Doria, Andrea
Nacque a Oneglia il 30 novembre 1466, da casato illustre, ma di assai mediocre fortuna. Il padre Ceva aveva sposato Caracosa dei Doria di Dolceacqua. D. approdò a Roma nel 1484, orfano diciottenne e senza titolo, giacché la madre, prima di morire, aveva ceduto i suoi ‘carati’ del feudo onegliese al cugino Gian Domenico.
Quest’ultimo, tramite i buoni uffici dei Cibo (Innocenzo VIII), imparentati con i Doria, e di Nicolò Doria, capitano al servizio del papa, riuscì a ottenere per D. un posto nel corpo militare pontificio.
Con l’avvento di Alessandro VI (1492), D. dovette passare a Urbino, presso Guidubaldo da Montefeltro, e poi a Napoli. Liberato dagli incarichi per la fuga di re Alfonso dinanzi a Carlo VIII (1495), si presentò con ventisei balestrieri a cavallo, pagati per tre mesi, a Giovanni Della Rovere, prefetto di Roma, che gli assegnò la difesa di Rocca Guglielma presso il Liri, contro le milizie spagnole di Gonzalo Fernández de Córdoba. Qui la narrazione di Carlo Sigonio, biografo di D., assume un colore cavalleresco, descrivendo la valorosa difesa, l’ammirazione e lo scambio di cortesie con Gonzalo.
Nel 1500 era ancora al servizio di Giovanni Della Rovere, che lo inviò in Francia nel settembre di quell’anno, nel momento in cui vi si trovava M. come legato della Repubblica fiorentina. Passando per Firenze, gli furono affidate alcune lettere della Signoria (la Signoria a M., 26 sett. 1500, LCSG, 1° t., p. 470) e una – parzialmente cifrata – di Piero Soderini, da recapitare a M. (Piero Soderini a Francesco Della Casa e a M., 22 sett. 1500): in quest’ultima i due mandatari fiorentini erano incaricati di ostacolare con ogni mezzo gli ambasciatori pisani che erano stati inviati al re di Francia per ottenerne l’appoggio. D. stesso, di ritorno a Roma, fu il latore della risposta di M. e Della Casa alla Signoria fiorentina (21 ott. 1500, LCSG, 1° t., p. 499).
Nel 1507 D. accettò l’invito del Banco di S. Giorgio e si arruolò nella condotta di Nicolò Doria contro Ranuccio Della Rocca, ribelle in Corsica. Fondamentale fu questa saldatura con interessi genovesi che lo portò ad allearsi con i Fregoso e con la politica della lega Santa di Giulio II. Partecipò così alla spedizione di Alessandro Contarini contro Genova e con Giano Fregoso rimise piede in città nel giugno 1512, prese parte all’assedio del Castelletto e nell’ottobre assunse l’incarico dell’allestimento di due galere.
Il 6 marzo 1513 entrò al servizio della Repubblica genovese come capitano delle due galere da lui fatte costruire. Dopo che Antoniotto Adorno, Scipione Fieschi e i francesi ebbero rioccupato temporaneamente Genova, il 17 giugno tornarono i Fregoso che con Ottaviano tennero la città fino al sacco del 1522 perpetrato dall’alleanza ispano-pontificia, che restituì il dogato agli Adorno. Nel frattempo Ottaviano aveva clamorosamente invertito le alleanze ed era divenuto governatore per il re di Francia.
Sconfitti i Fregoso, D. offrì i suoi servizi al re di Francia e ai suoi alleati e questa opzione politica durò fino al 30 giugno 1528, anche nel periodo in cui D. fu al soldo di Clemente VII (1526-27). Durante il sacco di Roma (6 maggio 1527) si trovava a Civitavecchia con le sue galee. Qui, avutane licenza da Francesco Guicciardini, lo raggiunse M., dopo avere avuto notizia della cacciata dei Medici da Firenze (16 maggio), insieme a Francesco Bandini: la loro intenzione era di imbarcarsi per Livorno e di lì raggiungere Firenze. Dato che D. doveva trattenersi a Civitavecchia pronto a prestare soccorso al papa in caso di una sua fuga per mare, i due si accodarono a Isabella d’Este, che partì per Livorno il 23 maggio. Di questo scrive M. nell’ultimo documento esistente a firma sua (e di Bandini), inviato all’amico Guicciardini il 22 maggio 1527 (Lettere, pp. 231-32), contenente anche qualche generico suggerimento strategico di D. per il luogotenente pontificio (vitale per lui combattere «con vantaggio»).
Dopo la serrata del 1528 e la riforma aristocratica del governo genovese, D. divenne membro a vita del Collegio dei supremi sindacatori; e lo schieramento filoimperiale della Repubblica fu sancito da un contratto con Carlo V, in base al quale ottenne il titolo di capitano generale dell’armata imperiale marittima (26 agosto) e, latore il nuovo ambasciatore Gómez Suárez de Figueroa, garanzie sull’approvvigionamento granario dalla Sicilia (per le galee e la città).
D. assunse così una funzione preminente nello Stato genovese, e il segno più vistoso della sua supremazia è da individuare nelle vicende del palazzo di Fassolo, un sito già scelto nel 1521. Il palazzo doveva crescere per un secolo moltiplicando le fabbriche, i porticati, gli affreschi, le decorazioni, i giardini. Il corsaro poteva secondare i suoi gusti, formatisi nella giovinezza romana: come i Gonzaga avevano chiamato a Mantova Giulio Romano, egli chiamò Pietro Buonaccorsi (Perin del Vaga), anch’egli un discepolo di Raffaello, che lavorò a Fassolo fra il 1528 e il 1536.
Il vecchio ammiraglio si costruì anche la famiglia che non aveva, giacché il suo matrimonio con Peretta De Mari (Usodimare), vedova Del Carretto, era rimasto sterile. Ma non mancavano i figli di primo letto di Peretta: D. adottò Marc’Antonio, nominato nel 1534 erede del principato di Melfi e andato sposo alla figlia di don Giovanni de Leyva. Nominò poi suo luogotenente imperiale, ed erede, Giannettino Doria, figlio di Tomaso, suo cugino di primo grado.
La serie degli onori e dei titoli aumentava continuamente: cavaliere di S. Michele, principe di Melfi (con rendita di 3000 scudi), cavaliere del Toson d’oro, duca di Tursi, protonotaro di Napoli. Si aggiungano le prestigiose relazioni personali: non mancavano davvero le possibilità per l’esercizio di un efficace patronato.
Il legame stretto nel 1528 fra un giovane imperatore e un ammiraglio già sessuagenario doveva durare fino alla morte. D. entrava così nella ‘grande storia’ del suo secolo: come interprete sul mare della politica imperiale e come signore di Genova. L’uomo grave e appassionato che fu Carlo V non manifestò mai dubbi di sorta nei confronti del suo ammiraglio. Per qualche tempo D. mantenne una certa iniziativa: nel 1530 muoveva alla testa di trenta galere (tredici francesi) contro Scercel, ma la spedizione non ebbe esiti molto positivi; nel 1532 fu la volta della Morea con la conquista di Corone e di Patrasso, ma il mancato accordo con i veneziani fece sfumare l’occasione per battere la flotta di Ahmed. Nel 1533 ancora Corone fu soccorsa con successo. L’anno seguente tuttavia Khayr aldīn, detto il Barbarossa, assumeva il comando della flotta musulmana: alleato con i francesi, saccheggiava indisturbato l’Italia meridionale e conquistava Tunisi. A questo punto l’imperatore reagì e nel 1535 organizzò la liberazione di Tunisi, senza riuscire però a catturare il Barbarossa. Nel 1538 si consumò lo scacco della Prèvesa: la lega antimusulmana, forte dell’appoggio veneziano, si dissolse in una parodia di battaglia che inaugurò l’egemonia musulmana sul Mediterraneo. Ormai la carta dell’alleanza veneta era stata buttata via alla Prèvesa e non sarà più disponibile fino ai giorni di Lepanto. D. era sulla difensiva. Ancora uno sporadico successo nel 1540 quando Giannettino Doria catturò Dragut, che venne incatenato al remo. Ma subito dopo fu il disastro di Algeri: la spedizione imperiale naufragò miseramente sulla spiaggia africana. Ormai la partita mediterranea era ampiamente compromessa e di conseguenza scemò l’impegno nel Mediterraneo. Ancora nel 1543 D. poteva battere la squadra francese isolata, ma l’arrivo del Barbarossa capovolse la situazione: Nizza fu saccheggiata, Genova risparmiata.
Nel 1547 prese corpo la congiura del conte Gian Luigi Fieschi, tesa a insidiare la successione familiare nella signoria informale di Doria. Il passaggio all’azione risultò fatale a entrambi i contendenti, divisi da motivi personali, oltre che politici e familiari: nella stessa notte fra il 2 e il 3 gennaio Gian Luigi morì affogato per una banale caduta in mare e Giannettino Doria fu ucciso mentre accorreva alle sue grida. Di fatto gli avvenimenti del 1547-48 riportavano in primo piano il ruolo delle grandi famiglie Fieschi, Doria, Spinola con qualche frattura interna, più vistosa nel caso dei Doria, forse per la rivalità acuta fra D. e il cugino cardinale Gerolamo, padre di Nicolò, imparentato con i Fieschi.
L’ambasciatore spagnolo Figueroa e Ferrante Gonzaga sembravano puntare sugli Spinola, più pronti ad accettare il progetto della fortezza che avrebbe dovuto garantire il controllo della città all’impero: contro, Adamo Centurione, che appare il vero capofila del partito del principe, controllava con il figlio Marco le galere ed era in effetti il più probabile successore di Doria. Del resto i funzionari imperiali non potevano trascurare la volontà di D., che non consentiva che uno Spinola occupasse il posto di capo militare di una più sostanziosa guarnigione a Genova. Tutto era stato rimandato alla imminente visita del principe Filippo a Genova. Filippo venne infatti verso la fine del novembre 1548, ospite di D. a Fassolo: lungo la via, cosparsa di archi di trionfo, le ‘imprese’ pitturate su enormi pannelli di legno ripetevano i motivi celebrativi ormai tradizionali, e una di queste invitava il giovane ingegno a cedere di fronte alla matura esperienza.
L’indulto concesso ai fratelli Fieschi fu revocato; Montoggio assediata e i colpevoli, a cominciare da Gerolamo Fieschi, messi a morte. D. ottenne, a titolo di risarcimento per i danni subiti e per la benevolenza imperiale, vari feudi dei Fieschi.
Nel 1551 riapparve la flotta di Siman pascià, che conquistò Tripoli: D., rinchiusosi in Villafranca, rifiutò perfino lo scontro con lo stuolo francese di Piero Strozzi. Nel 1552 Siman attaccò Reggio e Napoli e fu giocoforza operare in soccorso di Napoli – quaranta contro centoventi galere – e D. ne perse sette a Ponza. Nel 1553 Dragut ebbe il comando della flotta turca e con i francesi attaccò la Corsica. Ma Genova e gli imperiali organizzarono un’efficace riscossa: si attese che la flotta turca rientrasse alle basi per svernare e si riprese l’iniziativa. Sicché la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, riconoscendo a Genova il possesso della Corsica, concludeva questo capitolo dei controversi rapporti storici fra metropoli e colonia (1553-59).
Nel novembre dello stesso 1559, il duca di Medinaceli e Giovanni (Gian) Andrea Doria erano al comando della flotta e dell’esercito fino al disastro delle Gerbe (2 marzo 1560). Il vecchio ammiraglio stava vivendo l’ultimo anno di vita nella sua reggia di Fassolo: la notizia del disastro sancì il suo ambiguo destino militare. Il destino dell’astro Doria nella politica genovese fu fatalmente segnato dalla morte di D., avvenuta a Genova il 25 novembre 1560. Filippo II poteva riconoscere la successione del pupillo Gian Andrea nella luogotenenza del Mediterraneo, ma la signoria su Genova restava un fenomeno eminentemente personale. La dinastia stessa, quel ramo dei Doria, sarà fatalmente spinta verso un destino cosmopolitico, soprattutto romano.
Bibliografia: Fonti: C. Sigonio, Della vita e dei fatti di Andrea Doria, Genova 1598.
Per gli studi critici si vedano: E. Grendi, Doria Andrea, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 41° vol., Roma 1992, ad vocem (con ampia bibl. prec.); A. Pacini, La Genova di Andrea Doria nell’impero di Carlo V, Firenze 1999; A.M. Graziani, Andrea Doria. Un prince de la Renaissance, Paris 2008.