MICHIELI, Andrea (Andrea Vicentino. – Figlio di Vincenzo e di Angelina, il M. nacque attorno al 1542 a Vicenza, come si evince dall’appellativo con cui è noto. La data di nascita si ricava dall’atto di morte, che lo dichiara deceduto all’età di 76 anni, a Venezia, nel 1618 (Battistella). Non si hanno notizie sulla sua giovinezza e sulla formazione di pittore, che, in base alle attitudini formali palesate nella successiva produzione, si ritiene per lo più avvenuta nella città natale al seguito di Giovanni Battista Maganza il Vecchio, Giovanni Antonio Fasolo o Battista Zelotti. In realtà, per quanto è noto, la sua carriera si svolse integralmente a Venezia, dove ottenne un discreto successo fin dall’ottavo decennio. Qui si affermò come uno tra i più prolifici artisti della generazione formatasi prevalentemente sugli insegnamenti di Tintoretto (Iacopo Robusti) e Paolo Caliari detto il Veronese (Ridolfi ne fa in tal senso una sorta di autodidatta)
, tanto da guadagnarsi, un secolo dopo, un posto tra i pittori delle cosiddette «sette Maniere» elaborate da Boschini.
Il suo trasferimento a Venezia si colloca al più tardi nel 1572. Il 3 marzo di quell’anno, infatti, il M. contrasse nozze nella locale parrocchia di S. Barnaba, dove viveva, con Elena Bellotti.
Con lei ebbe almeno quattro figli, tutti battezzati nella stessa chiesa: Paolo Emilio (1574), Marietta (1580), Isabella Chiaretta (1581; padrino lo scultore Girolamo Campagnola) e Marco Antonio (1583; padrino il miniatore Camillo Boninsegna), che seguirà le orme del padre, forse aiutandolo in bottega.
Soltanto nel 1583 il M. appare iscritto, per la prima volta, all’arte dei pittori veneziani, della quale fece parte con continuità fino al 1617. La sua attività a Venezia va però anticipata di almeno un decennio, dal momento che nel 1571-72 lavorava per il patrizio Ludovico Priuli, figlio del doge Girolamo e importante uomo politico, insignito della carica vitalizia di procuratore de ultra (Mancini).
Con atto rogato a Venezia il 15 febbr. 1572, il M. compone una controversia sorta con gli eredi testamentari di Priuli, morto nel settembre 1571, a proposito dei pagamenti di alcune pitture da lui eseguite nel palazzo padovano del nobiluomo. L’edificio era stato innalzato a partire dal 1568 ed era ancora in costruzione al momento del decesso del proprietario. Le carte d’archivio ricordano un perduto e non datato «accordo con Andrea da Vicenza Pictore», che doveva riguardare i lavori menzionati nel compromesso del 1572: «pitture fatte […] sì intorno alli muri delle camere, porteghi, sale, mezadi, soffittadi, et similmente in ogni luogo de ditta casa, et portati in chiesa alli Scapucini de Padova per lui magistro Andrea fatti». Per l’esecuzione di quelle opere, il M. era creditore di 25 lire, ma pretendeva ancora 4 ducati per un Cristo alla colonna e altri 3 «per haver conzato nel luoco chiamato Belveder in detta casa certe calcine, che cascarono et una arma priola». Nel conto totale, inoltre, risultano non essere compresi tre quadri: «uno del Testamento Vecchio, l’altro de S. Catherina, l’altro de S. Giustina», tutti annoverati nell’inventario dei beni del palazzo stilato il 7 ott. 1571 (ibid., p. 312).
Il cospicuo numero di dipinti dovette tenere il M. impegnato a lungo: pertanto è plausibile ipotizzare un ingaggio attorno al 1570. Non è escluso, inoltre, che Priuli gli avesse procurato la commissione di una pala per la chiesa della Concezione di Maria di Piove di Sacco, annotata nel XVIII secolo da Pietro Brandolese e nel 1809 da Giannantonio Moschini (ibid., p. 316): non soltanto, infatti, il patrizio aveva disposto nel 1569 un lascito testamentario per l’edificazione della chiesa, ma la tela, ora dispersa, raffigurava l’effigie del padre, il doge Girolamo Priuli. Non si conoscono le dinamiche che favorirono l’instaurarsi di un rapporto di committenza tanto prestigioso e remunerativo.
Il caso, d’altronde, non sembra isolato, se si presta fede alla testimonianza di Ridolfi (p. 147), secondo il quale il M. fu «favorito da uno de’ Signori soprastanti la nuova fabbrica del Palazzo Ducale di casa Cicogna suo compare».
A detta del biografo, il patrocinio di questo patrizio avrebbe consentito al M. di ricevere l’incarico di dipingere il primo quadro sulla parete ovest nella sala dello Scrutinio, la cui decorazione fu intrapresa, insieme con quella dell’adiacente sala del Maggior Consiglio, dopo l’incendio del 20 dic. 1577. Non essendovi alcun esponente della nobile famiglia Cicogna tra i provveditori deputati a soprintendere i lavori di ripristino, è stata avanzata l’ipotesi che il personaggio in questione fosse lo stesso Antonio Cicogna, fratello del futuro doge Pasquale, cui nel 1578 il Consiglio dei dieci delegò il compito di pagare a Francesco Bassano (Dal Ponte) il Giovane il compenso di alcune tele eseguite per il palazzo (Mancini).
La partecipazione del M. nel grande cantiere delle due sale ne avrebbe decretato la consacrazione presso i vertici del ceto dirigente, qualificandolo come uno dei principali protagonisti di quella stagione artistica che, nell’ultimo quarto del secolo, contribuì a ridefinire l’immagine ufficiale di Venezia attraverso la rilettura della sua memoria storica e la rielaborazione della tradizionale retorica celebrativa. Stando alla descrizione di Girolamo Bardi, il M. realizzò per la sala dello Scrutinio le seguenti tele: I Veneziani respingono l’assedio di Pipino, Vittoria navale dei Veneziani contro Pipino (parete ovest), Presa di Cattaro, Vittoria di Lepanto (parete est), Vittoria a Rodi (soffitto). Per il Maggior Consiglio eseguì invece: La consegna dell’anello al doge Sebastiano Ziani (parete nord), La riconquista di Zara, Il principe Alessio Comneno supplica l’aiuto del doge Enrico Dandolo, Enrico Dandolo accoglie Baldovino di Fiandra eletto imperatore d’Oriente (parete sud), Il doge Leonardo Loredan consegna agli ambasciatori di Norimberga i testi delle leggi veneziane e Trofei (soffitto, monocromi). A queste pitture, prive di una datazione sicura ma certamente finite entro il 1600, vanno aggiunti alcuni pannelli nel soffitto della sala del Senato: una coppia di Guerrieri romani e una di Filosofi e, soprattutto, l’allegorica Venere nella fucina di Vulcano, che si ritengono ultimati verso la metà degli anni Ottanta (Franzoi, pp. 138-140).
Nelle tele del Maggior Consiglio e dello Scrutinio, in particolare, il M. dimostra una spiccata attitudine a comporre articolate scene narrative, spesso di tema bellico, in cui coordina con sapienza registica e ampiezza scenografica le gesta dei singoli protagonisti e i movimenti delle masse che li circondano. Le soluzioni di volta in volta adottate permettono così di soddisfare l’esigenza, dichiarata nel programma iconografico del ciclo, di illustrare episodi esemplari della virtù eroica dimostrata dai patrizi veneziani nel corso dei secoli, sottolineandone l’effetto benefico sulla popolazione. Tale inclinazione raggiunge l’apice nelle due tele in cui i Veneziani respingono l’assedio di Pipino, e trova un’efficace espressione anche nella Consegna dell’anello, dove il M. indaga uno dei temi che diverranno portanti della sua pittura anche religiosa, vale a dire l’investitura di potere concessa ai rappresentanti dell’autorità costituita. L’abilità nel concepire vasti congegni spaziali si apprezza soprattutto nell’enorme tela con la Vittoria di Lepanto, dove l’azione è raccontata con profusione di dettagli e un dinamismo vorticoso, e ancora negli episodi che vedono protagonisti Alessio Comneno e Baldovino di Fiandra, in cui il M. sfrutta la verticalità del formato per scalare le figure dal primo piano allo sfondo e disporle in ordine gerarchico, con i principali protagonisti al centro di monumentali scenari architettonici.
Negli anni in cui fu al servizio della Serenissima, il M. lavorò anche per Vicenza, eseguendo la decorazione del salone dei Cesari al piano nobile del palazzo palladiano di Montano Barbaran. L’impresa venne datata tra 1580 e 1583 e la paternità dei dipinti, resa evidente dal confronto con la produzione del M., è ratificata da un’annotazione riportata dall’architetto Inigo Jones nel 1614 (Binotto, 2000; Barbieri).
Il ciclo si compone di nove tele incassate nei lacunari del soffitto, in cui sono illustrate le gesta di Scipione l’Africano, e di dodici tele alle pareti, tre per lato, ciascuna raffigurante un episodio relativo alla vita di un imperatore romano, in corrispondenza di altrettanti busti dei cesari in gesso e stucco (opere dello scultore Agostino Rubini). L’esplicito intento autocelebrativo del committente trova nel M. un interprete idoneo, in grado di mettere a punto – soprattutto nei pannelli del soffitto – un linguaggio poderoso, direttamente raffrontabile a quello dei dipinti di Palazzo ducale, dove si coniugano la retorica gestuale di ascendenza veronesiana, in particolare nelle pose enfatizzate dei personaggi, e la vivacità compositiva di matrice tintorettiana.
La produzione del M. si caratterizza anche per l’ampio numero di pale d’altare, molte delle quali firmate («Andrea Vicentinus f.»), che coprono una vasta estensione geografica, dalla laguna alla terraferma veneta fino ai territori bergamasco, friulano, trentino e finanche lungo la costa dalmata.
In esse il M. si attiene a schemi compositivi semplificati, fondati sull’immediatezza della visione, sulla monumentalità delle figure e sull’accostamento di colori accesi. Da questo punto di vista non si ravvisano particolari sviluppi all’interno di questo settore della sua attività artistica. Generalmente l’impianto spaziale prevede una separazione tra le figure dominanti nella centina (il Padre Eterno, la Madonna col Bambino oppure un Santo vescovo, tutti circondati da caratteristici nugoli di angeli svolazzanti), e i santi intermediari collocati in basso in primo piano, offerti alla visuale ravvicinata del devoto, entro uno spazio definito solo da brevi quinte architettoniche laterali fortemente scorciate. Questi elementi sono già stabilizzati nella Madonna col Bambino, i ss. Rocco, Francesco e Cecilia in S. Giovanni Battista a Taleggio, frazione Sottochiesa (Bergamo), firmata e datata 1581, e si ripetono in una lunga serie di analoghe opere devozionali. Per la qualità esecutiva e per il leggero scarto compositivo vanno segnalate la pala già nel duomo di Sacile, con S. Gregorio tra i ss. Giorgio e Biagio (rubata nel 1975), quella in S. Marco a Stevenà di Caneva (Pordenone), raffigurante la Madonna col Bambino, i ss. Marco e Giacomo, nonché la Madonna del Rosario (Treviso, S. Nicolò), in cui forse è effigiato il doge Marino Grimani, eletto nel 1595, a sua volta da mettere in relazione con la Madonna che consegna lo scapolare a s. Simone Stock (Rovigo, duomo), tutte opere firmate.
Nel nono decennio il M. partecipò insieme con Iacopo Palma il Giovane, Domenico Tintoretto, Carlo Caliari e Antonio Vassillacchi l’Aliense, alla decorazione della chiesa di S. Croce a Belluno, realizzata a sostegno delle finalità didattiche della Scuola della dottrina cristiana, istituita in quell’edificio dal vescovo Giovanni Battista Valier nel 1580 (Romagnolo).
Il M. contribuì con una Deposizione dalla croce (ora Venezia, Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista, in deposito dalle Gallerie dell’Accademia), firmata, dove dimostra ancora una volta di trovarsi a proprio agio nelle grandi dimensioni e di sapere applicare a un soggetto sacro l’attitudine narrativa sviluppata a palazzo ducale (si noti, tra l’altro, una figura di soldato ripresa dagli episodi della Presa di Cattaro e della Riconquista di Zara, combinato con quello effigiato a sinistra nella Consegna dell’anello).
Negli anni Novanta il M. ebbe altri quattro figli con una seconda moglie, di nome Santa.
Elena Virgilia (1591, padrino il pittore Antonio Callegarini), Gabriele Giovanni (1594), Giannantonio Angelo (1596-98) e un ultimo maschio cui venne dato lo stesso nome del precedente (1599).
In questo decennio lavorò a pieno regime sia per la Serenissima sia per committenti dell’entroterra. Nel 1593 firmava e datava la gigantesca tela raffigurante la Visione miracolosa di Baldissera Zanon e suo processo. La stessa data è riportata in un’incisione che illustra lo Sbarco di Enrico III al Lido, una delle sue opere più celebrate (Venezia, Palazzo ducale, sala delle Quattro porte), in cui viene commemorato il solenne ingresso trionfale allestito dalla Repubblica in onore di Enrico III di Valois nel 1574.
I due dipinti possono essere messi a confronto rispettivamente con la La processione del Santissimo Sacramento (Piove di Sacco, duomo, oratorio del Paradiso; in deposito al Museo diocesano di Padova) e con lo Sbarco trionfale della dogaressa Morosini in piazza S. Marco (Venezia, Museo Correr), identificato con il quadro menzionato nel Seicento da Ridolfi in palazzo Grimani sul Canal Grande a S. Luca, e realizzato tra il 1597 (anno dell’avvenimento raffigurato) e il 1606 (quando il Bucintoro venne ricostruito in forme diverse da quelle immortalate nel dipinto; Padoan Urban).
Forse al 1594, data riportata in un’antica riproduzione grafica, risale la tela raffigurante le Nozze di Cana, già nella chiesa veneziana di Ognissanti (ora in S. Trovaso). Nel 1598 firmò e datò la pala del duomo di Gambarare (Venezia), con il Padre Eterno e le Virtù teologali, una delle opere più rappresentative del suo catalogo, dove sono lampanti i riferimenti tipologici e cromatici ai modelli veronesiani, pur rielaborati. Per la presenza delle Virtù, il soggetto è affine alla grande tela con Il serpente di bronzo e il Crocifisso, firmata, in S. Maria Gloriosa dei Frari, chiesa madre dei francescani a Venezia. Il quadro, ora nel braccio sinistro del transetto, era sistemato in origine alle pareti della cappella maggiore, insieme con Adamo ed Eva (perduto), il Paradiso e il Giudizio universale (ricollocati all’interno della chiesa).
Gli stessi soggetti ritornano nella serie di tele più piccole installate sul lato destro esterno del coro, mentre sul lato opposto altri tre dipinti illustrano le Sette opere di misericordia. Le due versioni del Paradiso vanno messe in relazione con due modelletti conservati alla Walker Art Gallery di Liverpool, già nella collezione Calmann a Londra (Mullaly). Le Sette opere di misericordia sono invece raffrontabili, per concezione, a due scene della vita di s. Girolamo conservate, insieme con altrettanti episodi di s. Carlo Borromeo, nella cappella destra del presbiterio di S. Sebastiano. Ancora ai Frari, nella cappella dei Ss. Francescani, si conserva una tela firmata, raffigurante la Visione di s. Francesco in primo piano e L’approvazione della regola sullo sfondo.
Tra i lavori documentati si annoverano quelli per la chiesa parrocchiale di Vigonovo (Pordenone), purtroppo perduti: si tratta di una pala realizzata tra la fine del 1599 e il 1600, e di un gonfalone per il quale il M. ricevette pagamenti tra il 1602 e il 1605 (Goi). A ridosso del 1600 va presumibilmente collocata la Trinità con i ss. Pietro e Marco (Bassano del Grappa, Museo civico), firmata, poiché in quell’anno fu edificato l’altare dei Lanieri nella locale chiesa di S. Francesco, dove essa si trovava.
Nonostante le numerose commissioni da fuori, il M. continuò a essere richiesto anche a Venezia. Dovrebbe infatti essere proprio lui l’autore delle otto tele per la parete sud della sala dello Scrutinio, a coronamento del Giudizio universale di Palma: si tratta di quattro Profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele) e dei quattro Evangelisti.
Nel 1606 firmava e datava una delle tele della sacrestia della chiesa domenicana dei Ss. Giovani e Paolo, nella quale vengono illustrati in sequenza il Sogno del doge Jacopo Tiepolo e Il doge dona il terreno ove sorgerà la basilica, episodio che ancora una volta viene inscenato con il ritmo delle processioni solenni.
È forse coeva la Caduta della manna nel presbiterio della chiesa parrocchiale di S. Vito d’Asolo (Treviso), pendant di un’Ultima cena datata 1606 di Marco Vecellio. Stando a un inventario settecentesco, nello stesso anno il M. realizzò il Trasporto dell’arca santa per il soffitto dell’oratorio della Ss. Trinità a Chioggia (Manzato), un’opera degna delle migliori invenzioni di palazzo ducale, che conduce l’occhio dello spettatore verso il fulcro dell’azione attraverso un canale prospettico scavato tra la folla e le architetture. La composizione venne ribaltata da sinistra a destra nella tela di identico soggetto nella chiesa di S. Caterina a Venezia, per la quale il M. realizzò un piccolo ciclo veterotestamentario recante la data del 1607. La versione clodiense è inoltre rielaborata nelle ante d’organo esterne della chiesa veneziana di S. Zulian (S. Giuliano e S. Girolamo all’interno), cui si riferisce il modello conservato al Musée des beaux-arts di Nantes. Anche se forse è da considerarsi anteriore, la Decollazione del Battista in S. Maria Assunta a Clusone (Bergamo), data al M. per attribuzione, può essere associata allo stesso tipo di struttura spaziale.
Le notizie relative agli ultimi anni di attività del M. sono rade.
Il citato inventario della Ss. Trinità di Chioggia riferisce che il M. eseguì altre pitture per le pareti dell’oratorio: il Battesimo di Cristo e David davanti a Natan nel 1608; David uccide Golia e l’Entrata di Cristo in Gerusalemme nel 1610; La regina di Saba davanti a Salomone e il Passaggio del Mar Rosso nel 1611.
Nel 1612 firmò e datò il S. Liberale vescovo benedice gli infermi della chiesa dei Carmini di Venezia, in cui si concentrano tutti i caratteri tipici della sua produzione di pale d’altare. L’ultimo dipinto conosciuto è la Madonna con s. Carlo e ss. cappuccini della chiesa dei Cappuccini di Mestre, firmata e datata 1617.
Negli anni conclusivi, la sua vita affettiva conobbe un momento festoso, quando nel 1613 venne celebrato il matrimonio della figlia Elena, ma anche un evento tragico come la morte del figlio Marco Antonio nel 1615, di cui resta una Caduta della manna conservata nel presbiterio della chiesa dei Carmini. Tre anni più tardi, il 15 maggio 1618, anche il nome del M. venne registrato nei necrologi della parrocchia di S. Barnaba.
Fonti e Bibl.: G. Bardi, Dichiaratione di tutte le istorie che si contengono ne i quadri posti nuovamente nelle sale dello Scrutinio, et del Gran Consiglio …, Venezia 1587, ad ind.; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte. Ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello Stato (1648), a cura di D. von Hadeln, Berlin 1924, II, pp. 147-149; M. Boschini, La carta del navegar pitoresco. Edizione critica con la «Breve Instruzione» premessa alle «Ricche Minere della pittura veneziana» (Venezia 1660), a cura di A. Pallucchini, Venezia-Roma 1966, ad ind.; A.M. Zanetti, Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri, Venezia 1771, pp. 330-336; E. Bassi, Una pala di A. Vicentino a Gambarare, in Arte veneta, IV (1950), pp. 148-150; T. Mullaly, Two modelli by A. Vicentino, in The Burlington Magazine, CVI (1964), 740, pp. 507-509; C. Donzelli - G.M. Pilo, I pittori del Seicento veneto, Firenze 1967, pp. 418-423 (con bibl.); P. Goi, Di alcuni pittori veneti attivi in Friuli. Tizianello, Tommaso Vecellio, A. Vicentino, Girolamo Turro, Andrea Urbani, in Bollettino della Biblioteca e dei Musei civici e delle Biennali d’arte antica, XI (1972), pp. 61-74; E. Manzato, Il soffitto dell’oratorio della Ss. Trinità di Chioggia, in Arte veneta, XXVI (1972), pp. 111-120; P.L. Fantelli, L’ingresso di Enrico III a Venezia di A. Vicentino, in Quaderni della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Venezia, VIII (1979), pp. 95-99; L. Padoan Urban, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento (catal., Venezia), a cura di L. Puppi, Milano 1980, p. 159; V. Sgarbi, Palladio e la maniera. I pittori vicentini del Cinquecento e i collaboratori del Palladio 1530-1630 (catal., Vicenza), Venezia 1980, pp. 130-135; R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, Milano 1981, pp. 37-41; P.L. Fantelli, A. M. detto Vicentino, in Da Tiziano a El Greco. Per la storia del manierismo a Venezia (catal., Venezia), Milano 1981, p. 234; U. Franzoi, Storia e leggenda del palazzo ducale di Venezia, Venezia 1982, pp. 9-12, 74, 138-140, 234-237, 253, 256 s., 259, 323, 332-334, 345-347, 350-352; M. Olivari, Presenze venete e bresciane, in I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, II, Bergamo 1984, pp. 161 s., 179 s.; S. Claut, Per A. Vicentino, in Archivio storico di Belluno Feltre e Cadore, LVIII (1987), 261, pp. 155-157; S. Coppa, L’arrivo di opere d’arte dai luoghi di emigrazione, in Arte lombarda, n.s., LXXXVIII-LXXXIX (1989), 1-2, pp. 80 s.; P. Brandolese, Del genio de’ Lendinaresi per la pittura, a cura di V. Sgarbi, Rovigo 1990, pp. 43 s., 101-103; P.L. Bagatin - P. Pizzamano - B. Rigobello, Lendinara. Notizie e immagini per una storia dei beni artistici e librari, Treviso 1992, ad ind.; E. Merkel, Le portelle di A. Vicentino per l’ antico organo di S. Zulian. Un recupero avventuroso, in Arte veneta, XLVI (1994), pp. 104 s.; P. Battistella, Notizie biografiche di A. M. detto Vicentino, in Venezia arti, IX (1995), pp. 145 s.; M. Binotto, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, II, a cura di M. Lucco, Milano 1998, pp. 1265 s. (con bibl.); A. Romagnolo, Il Polesine di Rovigo 1540-1600, ibid., pp. 889, 894-896; V. Mancini, Per la giovinezza di A. M. detto il Vicentino. Il pittore di «Cha Priuli», in Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, cl. di scienze morali, lettere ed arti, CLVIII (1999-2000), 2, pp. 305-328; R. Clochiatti Garla - P. Casadio, Una pala di A. Vicentino a Stevenà di Caneva, in Arte veneta, LVII (2000), pp. 91-93; M. Binotto, in Guida a palazzo Barbaran Da Porto, Vicenza 2000, pp. 49-59, 91; G. Ericani, in Dall’Adige alle Alpi. Tesori ritrovati della Chiesa di Padova (catal.), a cura di A. Nante, Padova 2003, pp. 78 s.; M. Abiti, Il tempio di S. Nicolò a Treviso, Ponzano Veneto 2004, pp. 49-51, 142, 150; A. Piai, Qualche nuova attribuzione ad A. Vicentino, in Verona illustrata, XVIII (2005), pp. 51-57; F. Barbieri, Affreschi del Cinquecento nei palazzi vicentini, in Nel palagio. Affreschi del Cinquecento nei palazzi urbani, a cura di F. Monicelli, San Giovanni Lupatoto 2005, pp. 254, 256, 265.
G. Tagliaferro