MARONE, Andrea
MARONE (Marrone, Maro), Andrea. – Figlio di Pietro e della veneziana Cecilia Tiepolo, sono incerti sia il luogo sia l’anno di nascita.
Sembra che la famiglia fosse originaria di Brescia, ma non esistono documenti che comprovino la nascita del M. in quella città. Probabilmente nacque a Pordenone, malgrado nelle fonti sia spesso indicato come Brixianus (e così alle volte si firmò nelle sue opere). Dubbio l’anno di nascita: 1474 o 1475 (in Santini, p. 111, l’indicazione degli interventi sulla questione). Ebbe come fratelli Pietro e, forse, un Raffaele, abile nell’arte dell’incisione e dell’intarsio, che fu monaco olivetano.
Compì i primi studi a Pordenone e a Padova; giovanissimo insegnò come pubblico maestro di lettere a Venzone e a Gemona, in Friuli. Dopo avere preso il sacerdozio, si trasferì a Brescia, dove perfezionò gli studi letterari sotto la guida di Carlo Valgulio e Pietro Bagnadore degli Orci, detto Manerba. Allo scadere del secolo partecipò a importanti imprese editoriali a Venezia, anche se non è provato che si sia recato di persona nella città. Nelle Comoediae di Plauto (Venezia, S. Bevilacqua, 1499, c. Iv) compare un suo epigramma in lode degli autori del commento, Giovan Pietro Valla, figlio di Giorgio, e Bernardo Saraceno. Un altro epigramma è premesso alla Hypnerotomachia Poliphili, uscita dai torchi di Aldo Manuzio nel dicembre 1499.
In questi versi, firmati come «Andreas Maro Brixianus», il M. riporta un dialogo immaginario in cui un lettore curioso chiede alle Muse di svelare il nome dell’autore dell’opera, ottenendo un netto rifiuto, giustificato dal fatto che, se il segreto sulla paternità del libro fosse reso noto, il «livor rabidus» colpirebbe anche un’impresa così sublime (ed. 1998, I, col. 8; II, p. 11; cfr. Gallo, pp. 143-146). È stata anche avanzata l’ipotesi che dietro una battuta dell’epigramma, «Nolumus agnosci», si nasconda l’anagramma di «Columna gnosius» (cfr. ed. 1998, II, pp. 495 s.), con allusione al misterioso Francesco Colonna autore dell’opera. Comunque sia, l’epigramma è partecipe della scelta editoriale di occultare il nome dell’autore e il giudizio pessimista sui tempi che contiene sembra in linea con l’umanesimo problematico e sensibile alla crisi contemporanea tipico di Manuzio, il che proverebbe una non superficiale condivisione di intenti tra i due.
Al 1507 risale la stampa dell’Ad sanctissimum et invictissimum Galliarum regem Ludovicum… panegyricus (edito da A. Minuziano per i tipi L. Vegio): il M. vi esorta Luigi XII, nel suo secondo ingresso a Milano, ad annientare i Turchi. Il breve testo testimonia la partecipazione del M. alle vicende politico-militari del momento e l’adesione al partito filofrancese, con una chiara presa di posizione antisforzesca. Confermano questo indirizzo politico tre sonetti giocosi in volgare (unicum, per quanto è noto, nella produzione tutta latina del M.) sulla caduta di Ludovico Sforza il Moro. I sonetti sono in volgare bresciano, alla facchinesca, il dialetto rustico della Val Brembana (o in bergamasco «tinto, in qualche tratto, di bresciano» secondo Marri, p. 242) e questo potrebbe essere un indizio che almeno fino al 1500 (anno della cattura del Moro nella battaglia di Novara) il M. risiedeva ancora a Brescia, ma non più nel 1508, anno della morte dello Sforza in Francia, cui i sonetti non fanno cenno.
Nei tre testi le accuse al Moro raggiungono accenti molto sferzanti. Il primo, O vet, o vet, o vet o Lodevich? (a lungo attribuito a Lancino Curti, cfr. Marri, p. 242 e n. 42), parla della fuga di Ludovico da Milano verso il Tirolo nel 1499 per mettersi sotto la protezione dell’imperatore Massimiliano I; il secondo, Din don, din don, ch’a l’è cazut ol Scagn, tratta della cattura del fratello del Moro, il cardinale Ascanio Sforza; nel terzo due popolani (ma potrebbe anche trattarsi di due soldati) discutono in tono sentenzioso e sarcastico della cattura del Moro (Dialogo Guielmí e Bertaz: Olà mò tí, no sé gn’è pris ol Mor?).
Dal 1510 il M. compare nel registro degli stipendiati del cardinale Ippolito d’Este, per cui svolse incarichi nella penisola (nel 1514 era a Roma). Nella Ferrara estense strinse amicizia con C. Calcagnini, Antonio Tebaldeo, L. Ariosto. Pur risultando tra i familiari addetti alla persona di Ippolito ancora nel 1516, il M. risiedette a Roma per la maggior parte del tempo già dal 1515, probabilmente per curare gli interessi del cardinale.
A proposito del viaggio di Ippolito in Ungheria nel 1517, alcuni biografi hanno avanzato l’ipotesi che il M. lo abbia seguito dopo il clamoroso rifiuto di Ariosto; in realtà, nel gruppo degli accompagnatori fu Calcagnini, il quale dedicò versi al M. (in Liruti, p. 101) proprio per consolarlo di non essere stato tra i prescelti. Anche Ariosto, che venne allontanato dal cardinale d’Este per avere rifiutato di seguirlo, nella Satira I gli diresse versi di amara consolazione: «Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta / con la lira in un cesso, e una arte impara, / se beneficii vuoi, che sia più accetta. / Ma tosto che n’hai, pensa che la cara / tua libertà non meno abbi perduta / che se giocata te l’avessi a zara; / e che mai più, se ben alla canuta / età vivi e viva egli di Nestorre, / questa condizion non ti si muta. / E se disegni mai tal nodo sciorre, / buon patto avrai, se con amore e pace / quel che t’ha dato si vorà ritorre.» (vv. 115-126, e v. 171).
A Roma, dove si stabilì dopo la morte di Ippolito, nel 1520, il M. si affermò. Ariosto lo ricorda nella cerchia riunita intorno al cardinale Alessandro Farnese, futuro Paolo III, nell’ultimo canto (XL, ott. 8, v. 8) della prima edizione del Furioso (Ferrara 1516, ma l’inizio della stampa è del novembre 1515). L’elogio permane nelle edizioni successive (1521, 1532, c. XLVI, ott. 13), con l’aggiunta di un ulteriore cenno (c. III, ott. 56, v. 8), nel quale il M., qui come cortigiano di Ippolito, viene paragonato all’altro «Maron», cioè Virgilio. Alla corte di Leone X il M. divenne celebre soprattutto come verseggiatore estemporaneo in latino.
Il papa mediceo amava circondarsi di poeti improvvisatori. Particolarmente ammirati furono Raffaele Lippo Brandolini e il M., al quale ultimo era riconosciuta la capacità di verseggiare su qualsiasi argomento, comprese questioni politiche molto delicate, come, per esempio, la questione turca e la Lega santa. Durante il banchetto annuale offerto dal papa per alcuni ambasciatori il 27 sett. 1517 il M. si esibì con un lungo poema, nel quale sollecitava tutti i potenti a unirsi nella lotta contro il sultano Selim I che minacciava l’Europa (Giovio riporta l’incipit del poema, «Infelix Europa diu quassata tumultu bellorum», nei suoi Elogia, p. 97). Già in precedenza, il 27 sett. 1515, in una gara indetta da Leone X per la festa dei Ss. Cosma e Damiano, patroni della famiglia de’ Medici, il M., secondo il resoconto di L.G. Giraldi, aveva surclassato altri poeti, tra cui proprio Brandolini, anche grazie alla capacità di accompagnarsi magistralmente con il liuto o con la viola.
Il favore del pontefice si concretizzò nell’elargizione di un beneficio ecclesiastico a Capua (dal 1502 l’Este era amministratore della diocesi) e di un altro a Tivoli. A Tivoli il M. si rifugiò temporaneamente quando fu allontanato dal palazzo papale, come molti altri letterati e artisti, dal nuovo papa Adriano VI. Richiamato in Vaticano da Clemente VII, fu di nuovo partecipe della vita letteraria della corte.
Partecipò con tre epigrammi ai Coryciana, la raccolta di versi in omaggio all’umanista lussemburghese Johann Goritz pubblicata a Roma (L. degli Arrighi - L. Perugino), per le cure di Blosio Palladio, nel luglio 1524 (ed. 1997, pp. 196 s.) ed è nominato nel poemetto De poetis urbanis di Francesco Arsilli pubblicato in calce alla raccolta (vv. 335-345, ed. 1997, p. 357). Un altro suo componimento è nell’edizione di Ippocrate Octoginta volumina…, pubblicata a Roma nel 1525 per F.M. Calvo.
Le tracce del M. si perdono nei tragici eventi del sacco del 1527, durante il quale fu derubato e percosso dai lanzichenecchi; i suoi manoscritti andarono perduti e si ammalò gravemente. Morì a Roma in una misera taverna di via della Scrofa, in Campo Marzio. Circa la data di morte, spesso collocata dai biografi (a cominciare da Giovio, Elogi, p. 97) nello stesso 1527, alcune annotazioni rintracciate nel diario di uno scrittore della Penitenzieria apostolica dal dicembre 1527 all’aprile 1528 (Da Como, pp. 7, 11 s.) consentono di fissarla al 24 marzo 1528.
A causa della dispersione delle sue carte, ma anche della natura estemporanea del suo fare poetico, sono molto poche le opere del M. che ci sono giunte. Ad attestare il suo prestigio come improvvisatore rimasero le testimonianze degli amici sopravvissuti, che ne tramandarono la memoria. Oltre che negli Elogia, Giovio lo ricorda nel Dialogus de viris et foeminis in nostra aetate florentibus; Pierio Valeriano (G.P. Dalle Fosse), che fu testimone dei suoi ultimi giorni di vita, nel De litteratorum infelicitate; inoltre l’epitafio composto da Antonio Tebaldeo (Vat. lat., 2835, c. 231r, in Santini, p. 111; per altre memorie cfr. Benedetti, pp. 20-22). Ancora C. Caporali, nella Vita di Mecenate, lo ricorda come «poeta, che per far all’improvviso / versi latin non ebbe paragone» (p. 246).
Per le opere del M. si veda U. Da Como, pp. 111-138; i sonetti in volgare bresciano in Antologia del dialetto bresciano, a cura di A. Fappani - T. Gatti, Brescia 1971, p. 29, e in F. Marri, Lingua e dialetto nella poesia giocosa ai tempi del Moro, in Milano nell’età di Ludovico il Moro. Atti del Convegno internazionale… 1983, Milano 1983, I, pp. 270-276.
Fonti e Bibl.: L.G. Giraldi, De poetis nostrorum temporum, in Id., Opera quae extant omnia, III, Basileae 1580, p. 393; P. Valeriano (G.P. Dalle Fosse), De litteratorum infelicitate libri duo, Venetiis 1620, pp. 66-68; Orlando furioso di Ludovico Ariosto secondo le stampe del 1516, 1521, 1532 rivedute dall’autore, a cura di F. Ermini, II, Roma 1913, p. 519; II, ibid. 1513, p. 602; L. Ariosto, Satire, a cura di A. D’Orto, Parma 2002, pp. 17-19, 23; P. Giovio, Gli Elogi degli uomini illustri, a cura di R. Meregazzi, Roma 1972, pp. 96 s.; Id., Dialogi et Descriptiones, a cura di E. Travi - M. Penco, Roma 1984, p. 233; Coryciana, a cura di J. Ijsewijn, Romae 1997, pp. 196-198, 357, 363 s., 399; F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di M. Ariani - M. Gabriele, Milano 1998, I, p. 8; II, pp. 10 s., 492, 495 s., 503; O. Rossi, Elogi historici de’ bresciani illustri, Brescia 1620, pp. 204-208; A.M. Querini, Specimen variae literaturae quae in urbe Brixia eiusque ditione paulo post typographiae incunabula florebat, II, Brixiae 1739, p. 312; G.G. Liruti, Notizie delle vite e delle opere scritte da letterati del Friuli, II, Venezia 1762, pp. 98-111, 204; C. Caporali, Rime, Perugia 1770, pp. 246 s.; G. Geremia, Vita e opere di A. M., Palermo 1901; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, 1, Roma 1908, pp. 10, 380 s.; G. Fatini, Su la fortuna e l’autenticità delle liriche di L. Ariosto, in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXXXIV (1924), 133, suppl. n. 22-23, p. 287; M. Catalano, Vita di Ariosto, I, Genève 1930, pp. 191-193; M. Cristofari, Il Codice Marciano it. XI, 66, Padova 1937, pp. 45 s.; D. Gnoli, La Roma di Leone X, Milano 1938, pp. 119 s.; U. Da Como, A. M., Brescia 1959; A. Benedetti, Un pordenonese amico dell’Ariosto. A. M. (1475-1527) citarista e improvvisatore latino alla corte pontificia, Udine 1962; M. Calvesi, La «pugna d’amore in sogno» di Francesco Colonna romano, Roma 1966, pp. 60-64; M.T. Casella - G. Pozzi, Francesco Colonna. Biografia e opere, I, Padova 1969, p. 94; L. Santini, Un bresciano alla corte di Leone X: A. M., in El Carobe, 1976, n. 2, pp. 109-112; A. Casadei, La strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo «Furioso», Pisa 1988, pp. 121, 144 n.; M. Gallo, Aldo Manuzio e l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, in Storia dell’arte, 1989, n. 66, pp. 143-157; S. Coltellacci, Francesco Colonna, A. M. e gli Estensi. Note biografiche e documenti inediti, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento. Atti del Convegno internazionale di studi ... 2004, a cura di S. Colonna, Roma 2004, pp. 620-622; M.E. Cosenza, Biographical and bibliographical Dictionary of the Italian humanists, III, pp. 2189 s.