Quando nel 1547-48 egli si era opposto a un atto di volontaria dedizione di Genova agli Spagnoli, un gesto che implicava per lui, così come il consenso alla fortezza, la rinuncia al proprio "onore", ma non alla possibilità che l'imperatore prendesse di propria iniziativa una decisione di signoria. L'onore di un corsaro? Piuttosto il puntiglio e l'orgoglio di un principe che non voleva rinunciare al "miracolo" del 1528, al suo personale capolavoro politico.
Certamente il D. non era persona che s'abbandonasse a scrivere ragionamenti sui tempi suoi, ma ovviamente aveva una sua personale saggezza. Franzino Della Torre riportava così a Federico Gonzaga nel 1535 un colloquio avuto col D.: "che oggi tutta la Christianità sia divisa in due affetti, l'uno de lo Imperatore, l'altro di Franza et che quasi sia necessario passare per uno di questi camini ad ogni persona di momento. Che quello dello imperatore mo sia il migliore non gli pare... gli sia dubio". Già Ottaviano Fregoso aveva operato questa scelta nel 1515 offrendo la signoria a Luigi XII. Diviso in due il "mondo politico", era necessario scegliere bene la propria parte: alla propria opzione, non ulteriormente giustificata, il D. era riuscito a congiungere l'idealità della "libertà e indipendenza" della Repubblica, come piattaforma di governo idonea a uno Stato di mercanti, un'idealità subordinata al realismo politico e non una idea-guida.
Grande asientista di Carlo V e suo luogotenente nel Mediterraneo egli possedeva l'unico esercito di una Repubblica quasi disarmata, cioè le galere, cosicché, offrendole la libertà, le imponeva di fatto la propria egemonia. Del resto solo la sua posizione militare nel sistema imperiale era in grado di garantire quella indipendenza, entro i limiti ben chiari di un'opzione, una scelta necessaria fra le due grandi potenze.
Per il doppio apporto di prestigio la sua figura pubblica ne risultava ingigantita e il palazzo-corte di Fassolo esprimeva appunto questa esaltazione. Le vicende militari sul mare, poco brillanti nel complesso, potevano oscurare la fama dell'ammiraglio: egli rimaneva il garante della fedeltà di Genova e l'esecutore di direttive imperiali. Se la sua signoria scricchiolava come nella crisi del 1547-48 rivelando che quella garanzia non era più cosi solida, il D. era purtuttavia il luogotenente dell'Impero, il padrone di venti galere, l'estremo baluardo di fronte alla assoluta supremazia franco-turca sul mare. Così le sue due "dignità", i suoi due ruoli si sostenevano a vicenda e sostenevano le fortune di un uomo ormai vegliardo.
L'impressione che se ne ricava è quella di una mirabile costruzione politica della propria fortuna personale: approdato relativamente tardi alla imprenditoria della guerra navale il D. stabilizzò per sempre il suo rapporto col committente imperiale col contratto del 1528 proprio in virtù delle straordinarie clausole politiche che erano comprese nel medesimo.
L'ammiraglio operava in un quadro preciso: asiento, politica imperiale e sforzi finanziari navali diversi. Il politico ebbe il merito indubbio di costruire attorno alla sua persona una straordinaria retorica protettiva (unione e indipendenza). Per il resto la congiura del Fieschi ha rivelato sentimenti e strutture di alleanza assai tradizionali, il gioco delle fazioni, dei "colori" e delle famiglie per nulla superato dalla sperimentazione costituzionale. L'oligarchia degli amici del D., un direttorio del principe si formò a latere dello Stato come esito della speciale posizione di predominio del principe, senza connessione diretta con le istituzioni: rientrava nella tipologia delle "signorie informali" caratterizzate da forti elementi di prestigio e di potere personali. Qui è chiaro che il giudizio sommario anticipa lo studio analitico di un sistema di potere che non è ancora stato tentato. La formula interpretativa della figura del D. che si e proposta è sufficientemente utile per sgombrare il campo da molti falsi problemi, sufficientemente rispettosa verso la migliore tradizione degli studi su quel periodo storico. E soprattutto è solo una formula, oltre la quale cioè la ricerca e l'analisi storica possono proseguire su un più moderno terreno di concretezza.
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