GUARNA, Andrea
Nacque probabilmente a Cremona in una data imprecisata nella seconda metà del Quattrocento. In base agli scarni dati di cui disponiamo non è possibile avanzare un'ipotesi fondata di cronologia che abbracci gli estremi della sua vita (troppo debole indizio il fatto che nel 1452 il padre fosse in età per eseguire un mandato testamentario).
L'unico documento che ci permetta di risalire alla famiglia di appartenenza è la lapide che ignoti discendenti posero nel 1586 all'interno della cappella di famiglia, dedicata a S. Pietro Martire, nella chiesa di S. Domenico a Cremona - demolita nell'Ottocento -, il cui testo è riportato dall'Arisio. Da essa apprendiamo che il G. nacque da Bartolomeo Guarna Salerno; ebbe quattro fratelli, tre dei quali, Giacomaccio, Benedetto e Tommaso, vengono definiti "patrizi cremonesi", mentre il quarto, Lodovico, fu dedito a quel mestiere delle armi che aveva determinato le fortune della famiglia. Il nonno del G., infatti, anch'egli di primo nome Giacomaccio, fu capitano al soldo di Francesco Sforza e al suo fianco si portò dal Regno di Napoli nell'Italia settentrionale. Cronache cinquecentesche definiscono il G. "Iacobus cognominatus Iacomatius de Guarna ex Salerno Campaniae" (Cavitelli, c. 193v), o "Giacomazzo Salerno" (Campo, pp. 87 s.), e in particolare il Cavitelli precisa che la famiglia Guarna, come le altre dei capitani sforzeschi di origine meridionale, "denominatae fuerunt a municipiis unde oriundi fuerunt, et scilicet Salerna". A conferma di un progressivo abbandono del cognome Guarna a favore di Salerno o Salerni, si possono assumere da un lato la stessa lapide di S. Domenico, in cui i discendenti che la posero si dicono Salerni, dall'altro le opere stesse del G.: nei versi che due poeti cremonesi, Gaspare Aviato e Girolamo Fondulo, composero a encomio del suo Bellum grammaticale, l'autore viene definito senz'altro "Andreas Salerno".
I Guarna Salerno divennero dunque cremonesi e patrizi grazie a Giacomaccio, il quale, per i servigi resi soprattutto tra il 1446 e il 1448, venne accolto "inter cives Cremonae" (Cavitelli, c. 196r) e ricevette da Francesco Sforza beni nella località di Formigara e altrove, nonché l'esenzione perpetua dai tributi per sé e per i suoi discendenti (Campo, p. V). Nel 1508, un Giacomaccio Salerno, con ogni probabilità il fratello del G., fu tra i 45 cittadini cremonesi presi in ostaggio e condotti a Venezia, per evitare sedizioni nell'imminenza dell'attacco francese (G. Sommi Picenardi, Cremona durante il dominio dei Veneziani (1499-1509), Milano 1866, p. 158).
In assenza di documenti archivistici, le poche notizie certe sul G. sono ricavabili soltanto dalle sue opere: l'opuscolo didattico Bellum grammaticale, stampato a Cremona "per Franciscum Ricardum de Leure" nel 1511, e il dialogo satirico Simia, impresso a Milano da Gottardo Da Ponte nel 1517. Dal Bellum si evince che il G. nel 1511 aveva già ricevuto gli ordini sacri, dato che al suo nome si accompagna l'attributo di reverendus, e che aveva contratto legami e amicizie nell'ambiente romano. Il Bellum infatti è dedicato al giureconsulto Paolo Emilio Cesi, che nel 1517 divenne cardinale: il tono confidenziale della dedica lascia intendere che tra i due correvano rapporti amicali. Inoltre, sempre nel Bellum, viene introdotto, come collegio giudicante il conflitto sorto nella provincia grammaticale, un triumvirato di celebrati oratori e umanisti contemporanei dell'ambiente romano: Raffaele Lippo Brandolini, Pietro Marso e Tommaso Fedra Inghirami.
Più complessi i rinvii al contesto romano che emergono dal dialogo Simia, i cui personaggi, l'ambientazione e le vicende descritte si riferiscono implicitamente o esplicitamente a fatti e persone reali della Roma di Giulio II. Dalla dedica al marchese di Cortemaggiore Gian Lodovico (II) Pallavicino apprendiamo che il Simia fu composto a Roma l'anno precedente la pubblicazione per alleviare le pene di un non meglio identificato vir nobilis che si trovava recluso in un carcere romano. Dunque il G. fu a Roma, non sappiamo con quale continuità, tra il 1510-11 e il 1516; ignoriamo quale occupazione o carica vi ebbe, ma non è improbabile che fosse familiare di un cardinale, a giudicare dall'accorato e sarcastico lamento espresso nel Simia dal personaggio di s. Pietro per la condizione dei familiares cardinalizi.
Dalle due opere si ricava un profilo singolare del G., sospeso tra pura vocazione umanistica - la grammatica, l'insegnamento, le nuove acquisizioni in fatto d'eleganza e la sensibilità filologica -, e interessi più aggiornati, quali la codificazione, la divulgazione, la mnemotecnica allegorica, il ricorso alla satira come strumento ambiguo di intervento e polemica. Questa diversità di inclinazioni si riflette nell'opposta fortuna che ebbero le due opere. Il Bellum conta circa 110 edizioni (per la maggior parte nell'Europa settentrionale) fino al XIX secolo, infinitamente rimaneggiato, plagiato, adattato, tradotto (sono dieci le traduzioni in italiano, tedesco, francese, inglese e svedese) e rappresentato nei teatri universitari o in presenza di regnanti (Elisabetta d'Inghilterra), poi dimenticato nel Novecento (con la rilevante eccezione del Bolte). Il Simia non ebbe ristampe dopo l'editio princeps, quasi illeggibile per i refusi, ma tra Otto e Novecento vi fu un convergere di interessi che va da Stendhal, nella sua Histoire de la peinture italienne, alla più recente critica d'arte.
Il Bellum grammaticale è una fabula allegorica che, attraverso la rappresentazione di un conflitto per la conquista del regno grammaticale tra il re dei nomi "Poeta" e il re dei verbi "Amo", configura un metodo di apprendimento della lingua latina e della formazione di regole morfologiche e grammaticali, ma anche un'istanza normativa fondata sulla triade classica di Prisciano, Servio e Donato. A sancire il successo del Bellum nell'Europa moderna fu probabilmente, da un lato, l'estrema semplificazione dell'elegantia umanistica, dall'altro l'impostazione didascalica fondata sull'intreccio fra allegorismo medievale e mnemotecnica classica, con la sua organizzazione di res e verba per loci e imagines agentes impressionanti e violente.
La tarda fortuna del Simia è legata al suo valore documentario circa taluni aspetti della Roma giuliana e soprattutto al suo personaggio centrale: Donato Bramante. Il dialogo latino si svolge alle porte del paradiso tra un manipolo di morti e s. Pietro, che ne vaglia i titoli di merito per concedere l'ingresso: l'espediente letterario permette al G. di pronunciare giudizi piuttosto taglienti su corruzione e vizi della Curia e della burocrazia romane, sul sistema delle indulgenze e sulla classe cardinalizia. Gran parte dei personaggi dialoganti, realmente esistiti e scomparsi tra il 1508 e il 1514, anno di morte del Bramante, appaiono fortemente tipizzati in funzione del loro ruolo professionale, culturale e sociale: vi sono esponenti della burocrazia pontificia (Francesco Brevio e Ioannesex Alemania) e della gerarchia ecclesiastica (Enrico Bruni), un curiale virtuoso (Alessandro Zambeccari) e un curiale avaro (Pietro Turres), un romano di alto lignaggio (Angelo Massimi) e l'umanista greco meschino e opportunista (il Simia, o Demetrio, che dà il titolo all'opera e potrebbe rimandare al famoso Demetrio Calcondila, morto nel 1511). Il personaggio di Bramante si stacca su tutti gli altri per la sua paradossale e comica compiutezza, delineato come un incallito epicureo le cui burlesche e stizzose provocazioni riescono a divertire persino s. Pietro. Viene accusato di aver perseguito soltanto il proprio piacere, ma anche di aver demolito la veneranda basilica di S. Pietro senza garantirne la ricostruzione: egli eviterà la dannazione - senza alcun pentimento per la propria condotta terrena -, ma per entrare in paradiso dovrà attendere che Leone X porti a compimento il nuovo tempio.
Di interesse per la biografia del G. è la probabile identificazione di due personaggi soltanto evocati con apparenti pseudonimi all'interno del dialogo, Donato e Savoia, con i quali Simia afferma di avere sostenuto molte disputationes de Trinitate. Il primo non può essere altri che il patrizio veneto Girolamo Donà (Donati o Donato), diplomatico e teologo autore di un De processione Spiritus Sancti, contra Graecum schisma: fu podestà a Cremona nel 1502-04 (e non è difficile immaginare, in questa occasione, un suo primo contatto con il G.) e oratore nel 1509 presso Giulio II; morì a Roma nel 1511. Quanto al Savoia, invece, che il G. definisce "poeta bonus et iocundus", nonché "summos Graeciae philosophos docere […] paratus", è da identificarsi con il Savoia presente nella raccolta poetica Suburbanum Augustini Chisii (Romae 1512) e in quella dei Coryciana editi da Blosio Palladio (ibid. 1524), evocato da Iacopo Sadoleto nella famosa lettera da Carpentras ad Angelo Colocci del 1529 in uno con il dedicatario Johann Goritz e con un "Donatus" che rimanda al Donati del Guarna. Per i suoi legami con Venezia, la sua cultura sospesa tra antichità greca e teologia, le sue funzioni di alta diplomazia e i suoi legami con l'accademia greca di A. Manuzio, l'unico Savoia che si possa affiancare al Donati è Alberto (III) Pio da Carpi, che ereditò dal padre il privilegio di aggiungere al proprio l'illustre cognome. Nella composita cerchia romana di Alberto Pio e di Goritz - che forse possiamo individuare nel Ioannes ex Alemania del dialogo, notaio della Rota, condannato all'inferno - il G. poté anche direttamente conoscere artisti illustri come il Bramante.
Quanto alle fonti del Simia, non vi è dubbio che, come ispirazione generale, esso tragga spunto principalmente dai dialoghi dei morti lucianei, ma attinge in special modo all'Icaromenippo dello stesso Luciano e secondariamente all'Apocolocyntosis senecana; non meno evidente il debito e la sintesi con stilemi scenici e linguistici della commedia plautina e terenziana, soprattutto nella più debole sezione finale dell'opera, dove Angelo Massimi, tornato in vita per impetrare a Leone X la liberazione del prigioniero per il quale il G. afferma di aver composto l'opera, si diletta a terrorizzare, uscendo vivo dal suo sepolcro in S. Maria della Pace, i mendicanti che stazionano intorno alla chiesa. Certamente, il G. fu influenzato dall'impegno dell'Accademia romana, e in primis dell'Inghirami, nel riscoprire e far rivivere il teatro classico, ma il solco entro il quale si inserisce è soprattutto quello lucianeo percorso da personalità molto diverse come Leon Battista Alberti, Maffeo Vegio, Antonio De Ferrariis detto il Galateo e Battista Fiera (che nel De iusticia pingenda del 1515 pose Mantegna a dialogare con il dio Momo nella Roma di Innocenzo VIII). Nel medesimo solco troviamo lo Iulius exclusus e coelis di Erasmo da Rotterdam, composto presumibilmente tra 1513 e 1514 a Cambridge e stampato per la prima volta nel 1517, con il quale il Simia del G. ha sorprendenti analogie. Nell'opera erasmiana s. Pietro si trova a fare i conti con Giulio II che pretende di entrare in paradiso per diritto acquisito: il pontefice appena defunto proclama i suoi meriti marziali e vuole imporre la propria visione della Chiesa come potenza mondana. Il Simia si apre su Giulio II ben insediato in paradiso e giustificato nelle sue gesta guerresche, ma lo schema generale dell'opera, i caratteri dei due protagonisti Bramante e Giulio II (a loro modo egualmente tracotanti e impenitenti), la presenza del personaggio del Genius in entrambi i testi, fanno pensare a un qualche rapporto. Inoltre, tra le ultime battute di s. Pietro contro Giulio II vi è l'invito ironico a costruirsi, visto che è anche architetto, un paradiso privato e fortificato in modo che nessuno vi entri; nel Simia Bramante pone addirittura come condizione del proprio ingresso in paradiso di poterlo ricostruire più ampio e accessibile a tutti mediante un'immensa coclide (il rinvio è alla coclide da lui costruita nel Belvedere per ascendere al "giardino delle esperidi", l'antiquarium paganeggiante dei papi). Unico depositario di alcune carte inglesi di Erasmo, tra cui l'autografo dello Iulius, fu il suo segretario Thomas Lupset, che le trattenne fino al 1516, con grave disappunto di Erasmo. Lupset si trovò a Roma tra il 1515 e il 1516 ed ebbe contatti con Ulrich von Hutten, il quale a sua volta frequentava assiduamente la cerchia del Goritz. Si può perciò ipotizzare una diffusione orale dei contenuti e delle sciabolate del pamphlet erasmiano in ambienti romani contigui a quelli frequentati dal G.; quest'ultimo può avere deciso di rispondere sullo stesso terreno per mostrare quali fossero i confini della satira letteraria: affondi contro la corruzione dei costumi erano pur sempre possibili, anche contro lo spropositato fasto denunciato dalle ambizioni giuliane e bramantiane, ma non si poteva mettere in dubbio la divinità dei pontefici e la legittimità delle ricchezze ecclesiastiche. Un elemento centrale dell'opera del G., lo scontro di cultura tra greci e latini per cui Simia finisce all'inferno, potrebbe adombrare una polemica contro un'eccessiva grecizzazione della cultura (di cui poteva essere considerato alfiere l'Erasmo frequentatore dell'Accademia Manuziana), che rischiava di marginalizzare le prerogative, anche politiche, della romanità. Si tenga presente infine che Erasmo conosceva bene Girolamo Donà e Alberto Pio, e che il Savoia del Simia presenta la sua opera, per impartirgli una lezione di lettere latine, a un Cratone greco diretto in Inghilterra.
Al G. sono inoltre ascritte nel ms. 101.38 dell'Archivo capitular della cattedrale di Toledo, alcune "Andreae Guarne [sic] Salernitani adnotationes", che il Kristeller (IV, p. 647b) descrive come "an alphabetical collection of glosses".
Edizioni moderne delle due opere maggiori del G. sono: Andreas Guarnas Bellum grammaticale und seine Nachahmungen, a cura di J. Bolte, in Monumenta Germaniae paedagogica, XLIII, Berlin 1908, pp. IX-XVIII, 3-54, 253-283; Simia, ed. anast. a cura di G. Nicodemi, Milano 1943, e, con il testo emendato da G. Battisti, introd. e trad. di E. Battisti, Roma 1970.
Fonti e Bibl.: A. Campo, Dell'historia di Cremona, Cremona 1585, pp. I-II, V, 87 s., 97; L. Cavitelli, Annales, Cremonae 1588, cc. 193v, 196r; I. Sadoleto, Epistolae, I, Roma 1760, p. 314; F. Arisi, Cremona literata, II, Parma 1705, pp. 29-33; G. Bossi, Del Cenacolo di Lionardo da Vinci, I, Milano 1810, pp. 246-249, n. 3; F. Patetta, La figura del Bramante e alcuni riflessi di vita romana dei suoi tempi nel "Simia" d'A. G., in Atti della R. Accademia d'Italia. Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 7, IV (1943), pp. 165-202; Editori e tipografi a Milano nel Cinquecento, II, Annali tipografici di Alessandro Minuziano, Leonardo Vegio e Gottardo Da Ponte, a cura di E. Sandal, Baden-Baden 1978, pp. 61 ss., n. 331; A. Carucci, Un salernitano del Cinquecento critico del Bramante, in Rassegna storica salernitana, n.s., VIII (1991), pp. 189-197; J.M. Octavio de Toledo, Catálogo de la Librería del Cabildo toledano, I parte - manuscritos, Madrid 1903, p. 107, n. CCXVIII; P.O. Kristeller, Iter Italicum, III, p. 110b; IV, p. 647b.