MORONI, Andrea
– Figlio di Bartolomeo e discendente da almeno tre generazioni di costruttori provenienti dal paese di Albino, a nord est di Bergamo, è documentato per la prima volta nel monastero di S. Giacomo di Pontida, dove compare come testimone in alcuni atti notarili nel 1521, 1523 e 1527, identificato come «magistro» e qualificato come lapicida (Petrò, 1999, p. 23). Non si hanno certezze sulla data di nascita: considerando che viene definito «magistro» nel documento rogato a Pontida del 1521 e che risulta sposato nel 1522 con Maddalena Teutaldi, figlia di Giovan Pietro da Spino di Albino, la si può ipotizzare sul crinale del cambio di secolo.
Un testimone oculare lo descrive nel 1532 in modo compatibile a una piena maturità, come «homo scarno et bruno, cum barba negra, vistito de negro» (Beltramini 1995, pp. 84 s.). Nel 1546 risulta ancora sposato con Maddalena, con una figlia, Caterina, e un figlio, Antonio, morto da poco.
Nel 1555 Caterina entrò nel monastero di S. Maria di Betlemme. Alla morte di Maddalena, in data imprecisata, Moroni si risposò con Prudenza, figlia di un Faustino da Brescia, dalla quale ebbe una figlia, Scolastica, e un figlio Giampaolo, che alla morte del padre nel 1560 era ancora minore, anche se nel 1570 poté partire per la guerra contro il Turco.
Nel 1527 Moroni è documentato firmare un contratto insieme al padre per la costruzione di una officina ad Albino ma è possibile che nello stesso anno realizzasse il ben più impegnativo edificio del coro delle monache del monastero di S. Giulia a Brescia, anch’esso, come quello di Pontida, affiliato alla Congregazione Cassinese, la potente compagine monastica che raggruppava i principali cenobi benedettini italiani.
L’edificio, che oggi è inglobato nella attuale chiesa del monastero, di cui costituisce il presbiterio, mentre in origine era una struttura su due livelli addossata alla facciata della antica chiesa romanica di S. Salvatore, con la parte superiore funzionante come coro pensile delle monache, è costruito sapientemente con potenti volte collaboranti, sul modello della chiesa di S. Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti, mostrando soluzioni che si ritrovano in successive opere di Moroni.
La paternità moroniana dell’opera muraria è probabile, ma solo indiziaria, mentre è documentata la realizzazione di un coro ligneo al suo interno, a due ordini di sedili, per complessivi 91 scranni, commissionatogli nel settembre 1530, ancora in lavorazione nel febbraio 1532 e oggi non più esistente. Nel luglio 1529 Moroni è indicato fra i testimoni di un atto rogato nel monastero cassinese di S. Faustino a Brescia e qualificato come architetto. Tale presenza è da collegarsi molto probabilmente a un cantiere in essere in quegli anni sotto la sua direzione. Consente di ipotizzarlo un successivo arbitrato richiesto dai monaci di S. Faustino nell’aprile 1534, a verifica di lavori realizzati da Moroni.
Nella vertenza venne messa in discussione l’ala orientale del grande chiostro dove, per rendere possibili le ampie sale a piano terreno, Moroni fece reggere il peso delle mura delle celle del dormitorio al primo piano esclusivamente dai soffitti a volta, opportunamente rinforzati. La soluzione generò dei dissesti che i monaci contestarono a Moroni, giungendo, per altro in breve, a un accordo. L’area sotto inchiesta coinvolgeva uno dei quattro lati di un grandioso cortile quadrato a 19 arcate, impostate su colonne doriche binate che reggono un segmento di trabeazione, secondo modelli in uso in altri monasteri della Congregazione Cassinese, e presenti nella trattatistica architettonica coeva. Il disegno dei particolari dell’ordine architettonico del chiostro di S. Faustino, tuttavia, mostra una maggiore sicurezza rispetto ai modelli di riferimento. L’arbitrato del 1534 riferisce a Moroni solamente il dormitorio e un ambiente minore, ma è probabile che egli fosse autore anche del chiostro maggiore, nella cui ala orientale è inserito il dormitorio, anche perché nelle premesse al documento si richiama un mandato complessivo per l’architetto «de faciendo et fieri faciendo fabricam dicti monasterii... in laudabile forma» (Boselli, 1977, p. 36). I lavori a Pontida e a Brescia dovettero porre Moroni in buona luce agli occhi dei vertici cassinesi se, nel luglio 1532, venne chiamato a dirigere il più ambizioso cantiere della Congregazione, la chiesa di S. Giustina a Padova, adiacente al cenobio da cui aveva avuto origine la compagine monastica più di un secolo prima, a opera di Ludovico Barbo. Moroni ottenne l’incarico da Teofilo da Milano, abate di S. Giustina e presidente della Congregazione, già a capo del monastero di S. Faustino a Brescia nel 1530, al tempo dei lavori governati da Moroni. La chiamata generò un radicale cambiamento del suo status economico e professionale, sulla base di un contratto decennale in esclusiva che gli riconobbe ben 120 ducati all’anno, più vari benefici in natura. Nell’aprile 1545 Moroni poté così comprarsi una casa per 270 ducati nei pressi del monastero, in contra’ S. Maria di Betlemme. Fino alla morte nel 1560, l’incarico fu una costante fonte di reddito, anche se il lauto contratto iniziale venne ridimensionato per compensare la cancellazione della clausola di esclusiva e consentirgli di cumulare i redditi provenienti da altri incarichi.
Sul piano professionale la fabbrica di S. Giustina fu una sfida, per le enormi dimensioni dell’edificio e per la storia travagliata del cantiere che si trascinava da più di trent’anni, con tre progetti alternativi. All’arrivo di Moroni le fondazioni erano state integralmente tracciate, a partire dal 1521, per opera di un capomastro locale, Matteo Da Valle, l’uomo di fiducia cui i monaci si erano affidati dopo il fallimento dei precedenti progetti.
Questi aveva montato insieme suggestioni provenienti dai disegni degli architetti che si erano succeduti, da altre chiese della Congregazione e persino dal progetto di fra Giocondo per la chiesa di S. Pietro a Roma, redatto intorno al 1506. Il risultato era stato un impianto ibrido che innestava la navata di una chiesa longitudinale su un corpo di chiesa a pianta centrale.
La metà superiore dell’edificio era infatti organizzata per accogliere una cupola circondata da quattro cupole minori, secondo lo schema centralizzato detto ‘a quincunx‘ della chiesa di S. Marco a Venezia.
Intorno a questo nucleo si disponevano su tre lati le braccia di transetto e presbiterio, affiancate da cappelle minori. Sul quarto lato si apriva la navata centrale, dove si alternavano le fondazioni di pilastri maggiori e pilastri minori, due navate laterali con cappelle. Da Valle, che aveva anche innalzato al grezzo la maggior parte delle murature perimetrali della chiesa, era morto nell’aprile 1532. Moroni confermò la struttura a quincunx, ma modificò decisamente la longitudinalità delle navate, unificando lo spazio di quella centrale con le laterali. Rinunciò a costruire i pilastri minori, coprendo le navate laterali con potenti volte a botte, poste ortogonalmente all’asse longitudinale della navata. Esse controventavano i catini che coprivano le campate della navata centrale, creando un sistema di volte collaboranti. Il risultato fu un grandioso spazio unitario, che guardava, in modo inedito per il Veneto, alle grandi costruzioni romane antiche. Alla morte di Moroni era in uso da cinque anni la zona della crociera, separata dalla navata in costruzione con un muro temporaneo, e ciò significa che erano definiti tutti gli elementi dell’ordine architettonico.
La dimensione smisurata della chiesa e il già costruito imposero a Moroni alcuni solecismi nel disegno degli ordini architettonici. Moroni ereditò una chiesa ‘veneziana’ nella concezione del Da Valle, e tentò di trasformarla in uno spazio ‘alla romana’, per quanto concessogli dai vincoli e dalla propria cultura. Non vi riuscì compiutamente, ma certamente il fascino di S. Giustina è proprio nell’essere un organismo in trasformazione, in bilico fra i due mondi.
L’arrivo dell’esperto Moroni al governo della fabbrica di S. Giustina portò anche a una modifica radicale delle pratiche di cantiere: fino a quel momento i monaci avevano gestito in prima persona i rapporti con l’architetto incaricato e con le diverse squadre di lavoranti. Moroni invece accentrò nelle proprie mani la direzione tecnica e contabile, selezionando le maestranze, sorvegliando l’esecuzione e tenendo la contabilità dei lavori, poi liquidati dal cellerario del monastero. La competenza tecnico-gestionale deve aver costituito uno degli elementi sostanziali della sua chiamata alla direzione di un’altra impresa edilizia cittadina, il palazzo del Podestà, sede del governatore veneziano in Padova. Il sito era adiacente a quello del palazzo della Ragione e affacciato per due lati su una delle principali piazze della città. Moroni venne pagato come responsabile del cantiere dal 1° novembre 1539 sino alla morte nell’aprile 1560, e con questo incarico iniziò una carriera parallela al servizio della Repubblica veneta che lo portò a divenire il responsabile delle principali fabbriche civili pubbliche di Padova. Il cantiere ebbe inizio nel 1541 con la fondazione dei pilastri sul lato occidentale, per giungere alla copertura del tetto nel 1558, mentre l’anno successivo ancora si lavorava all’accesso posteriore tramite un cortile pensile, definitivamente concluso solo nel 1601. Intervenendo in una causa del novembre del 1549, Moroni si qualificò come responsabile dei due principali edifici cittadini in costruzione, sottolineando l’integrale ideazione del secondo: «Io son protho de santa Justina et del pallazo di Padova, ho fatto li mei modelli, maxime quel del pallazo» (Rigoni, 1939, p. 71).
Il progetto era obbligato da vincoli stringenti, in quanto l’ingresso agli ambienti di rappresentanza avveniva dalla loggia superiore dell’adiacente palazzo della Ragione, vincolando la quota del piano di calpestio del piano nobile del nuovo edificio. Ciò costrinse Moroni a un basamento a bugnato eccessivamente allungato. Al piano nobile disegnò grandi paraste doriche, che salgono a comprendere anche il piano di un mezzanino sino a sorreggere una alta trabeazione. L’edificio è indubbiamente imponente, e ancora una volta Moroni si dimostrò in grado di gestire in modo efficace la grande dimensione. La bipartizione del palazzo tuttavia non è veramente risolta, con il secondo piano che non riesce a vincere la forza preponderante del primo. Nel disegno del prospetto, Moroni unificò suggestioni provenienti da edifici diversi, da palazzo Canossa a Verona di Michele Sanmicheli, a palazzo Te a Mantova di Giulio Romano. Il peculiare sito d’angolo non è còlto nelle sue potenzialità plastiche, con una lesena posta a rivestire sullo spigolo dell’edificio, soluzione corretta ma ben diversa dal potente nodo strutturale con cui Andrea Palladio stava risolvendo in quegli anni l’analogo elemento delle logge del palazzo della Ragione a Vicenza.
A partire dal 1558 circa, Moroni cominciò la costruzione di un cortile pensile al primo piano, che costituiva un brillante nodo distributivo per l’ingresso posteriore all’edificio, alternativo all’entrata attraverso le logge del palazzo della Ragione. Anche se fu concluso dopo la sua morte, è interamente riferibile alla sua concezione ed è sostanzialmente la sua ultima opera.
Il cortile è quadrato, con tre arcate per lato incorniciate da colonne su piedestalli. Queste ultime sono a tutto tondo, parzialmente inserite in ricetti nella muratura, soluzione che ne sottolinea la natura di elementi strutturali e portanti. Come responsabile del cantiere di S. Giustina Moroni fu anche coinvolto in altri cantieri padovani della Congregazione Cassinese. Nel febbraio 1535 è documentato per la prima volta a Praglia, un monastero a poca distanza da Padova, una presenza probabilmente collegata alla progettazione della chiesa del monastero, dedicata alla Vergine, il cui cantiere si attivò a partire dai primi anni Quaranta e di cui esiste un suo disegno autografo di progetto (Beltramini, 1993, p. 75).
Anche questa volta Moroni dovette intervenire su un impianto preesistente, opera di Tullio Lombardo, modificandone radicalmente la spazialità. Inserì un transetto e una cupola, gestendo con sapienza il modo in cui i pilastri di ordine maggiore di imposta della cupola si compenetrano con i pilastri minori della navata, seguendo una soluzione cara a Baldassarre Peruzzi. Nel disegno di progetto compare un grande coro ligneo, posto sotto la cupola, disegnato da Moroni in due versioni diverse, da sottoporre alla scelta dei monaci. Come nel monastero di S. Giulia a Brescia, quindi, Moroni fu insieme costruttore e carpentiere. Dallo stesso foglio è anche possibile dedurre alcuni caratteri della sua proposta per la facciata della chiesa, che nella realtà dovette inglobare parti della chiesa realizzata da Tullio Lombardo.
All’incirca negli stessi anni fu coinvolto nel cantiere della certosa di Vigodarzere, cenobio legato a quello di S. Giustina. Abbiamo notizia dell’avvio dei lavori nel 1534, ma il coinvolgimento di Moroni nei due grandi chiostri e nelle residenze dei monaci è indiziario, sebbene compaia in due arbitrati per un adeguamento prezzi richiesto dagli artigiani coinvolti nel cantiere, nel 1536 in relazione ad alcuni capitelli, e nel 1543 per un modello in legno.
Documentato invece il suo disegno del portale corinzio della chiesa della certosa e, molto probabilmente, dei tre lati del piccolo quadriportico corinzio che vi dà accesso. Questi ultimi furono realizzati interamente in cotto, con gli elementi sagomati su disegno, ed erano molto vicini al fronte originario di Giulio Romano della chiesa del monastero di S. Benedetto in Polirone, anch’essa appartenente alla Congregazione Cassinese.
Nel luglio 1545 Moroni brevettò presso il Senato veneto una macchina per movimentare le saracinesche poste a protezione delle porte di accesso alla città. Dal 1° maggio 1547, cominciò a ricevere altri 50 ducati all’anno come colui «che ha il carico della fabrica delle scole del Bò» (Rigoni, 1971-72, p. 76) vale a dire come responsabile della costruzione della nuova sede dell’Università di Padova. Fulcro del progetto fu un cortile quadrato a sette campate per lato con due ordini sovrapposti di colonne, doriche e ioniche, chiamate a reggere una trabeazione rettilinea. La realizzazione procedette per lati, a partire da quello settentrionale e nel 1558 risulta fosse costruito per tre quarti, per concludersi solo alla fine degli anni Ottanta.
Moroni si dimostra al corrente della nuova tipologia dei ‘palazzi della Sapienza’ diffusi in Italia a partire dal Quattrocento, costruiti intorno a un cortile che, a Padova, ha un carattere spiccatamente monumentale. Con esso Moroni operò una raffinata restituzione archeologica di uno spazio didattico del mondo antico descritto da Vitruvio, la palestra greca. È possibile che il ‘libretto’ dell’opera fosse frutto di riflessioni nate nell’ambiente stesso dell’Università in cui era presente – in quegli stessi anni – Daniele Barbaro, nel 1556 editore del testo di Vitruvio. Il cortile è disegnato con grande abilità e le logge con trabeazione rettilinea anticipano di alcuni anni palazzo Chiericati di Andrea Palladio e dimostrano la conoscenza di Moroni di opere romane come i cortili di palazzo Branconio di Raffaello o di palazzo Massimo di Baldassarre Peruzzi. Il disegno degli elementi degli ordini è letteralmente derivato dalla Libreria Marciana di Jacopo Sansovino a Venezia, a marcare un legame fra le due istituzioni culturali della Serenissima.
Nel 1547 Moroni risulta anche essere consulente dei Riformatori allo Studio per la costruzione dell’Orto botanico, per il quale nel 1546 era stato presentato al Senato veneziano un modello da parte di Daniele Barbaro e del docente di medicina Pietro da Noale. Il suo intervento dovette riguardare gli aspetti costruttivi e il disegno dei pochi elementi decorativi, come un portale bugnato oggi non più esistente.
Nel gennaio 1548 venne consultato per una consulenza relativa alle cupole della basilica del Santo, identificato come «protto et inzegniero di s. Marcho in Padoa» (Sartori, 1976, p. 585) a riprova di un ormai conclamato ruolo di tecnico pubblico. Altre consulenze per la basilica si ripeterono nel 1549 e nel 1556. Da marzo a ottobre 1548 fu impegnato nei lavori di muratura del bastione di S. Croce a Padova, su progetto di Sanmicheli. Nell’aprile 1556 fu pagato più di 90 ducati per spese relative all’arco trionfale eretto per l’ingresso della regina Bona Sforza, regina di Polonia, in visita di Stato a Padova. Su base stilistica gli viene attribuita la loggia cinquecentesca di Corte Capitaniato, identificata con la «loggietta nova appresso la Cancellaria» in costruzione nel 1556 (Rigoni, 1939, p. 37).
Meno nutrita la documentazione riguardo a incarichi di edilizia privata. In una testimonianza a una causa del novembre 1553 risulta aver realizzato i disegni per la facciata di una casa per un certo Antonio Vigonza a Padova. Nel dicembre 1555 Marco Zacco stipulò il contratto con due lapicidi per la fornitura delle parti lapidee della facciata del proprio palazzo in Prato della Valle, su disegno di Moroni. La facciata appare impermeabile alle novità introdotte da Palladio e Sanmicheli, ed è austera al limite dello schematismo con un portico inferiore ad arcate bugnate, un piano nobile con finestre centinate ma privo di ordini, e un attico.
Dai registri contabili cittadini superstiti risultano pagamenti a Moroni almeno dal 1556 sino alla morte per la manutenzione delle saracinesche delle porte cittadine, a fronte di un salario di 40 ducati l’anno. Nel febbraio 1558 gli venne assegnata a vita la gestione delle due catene di sbarramento agli accessi fluviali di Padova, con un salario di 2 ducati al mese, riconoscendogli anche quasi tre anni di arretrati.
Morì a Padova il 28 aprile 1560.
Moroni fu innanzitutto un grande costruttore, cresciuto nei piccoli cantieri gestiti dalla propria famiglia ma capace di costruirsi una carriera di successo sotto l’ala della ricca Congregazione Cassinese. Dalla modesta condizione di partenza, imparò a interloquire con committenti istituzionali di rango elevato, diventando il fiduciario prima dei potenti abati cassinesi a Brescia e Padova e, successivamente, anche degli amministratori veneziani. Dimostrò capacità da vero architetto nel gestire interventi di grande scala, attraverso segni talvolta semplificati ma potenti, e nei progetti di scala minore mostrò sempre competenza nell’uso del linguaggio degli ordini architettonici. Il suo punto di forza fu la capacità di offrire soluzioni concrete a problemi specifici, sulla base di un consumato sapere tecnico unito a una buona conoscenza dell’architettura antica e contemporanea. Il pragmatismo che lo rese ricercato dai committenti, tuttavia, costituì anche il suo limite, impedendogli di sviluppare un linguaggio chiaramente riconoscibile e di essere percepito come un autore, cosa che fu per Palladio o Sanmicheli. A partire da Giorgio Vasari venne ignorato dalla critica d’arte e ancora nel Settecento diverse sue opere erano attribuite ad Andrea Palladio – di cui invece anticipò più di una invenzione – a ulteriore indiretta conferma del suo valore.
Fonti e Bibl.: Architettura di Andrea Palladio vicentino arricchita di tavole diligentemente incise in rame con le osservazioni dell’architetto N. N., IX, Venezia 1760, pp. 8-14; F.M. Tassi, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti bergamaschi, Bergamo 1793, pp. 31 s.; E. Rigoni, L’architetto A. M., Padova 1939; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, XI, 3, Milano 1940, pp. 60-81; W. Lotz, rec. a E. Rigoni, L’architetto A. M., in Zeitschrift für Kunstgeschichte, X (1942), pp. 226 s.; W. Arslan, Una architettura di Tiziano Minio?, in Proporzioni: studi di storia dell’arte, III (1950), pp. 178-184; P.L. Zovatto et al., La Basilica di S. Giustina in Padova. Arte e Storia, Castelfranco 1970; E. Rigoni, Ancora sull’architetto A. M., in Atti e mem. dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti, LXXXIV (1971-72), pp. 75-83; A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, Vicenza 1976, pp. 168-171, 205, 210, 478, 512 s., 553, 585; L. Puppi, Il rinnovamento tipologico del Cinquecento, in Padova case e palazzi, a cura di L. Puppi - F. Zuliani, Vicenza 1977, pp. 110-124, 129-133; C. Boselli, Regesto artistico dei notai roganti in Brescia dall’anno 1500 all’anno 1560. Documenti, Brescia 1977, pp. 36-38, 71-73; G. Sparisi, A. M. proto della Serenissima, tesi di laurea, Istituto universitario di architettura di Venezia, aa. 1983-84; M. Azzi Visentini, L’Orto botanico di Padova e il giardino del Rinascimento, Milano 1984, pp. 149-154; G. Beltramini, A. M. e la chiesa di Santa Maria di Praglia, in Annali di architettura, III (1991), pp. 70-89; G. Mezzanotte, Bernardino da Martinengo, A. M. e l’architettura del primo Cinquecento a Brescia, in Saggi in onore di Renato Bonelli, a cura di C. Bozzoni - G. Carbonara - G. Villetti, I, Roma 1992, pp. 533-538; G. Beltramini, Architetture di A. M. per la Congregazione Cassi-nese: due conventi bresciani e la basilica di Santa Giustina a Padova, in Annali di architettura, VII (1995), pp. 63-94; S. Doll, Der Hof des Palazzo del Bò in Padua, in Arte lombarda, CXIII-CXV (1995), nn. 2-4, pp. 53-61; G. Mazzi, Sul ruolo di Sanmicheli nei cantieri delle difese, in Michele Sanmicheli. Architettura, linguaggio e cultura artistica nel Cinquecento, a cura di H. Burns - C.L. Frommel - L. Puppi, Milano 1995, pp. 204-209, 313-316; G. Mezzanotte, Percorsi del restauro in San Faustino a Brescia, Brescia 1997; B. Kilian, S. Giustina in Padua: benediktinische Sakralarchitektur zwischen Tradition und Anspruch, Frankfurt a.M. 1997; P. Luchesa, A. M. e la Certosa di Vigodar-zere: committenza certosina nella Padova del Cinquecento, in Bollettino del Museo civico di Padova, LXXXVII (1998), pp. 25-54; G. Petrò, I chiostri rinascimentali di Pontida e gli esordi dell’architetto A. M., in La Rivista di Bergamo, n.s., 1999, n. 19, pp. 18-25; G. Tiraboschi, I M. di Albino: A. e Giovan Battista. Il contesto familiare da cui emergono, in Atti dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo, LXIV (2002), pp. 21-46; G. Beltramini, Padova, “El presente domicilio de Pallade” (Ruzante), in Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Milano 2003, pp. 423-427.