GRITTI, Andrea
Nato il 17 apr. del 1455 a Bardolino, nel Veronese, da Francesco di Triadano e Vienna di Paolo Zane e ben presto orfano di padre, di lui - mentre la madre si risposa, nel 1460, con Giacomo Malipiero di Dario, dal quale avrà due figli, Paolo e Michele, amati dal G. come fratelli - si occupa il nonno paterno, che lo fa istruire a Venezia in casa propria, inviandolo quindi a perfezionarsi a Padova e volendolo, nel contempo, al proprio fianco in missione diplomatica in Inghilterra, Francia, Spagna.
Accasato già nel 1476, con Benedetta di Luca Vendramin, questa muore di parto, nello stesso anno, dando alla luce Francesco, unico figlio legittimo del G. che - dopo aver sposato, nel 1503, Maria di Bernardo Donà, dalla quale ha due figlie, Benedetta andata in sposa, il 14 nov. 1520, a Giovanni Pisani di Alvise e Vienna, nel 1524, a Polo Contarini di Zaccaria - morrà nel 1506. Giovane vedovo il G. preferisce ricominciare la vita a Costantinopoli, in questa mercante - specie di granaglie, sia in proprio sia in società con il genovese Pantaleo Coresi - come il prozio Battista Gritti, che è pure, non senza che da Venezia gli si rimproveri, il 25 maggio 1480, di "non intender ben" la situazione e di non regolarsi nei suoi giudizi a "la disposition" del Senato (Bombaci, p. 202), bailo (è questi a presentare Gentile Bellini a Maometto II) e che l'introduce alla conoscenza di funzionari e di operatori economici.
Prospero il giro d'affari avviato dal G., il quale, messa su casa a Pera, vi convive con una giovane greca, avendone quattro figli - Alvise, Giorgio, Lorenzo, Pietro -, tutti "bastardi" nel lessico lagunare, ma senza il marchio di tale qualifica, a Venezia sbarrante l'accesso alla politica, presso il Turco. Supportato dagli ingenti guadagni che premiano le sue intraprese commerciali, il G., lungo una permanenza pressoché ventennale, assume un crescente risalto che lo vede a capo della comunità veneziana, autorevole tra gli italiani di Galata e in rapporto privilegiato - alimentato dalla reciproca convenienza: consistenti donativi da parte del G., ricambiato con agevolazioni ed esenzioni doganali - di frequentazione con il gran visir Aḥmed pascià che gli vale anche la considerazione del sultano Bāyazīd II, di quello suocero.
Espulso con l'accusa di spionaggio, nel 1492, il bailo Girolamo Marcello e non sostituito, il G. finisce, colmando il vuoto di rappresentanza diplomatica, con il ritrovarsi - ancorché senza la copertura di una veste ufficiale - in un ruolo surrogatorio sempre più a rischio a mano a mano i rapporti veneto-ottomani si fanno tesi. D'altra parte è sulle sue informazioni - relative soprattutto alla consistenza della flotta e alle sue mosse nonché ai concentramenti di truppe - che, cifrate, arrivano, via Corfù, tramite il nobile raguseo Nicolò Gondola, al segretario del Senato Zaccaria Freschi, che palazzo ducale conta. E se il G., nella lettera a quello del 19 giugno 1499, si diffonde sui tappeti, è chiaro che sta parlando dell'armata marittima. Ma non sfugge ai Turchi il sottinteso informativo del suo corrispondere in superficie commerciale. Impiccata una persona di fiducia del provveditore e rettore di Lepanto Giovanni Moro sorpresa con una lettera del Gritti; impalato un corriere catturato con un'altra sua lettera addosso. Se l'amicizia con il gran visir e la simpatia dello stesso sultano evitano al G. una fine atroce, viene tuttavia - a sventare il suo effettivo spionaggio -, nell'agosto del 1499, rinchiuso alle Sette Torri, nel castello di Yedi Kule, con gran sconcerto dei suoi molti amici anche turchi e gran piangere - almeno così si racconta - delle molte donne di lui innamorate.
Circa 32 i mesi dal G. trascorsi segregato - e con rischio di morire: "era stà alla morte, tamen" s'è poi "resanato", scrivono da Corfù, il 15 maggio 1501, a Venezia i rettori Alessandro Venier e Pietro Leoni -, sortendo dall'incarceramento, con gli altri mercanti imprigionati all'inizio del conflitto, allorché si intravedono speranze di pace, previo, però, il pagamento di 2400 ducati. La ricomposizione conviene alla Serenissima e alla Porta. E ruolizzato il G. - che il 10 marzo 1502 si presenta al Collegio veneziano per poi appartarsi a confabulare con i tre capi del Consiglio dei dieci - nell'avviarla e nel condurla sino alla prima conclusione del 14 dicembre. Si impegna alla pace, con solenne giuramento, il 20 maggio 1503 il sultano e latore a Venezia delle condizioni turche il subasi 'Alī bey, arrivato il quale pure il doge Leonardo Loredan, il 20 maggio, a sua volta giura la volontà di pace della Serenissima. Ancora in sospeso l'armonizzare le richieste della Porta con le modifiche che la Repubblica vorrebbe introdurre. E il G. - che con il visir parla in greco; che, ancora nel 1498, si è accorto del fraintendimento suscitato dalla ratifica dell'ambasciatore Andrea Zancani a capitolazioni redatte in italiano, laddove, per la Porta, vale solo il testo in turco; che è sensibile all'accuratezza delle traduzioni e sa controllare il lavoro degli interpreti - è l'uomo più adatto a procedere a una formulazione dei capitoli che non si presti a equivoci, che non susciti un contenzioso interpretativo.
Munito di lettera dogale del 22 maggio 1503 "ad dominum turcum", si imbarca - in veste di "orator" veneto alla "celsitudine" del gran signore - insieme con 'Alī bey per Costantinopoli, qui accolto da "numerosissimo populo" di varie nazioni, specie da "merchadanti". E ratificata su di un testo accuratamente redatto e concordato la pace, il G. riparte - latore della lettera del sultano alla Signoria ove viene richiesta, a conferma delle ritrovate "pace et amicitia", il sollecito invio del bailo che "stagi tre anni" cui ne segua "un altro" senza soluzioni di continuità - per Venezia, riferendo, il 2 dicembre, in Senato.
Ormai prossimo alla cinquantina il G. depone definitivamente la veste mercantesca - con questa ha guadagnato moltissimo, ma persi, per via della guerra e del carcere, almeno 24.000 ducati; e, per sempre, se nel 1517 chiederà l'autorizzazione a trattenere un dono del re di Francia a titolo di un minimo di risarcimento di un credito sempre più inesigibile - ed entra, con il piglio energico che lo contraddistingue, altrettanto definitivamente in politica. Di per sé, con la pubblica benemerenza dell'aver concretata la pace con la Porta, poteva ritirarsi in un ozio onorato.
Ma troppo prepotente la sua vitalità - riscontrabile anche nel persistere dei piaceri sin eccessivi della tavola, attestata dal robusto appetito sessuale per cui, sino a tarda età, le amanti si avvicendano e, pure, si sommano - per non continuare a tradursi in energica attività. E cornice di questa ora Venezia. Nella commissione del risarcimento - più caldeggiato che ottenuto - dei danni subiti a Costantinopoli dai mercanti veneti, consigliere ducale per il sestiere di Castello, della commissione finanziaria aggiunta al Consiglio dei dieci, membro della delegazione straordinaria a Giulio II - entrata questa a Roma, il 28 ott. 1505, è il G. a riferirne in Senato il 26 maggio 1506 -, capo del Consiglio dei dieci.
All'inizio del 1508 - con il guastarsi dei rapporti veneto-imperiali - è, al pari di Giorgio Corner, provveditor generale: tenuto a portarsi "dove parerà il bisogno", ispeziona passi e fortificazioni specie in Trentino, relazionando, il 23 giugno, in Senato. Quindi nel Consiglio dei dieci e savio del Consiglio, il 12 apr. 1509 viene eletto procurator di S. Marco de supra. E, come provveditor generale in campo, ispeziona con Bartolomeo Alviano artiglierie e apprestamenti difensivi, raggiunge con 1500 fanti Niccolò Orsini nel Bresciano, soccorre con 2000 uomini Cremona. Fisicamente vigoroso regge il disagio di notti all'aperto, sopporta prolungati spostamenti a cavallo, tiene dietro all'incalzare di diuturne responsabilità.
Travolto anch'egli nel disastro di Agnadello del 14 maggio, scampa fortunosamente a Orzinuovi serbando lo stendardo marciano che, lacero e consunto, sarà destinato alla veneziana chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Nella disfatta, nel conseguente collasso dello Stato "da terra", il G. impersona la determinazione a resistere. E rianimante segnale di rimonta il suo ingresso - con cavalleggeri, fanti e, pure, "maxima turba rusticorum" -, del 17 luglio, a Padova e la presa, del 19, del castello. Così recuperata una città rivelatasi, all'indomani di Agnadello, tumida di livore antiveneziano, con una nobiltà pressoché tutta filocesarea, con ostilità per la Repubblica affiorate anche dal resto della popolazione. Dura la repressione diretta dal G., con arresti esecuzioni, confische, bandi a inseguire i fuggiti, inoltro a Venezia d'oltre 300 "cives" e pure di "aliqui populares". Sotto il tallone del governo del G. la già ribelle Padova, ricondotta all'obbedienza con forza opprimente, ma non a tal punto arbitraria da dar spazio all'"insolenza" dei nobili veneziani precipitatisi a saccheggiare e svaligiare. Severissimo l'ordine introdotto dal G. e disciplinante gli stessi occupanti. E non sordo il G. alla lezione desumibile dall'imprevisto scatenarsi della guerriglia dei "villici", dei contadini "marcheschi", che per S. Marco si stanno battendo perché intuenti d'istinto che l'eventuale vittoria cesarea assecondata dal proditorio collaborazionismo della nobiltà di Terraferma significherebbe per loro un pauroso arretramento delle condizioni di esistenza nella morsa di un'oppressione feudale rincrudita.
"Saria molto a proposito - scrive il G., già il 23 luglio da una Padova appena domata nella quale è entrato non solo con truppe regolari ma anche con una massa di contadini armati alla buona, alla Signoria - gratificar questo populo" soprattutto rustico con qualche tangibile riconoscimento. E non sordo palazzo ducale al perorare del G. se ai contadini in arme concede l'esenzione quinquennale dalle gravezze, l'eliminazione delle pendenze fiscali, l'azzeramento dei debiti. Se per il diarista Priuli - coriaceo nostalgico di una Venezia tutta "da mar" - la temporanea rinuncia all'introito fiscale spremibile dalla contadinanza costituisce un "gran danno et detrimento" per le esauste casse statali alle quali necessita, invece, "ogni piccolo adiucto de denari", sin opposto il parere del G. a veder del quale la "turba" contadina va inquadrata nella controffensiva veneta e incoraggiata nel suo militare con sostanziose prospettive materiali.
Per quel che lo concerne, nel febbrile allestimento, iniziato il 20 agosto, delle difese a fronteggiare l'assedio imperiale, il G. fissa il compenso individuale di 10 soldi quotidiani per gli "operarii" - "populares" urbani e "rustici" sfuggiti alle vessazioni dei Cesarei spradroneggianti nel territorio - addossandone il costo complessivo alla cittadinanza. Calata insomma sui "civibus", pesantemente vieppiù, l'"angaria" del mantenimento temporaneo di una manodopera sin patriottica. Sta ai "cives" tirar fuori il denaro "pro solvendis dictis operariis" tutti "libenter" faticanti "semper acclamantes Marco Marco". Indicativo altresì che - nell'attesa di un attacco a fondo che poi non ci sarà: all'impresa, all'inizio di ottobre, Massimiliano di fatto rinuncia - il G. si appelli alla combattività di "omnes populares", ossia della plebe urbana e della contadinanza riparata in città, incitati a "perseverare" nella fede marciana, a battersi valorosamente "ad defendendam eorum patriam".
Finito il timore dell'assedio, ripiegati gli Imperiali, il G. può sortire da Padova (e sarà revisore dei conti presso la podesteria di questa Pietro Gritti, uno dei quattro "bastardi" costantinopolitani del G.), impadronirsi di Soave e sventare un tentativo francese di riprenderla. "Sustinet nec fatiscit"; così il motto di Atlante reggente il cosmo donato al G. dal veronese Giovanni Cotta all'indomani della liberazione di Padova. Una figura esplicitata da parole che il G. adotta come impresa simboleggiante il suo bellico protagonismo. In cuor suo già aspira al dogado. Non accolta però, il 14 genn. 1510, la sua domanda di rientro, nelle sorti della guerra è vieppiù responsabilizzato, allorché - morto il 26 gennaio il conte di Pitigliano Niccolò Orsini - si allargano le sue competenze, anche se si sottrae alla carica di generalissimo prospettatagli, in via del tutto eccezionale, dal Senato. Ritiene una carica del genere vada riservata a un militare di professione, a un uomo d'armi.
Una motivazione più che ragionevole. Ma si aggiunge il fatto che le ambizioni del G. vanno oltre il teatro delle operazioni militari. Se in queste si è distinto, quel che si attende in premio è la massima carica dello Stato. C'è sentore di autocandidatura quando, nel 1511, proprio in coincidenza con l'aggravarsi delle condizioni di salute del doge Loredan, preme perché dal Consiglio dei dieci - ove ha aderenti e parenti - gli giungano calorose lettere d'elogio per la sua valorosa condotta. È evidente che, se pubblicamente elogiato, è legittimato a pretendere un pubblico riconoscimento. Comunque il doge in carica si ristabilisce.
Non per questo il G. depone l'aspirazione a succedergli. E questa è notoria se, nel 1514, quando accompagna nella visita al tesoro di S. Marco un personaggio turco - Mehmed, un sipahioglan, un cavaliere -, questi, alla vista del corno dogale, non si trattiene dall'esclamare che la "bareta è fata aposto per la […] testa" dell'illustre accompagnatore. Lusinghevole l'ospite per ingraziarsi il Gritti. Ma che l'episodio sia subito risaputo, che il diarista Sanuto lo registri non è casuale. Lo si deve - con tutta probabilità - al G. il quale così segnala alla città che essa merita un doge della sua statura e che, nel contempo, l'unico riconoscimento a questa adeguato è, appunto, l'elevazione al vertice dello Stato. Un'autoreclamizzazione - questa del G. - per interposta persona tanto più convinta quanto più il fino allora operato l'ha confermato nell'autostima.
E questa è giustificata: ancorché non grande stratega, è senz'altro un grande commissario politico nella guerra in corso. Le necessità belliche le intende, appunto, in termini politico-organizzativi, logistici e, pure, psicologici. Sa galvanizzare i populares; sa guadagnarsi la fiducia delle milizie mercenarie, tra le quali è popolarissimo. E lo è nella misura in cui garantisce la regolare corresponsione delle paghe.
Il G. è sul fronte orientale a fine dicembre 1511, con le truppe attestate sull'Isonzo. Spostatosi all'assedio di Brescia, vi entra - da solo alla testa delle truppe, perché allora ammalato Gian Paolo Baglioni -, all'inizio di febbraio del 1512, agevolmente, subito preoccupandosi di assegnare come contabile al ripristinando rettorato Lorenzo Gritti, un altro proprio figlio. Non pieno, però, il recupero perché asserragliati i Francesi nel castello. E manca l'artiglieria per bombardarlo. Sbaragliato, intanto, Baglioni da Gaston de Foix, la situazione si capovolge: assediato ora il G. dai Francesi e da quelli entrati da fuori e da quelli annidati nel castello e - dopo aver tentato un'animosa resistenza -, nella caduta, del 19, della città, catturato.
Condotto a Pavia e, quindi, a Milano, nel Castello Sforzesco, qui trattato con riguardo da Giangiacomo Trivulzio - lo stesso con il quale, nel 1508, ha operato contro Massimiliano -, il quale gli prospetta la praticabilità di un accordo franco-veneto. Un'eventualità fatta presente dallo stesso G. con lettera che, tramite un coadiutore della sua segreteria, tale Piero Bressan, arriva il 19 marzo ai capi del Consiglio dei dieci. "Non volemo, né podemo"; così il governo veneto vincolato dall'alleanza con il papa. Prigioniero, di conseguenza, il G. di Luigi XII, che, peraltro, l'accoglie a Lione con "grande honor". Una prigionia quella del G. - nel senso che non è libero d'andarsene -, ma all'acqua di rose, sin dorata: vive a corte, dove il re, che per lui ha simpatia, s'intrattiene spesso in colloquio con lui. E - dopo che Giulio II, il 26 nov. 1512, si proclama alleato di Massimiliano disposto a dargli man forte contro la Serenissima - non più tenuta la Repubblica a obblighi col pontefice. Successivo, comunque, alla morte, del 21 febbr. 1513, del papa l'atto ufficiale, del 23 marzo, dell'accordo franco-veneto. Lo sottoscrive, per conto della Serenissima, il G. ora libero e poi, il 2 maggio, autorizzato a unirsi all'esercito francese. Sicché è, con questo, in Piemonte, partecipa al vano assedio di Novara, per poi, a disagio in una spedizione infruttuosa, decidersi al rientro a Venezia. Lasciata, il 14 giugno, nottetempo Alba, il 16 è a Savona, quindi a Genova donde - sfuggendo ai Fregoso che, partigiani della Spagna, stanno dandogli la caccia - ripara a Torriglia, quindi, sempre inseguito dai Fregoso, a Sarzana. Da questa - per Pietrasanta, Lucca, Pistoia - raggiunge Bologna il 27. Di qui guadagna Ferrara, donde, scendendo il Po il 30, finalmente, la mattina del 1° luglio, sbarca a Venezia subito portandosi in Collegio. Qui tutti lo festeggiano, si complimentano con lui per la "gratissima ciera" serbata lungo tante traversie. E nel contempo apprende della nomina a savio del Consiglio.
Stanco, provato il Gritti. Ma non può concedersi pausa. Il 5 una lettera di Alviano reclama la sua presenza. L'8 viene eletto provveditore generale a e da Padova, allora assediata dalle forze ispano-tedesche; e il 9 il G. parte alla volta di questa. E presiede alla difesa, sempre vigile e all'erta e più, la notte, vegliando che dormendo sotto la porta di S. Croce, sinché, con l'allentarsi ripiegando della pressione nemica, il 23 agosto, rientra a Venezia, dove l'attendono le incombenze proprie del savio del Consiglio. Altissimo il suo credito: è "il primo homo della nostra patria e il più degno", registra Sanuto. E la guerra lo vuole presente dove si combatte. Il 4 ottobre si unisce al grosso dell'esercito, rimanendo alla retroguardia rispetto all'attestarsi a Creazzo d'Alviano, mentre il nemico è, guidato da Raimondo Cardona, nei pressi di Vicenza. Sfavorevole a Venezia lo scontro del 7. Poco avveduto Alviano nel muovere all'attacco. Dilaga il panico tra le milizie venete. Ma il G. serba - ancorché disarcionato e con una storta al piede - la mente lucida: galoppa sino a Vicenza e poi a Padova ad arginare fermamente da questa la baldanza nemica e a ridare fiato alla risposta. Però i suoi rapporti con Alviano - cui in cuor suo addebita un'irruenza priva di adeguata preparazione tattica - si guastano. A una difficile convivenza operativa vorrebbe sottrarsi. Un'esigenza cui palazzo ducale viene incontro, il 20 maggio 1514, con la designazione a capitano generale da Mar. Una nomina senza effetto perché il G. non salpa a capo di nessuna flotta. Resta a Venezia, di nuovo savio del Consiglio e, pure, della zonta del Consiglio dei dieci. Insediatosi a Milano - dopo la vittoria di Marignano del 13-14 sett. 1515 - il re di Francia Francesco I, il G. è dell'ambasceria veneta che in quella, il 13 novembre, fa il suo ingresso. Ed è lui - agli occhi della folla - il personaggio che più spicca; ed è soprattutto con lui che il re vuol trattare. Eletto, il 26 genn. 1516, provveditor generale in campo, è alla riconquista di Brescia del 26 maggio. Suo cruccio quello di reperire mezzi finanziari; donde, sordo alla protesta della città, l'obbligo, per Bergamo, di ricorrere alla vendita di beni comunali per fronteggiare i due grossi prestiti cui è stata costretta nel giro di pochi mesi. Sua cura, nel contempo, incentivare la ripresa dell'economia; donde la concessione a Orzivecchi di un mercato generale in cui le merci siano sgravate da dazi. In entrambi i casi si riserba un largo margine di decisione, in entrambi i casi il suo piglio è sbrigativamente decisionistico.
A Verona - tornata alla Repubblica il 7 genn. 1517; e trionfale, il 24, l'ingresso del G. - sino ai primi di marzo, il 15, dopo un'ispezione alle fortificazioni di Treviso, è a Venezia, riferendo, il 16, in Senato sul proprio provveditorato non senza prospettare un piano di organizzazione difensiva della Terraferma veneta che un po' preconfigura il progetto di difesa globale che proporrà Francesco Maria Della Rovere. È della commissione preposta al rimborso dei prestiti; di qui il procedere, da parte del G. e dei colleghi commissari, all'affrancazione graduale dei 3 Monti, il vecchio, il nuovo e il nuovissimo; e quanto al pagamento - da riavviare - degli interessi, decisa, per il momento, l'estrazione a sorte delle cedole con le quali ricominciare. Designato, il 14 nov. 1520, il G. ad appianare, in colloqui con l'inviato della Porta, l'irritazione turca per un incidente a Corone che rischia di turbare i rapporti veneto-ottomani, è per lui, però, uno smacco personale, a fine febbraio del 1521, la drastica riduzione dell'entità, da lui caldeggiata, del donativo per il nuovo sultano con il quale parte per Costantinopoli l'ambasciatore straordinario. È un segnale che a palazzo ducale non è scontata la disponibilità ad approvare le sue indicazioni. E, come ci si discosta da queste, così - quando si tratta di eleggere il successore al doge Loredan - gli si fanno mancare i voti sufficienti. Nella fase finale dell'elezione, quella in cui i votanti sono 41, il G. ha 13 voti, poi 17, poi 15. In minoranza quelli che appoggiano la sua candidatura. È doge, con 28 voti, il 6 luglio 1521, Antonio Grimani.
Una sconfitta per il G., che ha un avversario ostinato in Alvise Priuli, implacabile nel denunciare in Senato il suo sottrarsi alle scelte collettive, la sua presunzione nel voler regolarsi di testa propria, la sua scalpitante impazienza con chi è di diverso parere. Né il G. può consolarsi con qualche successo militare in Lombardia ove le truppe venete combattono congiuntamente a quelle dirette da Odet de Foix visconte di Lautrec. Improvvido l'attacco di questo, del 13 ott. 1521, a un campo trincerato spagnolo. È battuto sonoramente essendo costretto a riparare - e con lui il G. - in fretta e furia a Milano. E da questa in fuga, il 19 novembre, il G. sino a Lodi, donde - dopo aver invano atteso Lautrec - si porta, con le forze superstiti, a Crema. Il criterio cui si attiene è quello di proteggere anzitutto le terre venete. Comunque, mentre Lautrec non riesce a prendere Pavia, il G. riesce a occupare Vigevano.
Di nuovo a Venezia e qui provveditore all'Arsenale, si rimette in affari commerciando, assieme ad Alvise Pisani, in cereali al punto che - quando, nel marzo del 1523, si affaccia l'ipotesi di una sua elezione a savio del Consiglio - è il G. stesso a sottolineare come ci sia oggettivo conflitto di interessi tra questa carica pubblica e la sua privata attività di mercante di "formenti" e, come tale, di virtuale fornitore dello Stato. Di lì a un paio di mesi muore, il 7 maggio, il doge Grimani. Di nuovo si esplicita la candidatura del Gritti.
Sdegnatissimo Alvise Priuli a dire a gran voce immeritevole del corno dogale un uomo che ha "tre bastardi in Turchia" (di certo rimasti a Costantinopoli Alvise e Giorgio e, forse, qui tornato uno dei due che il G. ha cercato di sistemare modestissimamente), autoritario, prepotente, prevaricante, invadente, "tyran". Avvantaggiato in compenso il G. dal netto rifiuto a candidarsi di Antonio Tron, quello che, in partenza, sarebbe stato il favorito. Sicché, ritiratosi il concorrente più pericoloso, pur nel fuoco di sbarramento della vociferazione a lui avversa - è smaccatamente filofrancese, è guerrafondaio, è femminiere impenitente, è smodatamente superbo, ha un pessimo carattere, si affannano a ripetere i suoi avversari - è sul suo nome che, nelle fasi intermedie del meccanismo elettorale, più convergono i voti: 18 su 45; 6 su 11. E sui 41 votanti finali, 22 quelli che lo voteranno sicuramente. Ma il quorum è di 25. Mancano 3 voti. Si adopera a procurarglieli Alvise Pisani, suo socio in affari e suocero di sua nipote Benedetta, moglie appunto di Giovanni Pisani, figlio di Alvise. Garantito, tramite la persuasiva pressione di Alvise Pisani, al G. almeno il voto di Pietro Cappello, che è dei 41. Banchiere, faccendiere Pisani, in grado di comperare - con 20.000 ducati e un prezioso rubino - da Leone X il cappello cardinalizio per il figlio Francesco, per e pur di sostenere il G. non si risparmia. Che il G. sia eletto doge - di strettissima misura, con 25 voti, non uno in più degli indispensabili -, nel tardo pomeriggio del 20 maggio 1523, è anche un suo successo. Ed esultante il G. di una vittoria nella quale non sperava: troppa l'"invidia" nei suoi confronti, aveva confidato qualche giorno prima all'"orator" mantovano. E appena doge non si trattiene dall'aggredire verbalmente Alvise Priuli per la sua testarda opposizione. Lungi dallo scusarsi, questi gliela ribadisce fieramente: "è vero - replica - mai ve ho volesto, né ve vorrò", nel rifiuto del "doxe tyran". E ancorché, nel giro in piazza successivo all'elezione, getti generosamente monete, pochi gli applausi. Più numerosi quanti gridano "Trun Trun"; è Tron, infatti, in fama di sollecito ai bisogni del popolo, di critico delle grandi famiglie patrizie che la popolazione avrebbe desiderato al posto del Gritti. Inviso a tanti nobili marciani, il nuovo doge è pure impopolare. Un'impopolarità fronteggiata con distribuzioni di grano a prezzo politico con demagogia strumentalmente spregiudicata propria di un paternalismo disincantato che sa blandire dall'alto quel tanto che basta a diminuire il malcontento, a disinnescare il fastidio di disturbanti proteste dal basso. Ma nessun sottinteso nel G. di ammiccamento scavalcante la classe di appartenenza a catturare un popolare consenso sul quale costruire il proprio personale risalto. Dentro il perimetro classisticamente cementato dello Stato ottimatizio il rilievo del Gritti. Tant'è che i patrizi più ostili non tanto l'accusano di guardare alla plebe, quanto di suscitare in questa un'avversione tale che si esprimerà con una violenza così distruttiva da abbattere con lui pure il sistema. E perché questo si salvi dall'ira del popolo, non resta che sventarla provvedendo da dentro il sistema all'eliminazione del "doxe chan".
Così i versi di un anonimo patrizio che - dettati da "el zelo d'amor" per lo "stato" così com'è, con il suo regime aristocratico plasmato lungo i secoli dalla sapienza civile di una nobiltà contrassegnata dalla dedizione alla propria creatura - esortano, appunto, a uccidere il G., prima che sia troppo tardi. "Se voi non lo punireti, / dal populo tutto occixi sareti". Sopprimendo il G., purtroppo al vertice della Repubblica, evitato il pericolo di un'insurrezione antiaristocratica. Grondante odio per il G. il verseggiare dell'anonimo lagunare, ma nel contempo, suo malgrado, anche riconoscente, implicitamente, che il protagonismo grittiano - per lo meno agli occhi dei sudditi - fa tutt'uno con il regime, non è da questo distinguibile. Non ne è - per lo meno se visto dal basso - anomalia deformante, ma espressione. E al punto che l'odio per lui tracima a odio per l'intero assetto. E, allora, alla salvezza di questo il G. va sacrificato.
Tale il senso dell'invito ai "signori" del governo a una sorta di fulminea operazione chirurgica - di fatto una congiura - che elimini il bubbone generato dalla struttura statale stessa. Un'espulsione tramite resecazione di quanto imbruttisce - alla vista dall'esterno - la facciata costituzionale della Repubblica. Estetico, in certo qual modo, il cruccio del poeta senza nome. Quel che l'angoscia è il ripristino della facciata sicché - senza più il G. a sconciarla - appaia al popolo di nuovo bella e ammiranda. Un'ammirazione che si traduca in rispetto del contenuto: lo Stato patrizio così com'è.
Decapitato, a suo tempo, Marin Falier perché "vago de esser signor", di impiantare sulle macerie dello Stato repubblicano una personale signoria-dinastia. Estraneo un vagheggiamento del genere anche alle pieghe più riposte della mente del Gritti. Il "tyran" scagliatogli addosso con roboante veemenza da Pasqualigo va ridimensionato e sdrammatizzato: vale a dirlo imperioso, autoritario, superbo. Una connotazione trasferibile anche ad altre individualità patrizie del tempo; e, nel caso del G., mai sospinta sino a sommuovere la costituzione materiale - vistosamente anomalo, semmai, in questa e squilibrante il ruolo decisionale del Consiglio dei dieci con strisciante invadenza delle competenze del Senato, di per sé, sulla carta, baricentro dello Stato - vigente e sempre trattenuta dal rispetto delle regole e delle consuetudini.
Se - per rimettersi da un attacco di podagra - soggiorna per un po' a Murano, il G. si premura di avere, dal Maggior Consiglio, la relativa autorizzazione. Magari, in cuor suo, infastidito il G. dalla rumorosa loquacità ogni tanto riscontrabile in quest'organo affollato e sin costipato. E però è il G. ad adoperarsi, nel 1526, per persuadere il Senato all'accettazione di provvedimenti votati in quello così da evitare tensioni. Né assegnabile semplicemente il G. a un'oligarchia ristretta di poche famiglie influenti, laddove, anzi, deprecando in Collegio l'occupazione - da parte dei Pisani, dei Grimani, dei Corner - delle più prestigiose e lucrose cariche ecclesiastiche, dagli appetiti delle grandi casate prende le distanze e sin si smarca. Tripartibile il patriziato in ricchi, mediocri e poveri, sottolinea il G. nel rivolgersi, il 26 maggio 1523, al Maggior Consiglio per poi dichiararsi sollecito dei meno abbienti. Certo preoccupato a catturare simpatie a un dogado che inizia senza beneauguranti manifestazioni di giubilo il G.; ma non solo mossa tattica la sua. Dicendosi paladino degli indigenti tra i nobili in quella sede, sta rafforzando la sede stessa.
Se, nel settembre del 1528, il Consiglio dei dieci si oppone a che il G. si incontri da solo con l'ambasciatore francese Jean Langeac, al di là del richiamo del rispetto delle regole avvertibile - da parte dei Dieci - una spinta al pignoramento della politica estera anch'esso non più che tanto in regola. Di fatto strattonate le regole. E se ciò può essere talvolta imputato al G. - come quando si prende la libertà di leggere da solo dopo averle aperte da solo lettere ufficiali e non alla presenza di almeno due consiglieri o savi; e, allora, gli si ricorda la promissio e si esige che, il 6 dic. 1537, ne rigiuri la scrupolosa ottemperanza - è perché sottoposto a un meticoloso controllo cui nulla di quel che fa sfugge.
Sempre sotto controllo, in effetti, la figura del doge a Venezia, via via blindata a simboleggiare lo Stato, a incarnarlo nei ricevimenti, nelle manifestazioni solenni sacre e profane, nelle cerimonie di accoglienza e di congedo, nelle udienze. Una cornice che al G. sta stretta, ma che non tenta di rompere. È standoci dentro, saggiandola là dove è flessibile e allentabile, che si realizza la sua convivenza con il quadro istituzionale in uno sforzo, doveroso, di protratta autodisciplina. Ne sprigiona pur sempre l'energica risolutezza di quest'uomo "nato per dominare" (così felicemente ne riassumerà la personalità Francesco Sansovino nel 1561) colta nel quadro tizianesco della National Gallery di Washington, a mo' di maiestas che, esaltata dalle vesti, culmina nella perentorietà dardeggiante dello sguardo. Imbrigliata, irretita, sin precettata la prorompente personalità del G. dalla carica, da questa compressa e però non schiacciata dacché - laddove è prevista la sua presidenza - esprimente un'auctoritas orientante, pilotante, trainante e sinanco, talvolta, soggiogante. Non solo simboleggiante il doge, se timbra l'architettura e l'urbanistica, se lascia, così, la propria impronta perenne su Venezia non senza - con il ricorso a Francesco Maria Della Rovere - esaltarla quale Dominante in un territorio che, stando al duca urbinate, avrebbe dovuto essere sin strutturalmente militarizzato. E in ciò non smodata brama di comando, non smanie tiranniche, non costituzione vilipesa, ma un'autostima - indubbiamente altissima, tetragona, immune da dubbi, ignara di perplessità - sostanziata di senso civico, nutrita di spirito di servizio. Convinto, convintissimo, sin troppo il G. delle proprie capacità ideative e attuative, ma profuso detto convincimento a pro della civitas. Indubbiamente tende a giganteggiare, ma come servitore della Repubblica. Preposto il servizio di questa anche quando con le sue scelte il G. è in intimo disaccordo. Ci sono svolte, nella politica estera della Serenissima, che il G. non condivide. Per esempio l'alleanza "perpetua" con Carlo V e suo fratello arciduca del 29 luglio 1523 e la conseguente pubblicazione, del 15 agosto, della pace con colleganza che il G. - checché interiormente ritenga - adeguandosi proclama. Certo che, alla luce del poi, suona non solo solida ma anche lungimirante e presaga la sua perorazione della convenienza della pace con il Turco chiesta inutilmente da un inviato della Porta il 1° sett. 1537. Inascoltato, allora, il vecchio doge, dato che il governo, l'8 febbr. 1538, con la lega con il papa e l'imperatore all'insegna della crociata si imbottiglia in un disegno imperiale che, assieme alla lotta antiturca, preventiva, lungo questa, l'indebolimento della Serenissima. E l'insuccesso, del 27 settembre, della Prevesa - addebitabile anche allo sconcertante comportamento di Andrea Doria - sta lì a confermare che il G. a diffidare della crociata aveva ragione.
Favorevole alla quinquereme di Vittore Fausto, promotore della chiamata a maestro di cappella di Adrian Willaert, attento all'attività cantieristica dell'Arsenale, preoccupato della salvaguardia dell'ambiente lagunare, insistente per la ricostituzione del Collegio delle acque e attivo nel presiederlo, sollecitante l'erezione del palazzo dei Camerlenghi, attento - dopo il crollo del 14 ag. 1524 di metà ponte di Rialto - a visionare il progetto di rifabbrica, preoccupato della statica della basilica, stimolante al riordino organico della selva legislativa proliferata lungo i secoli. E - a quest'ultimo proposito - il gran codice da lui patrocinato avrebbe dovuto essere in latino. Ma si opta, contro il suo parere, per l'italiano per non riserbare l'intendimento ai soli colti e ai soli tecnici del diritto. Anche parecchi patrizi il latino non l'intendono. Elitario, per tal verso, il G. nell'escludere dalla comprensione del dettato i numerosi nobili di latino digiuni o con il latino a disagio, laddove - stando alla praefatio del G. alla silloge consegnatagli dai Tre savi alla revisione delle leggi - egli lo padroneggia compiutamente. Non per questo si chiude al volgare specie se l'attore Zuan Polo si esibisce con una canzone in sua lode, specie quando si tratta di leggere Aretino, colui che convince Iacopo Sansovino a rimanere a Venezia. E in questa, favorito dal G. con l'incarico di proto della basilica, dispiega, assecondato dal patrocinio non solo intendente ma pure suggerente del G., il coerente intervento complessivo di una renovatio esaltante l'imago urbis con l'impennarsi del più smagliante splendor civitatis. Come visualizzato, tramite il proto, il significato che il G. vuole sprigioni dalla città.
Doge in età avanzata, l'esercizio senza risparmio di energia della carica finisce, con il procedere degli anni, con il logorare la fibra robusta del Gritti. Il 25 marzo 1530 è malconcio per una caduta. E stenta a ristabilirsi se, il 25 aprile, in basilica, non ce la fa a salire nel cosiddetto "pergolo" del doge. E dall'apprendimento della tragica fine del figlio naturale Alvise - imbarazzante costui lungo la vita politica del G. che, peraltro, si oppone all'eventualità si insignorisca di Clissa e che, peraltro, giunge a dichiararsi pronto ad abdicare se la Repubblica lo ritiene opportuno; ma non per questo non amato - del 29 sett. 1534 il G. è schiantato dal dolore, al punto da impietosire sinanco un uomo arido e duro come il nunzio pontificio Girolamo Aleandro. Ma non si lascia andare alla disperazione. Si riprende. È di nuovo attivo. E la morte lo attende a pie' fermo, non senza predisporre l'orazione funebre: l'oratore sarà Bernardo Navagero; e, a ogni buon conto, preferisce che il testo gli venga sottoposto; e quel che vi è scritto è di suo gradimento. Ma non pensa solo a essere degnamente - una volta morto - commemorato. Ai piaceri della mensa non rinuncia. La vita sobria cui esorterà Alvise Corner non fa per lui. E quattro giorni prima di morire si concede, il 24 dic. 1538, una gran mangiata di pesce. Muore il 28 dic. 1538 ed è sepolto, dopo le esequie solenni, ai Ss. Giovanni e Paolo, in quella chiesa di S. Francesco della Vigna di cui, nel 1534, ha promosso la rifabbrica affidandola a Iacopo Sansovino.
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